Laboratorio Israele
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Storia del miracolo economico israeliano

  1. 312 pagine
  2. Italian
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Laboratorio Israele

Storia del miracolo economico israeliano

Informazioni su questo libro

Com'è possibile che un paese con poco più di sette milioni di abitanti, privo di risorse naturali, travagliato da continue guerre, riesca ad aumentare la sua crescita economica di cinquanta volte in sessant'anni e a diventare il centro propulsore dell'hi-tech? È la domanda a cui risponde Laboratorio Israele, il saggio che Dan Senor e Saul Singer, profondi conoscitori dell'area mediorientale, dedicano al miracolo economico della nazione ebraica.
Israele può vantare la massima concentrazione a livello mondiale di innovazione e imprenditorialità, con un numero di imprese startup, avanguardie della sperimentazione, superiore a quello di Cina, Gran Bretagna, Canada, Giappone e India, e con la più alta presenza di aziende nel NASDAQ, dopo gli Stati Uniti.
Queste sorprendenti performance si fondano su una serie di fattori chiave: il ruolo delle forze armate, dove i giovani, nel lungo servizio di leva, acquisiscono vere e proprie competenze manageriali da reinvestire nel civile; la percentuale di PIL destinata a ricerca e sviluppo, per la quale Israele detiene il primato mondiale; la politica dell'immigrazione, considerata da sempre una risorsa da valorizzare. A legare tra loro questi aspetti e a fare la differenza, però, è la capacità degli israeliani di trasformare, sin dagli albori della loro storia nazionale, le debolezze e le avversità in punti di forza. Tecnologia e coraggio, i due elementi ricordati da Shimon Peres nella prefazione, hanno permesso a questo popolo di vincere sfide che sembravano impossibili, con territori aridi e inospitali o con nemici numericamente superiori. Israele è qualcosa di più di un paese, è un modo di pensare, improntato a quella particolarissima disposizione d'animo che in ebraico si chiama chutzpah: un atteggiamento di intraprendenza temeraria, uno spirito antigerarchico e anticonformista, che permea la società e le istituzioni, dalla scuola all'esercito, e favorisce l'affermazione delle nuove idee.
Ma, ancor più che nei dati, il segreto del miracolo economico israeliano è racchiuso nelle sorprendenti storie raccontate nel libro: da quella dei lavoratori di Intel, che ai tempi della prima guerra del Golfo decidono di continuare la loro attività anche sotto gli attacchi missilistici iracheni, alle brillanti intuizioni che hanno permesso di utilizzare l'acqua salata del deserto per l'itticoltura e la fertilizzazione dei campi, o di sfruttare in campo medico, a scopo diagnostico, le più sofisticate tecniche di miniaturizzazione usate nella realizzazione dei missili. Vicende rivelatrici della tenacia incrollabile di una nazione che, col suo esempio, accende una luce nel tunnel della crisi economica mondiale.

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Informazioni

Parte terza

GLI ESORDI

VI

Una politica industriale che ha funzionato

Non è stato semplice convincere la gente che allevare pesci nel deserto fosse cosa sensata.
SAMUEL APPELBAUM
La storia di come Israele è arrivato dov’è – una crescita economica di cinquanta volte in sessant’anni – non si compone soltanto di idiosincrasie caratteriali israeliane, di spirito d’iniziativa testato in battaglia o di felici contingenze geopolitiche, ma deve includere anche gli effetti di politiche di governo che hanno dovuto farsi versatili come l’esercito e i cittadini israeliani, e che hanno anch’esse attraversato alterne fortune.
La storia dell’economia israeliana è scandita da due grandi balzi, separati da un periodo di stagnazione e di iperinflazione. Le politiche macroeconomiche del governo hanno svolto un ruolo importante nell’accelerazione della crescita del paese, poi nel determinarsi della tendenza opposta, e infine nella promozione di una crescita che nemmeno chi governava avrebbe immaginato.
Il primo grande balzo ebbe luogo tra il 1948 e il 1970, periodo durante il quale il PIL pro capite è quasi quadruplicato e la popolazione del paese triplicata, nonostante l’impegno di Israele in tre grandi guerre.1 Il secondo balzo va dal 1990 a oggi, periodo durante il quale il paese si è trasformato da sonnacchiosa contrada periferica a centro guida dell’innovazione globale. I mezzi impiegati nei due periodi sono tra loro alquanto diversi, quasi opposti. Il primo periodo di espansione si è realizzato grazie a un’imprenditorialità di Stato che ha dominato un piccolo, primitivo settore privato; il secondo periodo grazie a una prospera imprenditorialità privata inizialmente favorita da interventi del governo.
Le radici del primo periodo di crescita economica possono essere fatte risalire a un’epoca molto anteriore alla fondazione del paese, già alla fine del XIX secolo. Negli anni Ottanta dell’Ottocento, per esempio, un gruppo di coloni ebrei cercò di costruire una comunità agricola in una nuova città da loro fondata, Petah Tikva, a pochi chilometri da quella che oggi è Tel Aviv. Dopo avere vissuto per qualche tempo in tenda, i pionieri reclutarono alcuni arabi del luogo e si fecero costruire da loro baracche di creta. Quando pioveva, però, queste casupole lasciavano filtrare l’acqua ancor più delle tende, e quando il fiume usciva dagli argini finivano per sciogliersi. Alcuni dei coloni furono colpiti da malaria e febbri dissenteriche. Dopo qualche inverno i risparmi dei coltivatori erano esauriti, gli accessi alle vie di comunicazione spazzati via e le famiglie ridotte quasi alla fame.
Nel 1883, però, le cose cominciarono a migliorare. Il banchiere e filantropo ebreo francese Edmond de Rothschild offrì il sostegno finanziario di cui c’era disperato bisogno. Un agronomo consigliò ai coloni di piantare negli acquitrini creati dalle esondazioni del fiume alberi di eucalipto; e in breve tempo le radici di queste piante prosciugarono le paludi. I casi di malaria calarono drasticamente e la comunità, ora più prospera, si arricchì di nuove famiglie.2
A partire dal 1920 circa e per l’intero decennio nello Yishuv – la comunità ebraica insediatasi in Palestina prima della creazione di Israele – la produttività crebbe dell’80 per cento, determinando la quadruplicazione del prodotto nazionale a fronte di un raddoppiamento della popolazione ebraica. E mentre nel mondo infuriava la depressione, tra il 1931 e il 1935, la crescita economica media di ebrei e arabi in Palestina fece registrare un sorprendente incremento annuo del 28 e del 14 per cento rispettivamente.3
Da sole le piccole comunità fondate da coloni, come quelle di Petah Tikva, non sarebbero mai riuscite a raggiungere una crescita tanto esplosiva. In esse confluirono, a ondate, nuovi immigrati, che contribuirono non solo con l’incremento numerico, ma anche con uno spirito pionieristico che portò al superamento dell’economia basata sulla beneficenza.
Uno di quegli immigrati era un avvocato ventenne di nome David Gruen, giunto lì dalla Polonia nel 1906. Dopo il suo arrivo, ebraizzò il proprio nome in Ben-Gurion, traendo spunto da quello di un generale ebreo di epoca romana vissuto intorno al 70 d.C., e fece rapidamente fortuna, fino a diventare l’incontrastato leader dello Yishuv. «Nei primi anni dello Stato ebraico» ha scritto Amos Oz «molti israeliani lo vedevano come una combinazione di Mosè, George Washington, Garibaldi e Dio onnipotente.»4
Ben-Gurion fu anche il primo imprenditore del paese. Se Theodore Herzl fu il primo a elaborare una visione teorica della sovranità ebraica e a galvanizzare gli ebrei della diaspora con l’idea romantica di uno Stato sovrano, fu però Ben-Gurion l’uomo che tradusse quella visione ideale nella concretezza di un vero Stato nazionale. Al termine della seconda guerra mondiale Winston Churchill indicò «l’organizzatore della vittoria alleata» nel generale americano George Marshall. Parafrasando Churchill, si può definire Ben-Gurion «l’organizzatore del sionismo». Oppure, per usare la terminologia aziendale, possiamo dire che Ben-Gurion fu «il manager operativo» che costruì concretamente il paese.
La sfida cui si trovava dinanzi Ben-Gurion, sia sul fronte della gestione operativa sia su quello della pianificazione logistica, era estremamente complessa. Limitiamoci a considerare un solo punto: come assorbire le ondate di migranti che continuavano ad affluire? Dagli anni Trenta fino alla fine dell’Olocausto, periodo durante il quale milioni di ebrei europei furono deportati nei campi di concentramento, ci fu chi riuscì a trovare scampo in Palestina. Altri cercarono di rifugiarsi altrove, ma si videro negare asilo da vari paesi e furono costretti a vivere in clandestinità, e spesso in condizioni spaventose. Dopo il 1939 il governo della Gran Bretagna, la potenza incaricata di occuparsi della Palestina, impose all’immigrazione restrizioni draconiane, la famosa politica del «Libro bianco». Le autorità inglesi respinsero la maggior parte di coloro che cercavano rifugio in Palestina.
Ben-Gurion reagì lanciando due campagne, apparentemente contraddittorie. Innanzitutto indusse e preparò circa diciottomila ebrei di Palestina a tornare in Europa e a unirsi ai «battaglioni ebrei» dell’esercito britannico in lotta contro il nazismo. Nello stesso tempo creò un’agenzia clandestina per trasportare segretamente i profughi ebrei dall’Europa alla Palestina, sfidando la politica di immigrazione imposta dagli inglesi. Ben-Gurion stava contemporaneamente combattendo a fianco degli inglesi in Europa e contro gli inglesi in Palestina.
La maggioranza degli studi storici dedicati a questo periodo pongono al centro dell’attenzione gli scontri militari che condussero, nel 1948, alla fondazione dello Stato di Israele. Ma intanto sulla parte economica della vicenda si è fatto strada un mito: quello che Ben-Gurion fosse un socialista e che Israele sia nato come uno Stato in tutto e per tutto socialista.
Da dove tale mito abbia tratto origine è comprensibile. Ben-Gurion era immerso nell’ambiente socialista della sua epoca e aveva riportato grande impressione dall’ascesa del marxismo e dalla Rivoluzione russa del 1917. Molti degli ebrei giunti in Palestina dall’Unione Sovietica e dall’Europa orientale prima della nascita di Israele, e destinati ad avere grande influenza, erano socialisti.
Ma Ben-Gurion aveva l’unico obiettivo di costruire lo Stato ebraico, con ogni mezzo. E certo non aveva la pazienza di sperimentare politiche che riteneva elaborate al solo scopo di convalidare l’ideologia marxista. Nei suoi intenti qualsiasi opzione – economica, politica, militare o sociale – doveva servire l’obiettivo di creare uno Stato. Ben-Gurion era il classico «bitzu’ista», parola ebraica che si potrebbe tradurre con «pragmatista», dando però al concetto una connotazione particolarmente attivistica. «Bitzu’ista» è chi punta solo a realizzare le cose.
Il «bitzu’ismo» è il cuore dell’ethos pionieristico e della propensione all’imprenditorialità di Israele. «Chiamare qualcuno «bitzu’ista» significa fargli un grande complimento» afferma lo scrittore e giornalista Leon Wieseltier. «“Bitzu’ista” è chi edifica, chi irriga, chi guida aerei, chi traffica in armi, chi colonizza una terra. Gli israeliani ne conoscono bene il profilo sociale: scontroso, impaziente, sardonico, efficiente, non troppo incline alla riflessione, ma neanche troppo incline al sonno.»5 Con queste parole Wieseltier vuole descrivere la generazione dei pionieri, ma le sue parole si adattano perfettamente anche a chi si lancia nella creazione di una startup. Il «bitzu’ismo» è un filo conduttore che unisce coloro che sfidarono i predoni e prosciugarono gli acquitrini con gli imprenditori che ritengono di poter sfidare i rischi e lanciarsi nella realizzazione dei propri sogni.
Per Ben-Gurion il problema principale era quello di disseminare la popolazione ebraica su tutto il territorio che un giorno sarebbe diventato Israele. A suo giudizio, per assicurare la futura sovranità a Israele era necessario perseguire un preciso programma di insediamenti. Altrimenti un giorno le zone disabitate o scarsamente abitate avrebbero potuto essere reclamate dai nemici, che si sarebbero potuti facilmente guadagnare l’appoggio della comunità internazionale se nelle aree contestate la popolazione ebraica fosse stata sottorappresentata. Inoltre un’eccessiva concentrazione nelle aree urbane, in città e paesi come Gerusalemme, Tiberiade e Safed, avrebbe offerto un facile bersaglio all’aviazione nemica: una ragione in più per sparpagliare la popolazione su una superficie più vasta.
Ben-Gurion capiva peraltro che la gente non si sarebbe trasferita in zone sottosviluppate, lontano dai centri urbani e dalle infrastrutture essenziali, a meno che il governo non avesse pilotato il processo di insediamento fornendo incentivi a trasferirsi; difficilmente il capitale privato si sarebbe sobbarcato uno sforzo del genere.
Questa estrema attenzione allo sviluppo produsse altresì il costume di una partecipazione informale del governo all’attività economica. Tipici in tal senso gli exploit di Pinchas Sapir. Durante gli anni Sessanta e Settanta Sapir fu a più riprese ministro delle Finanze e ministro del Commercio e dell’Industria. Il suo stile gestionale scendeva talmente nei dettagli da spingerlo a fissare sulla valuta estera tassi di cambio diversi a seconda delle diverse fabbriche (il cosiddetto «metodo dei cento tassi di cambio») e a monitorare la situazione annotando ogni tasso in un piccolo taccuino nero. Secondo Moshe Sanbar, primo governatore della Banca d’Israele, i celebri taccuini di Sapir erano due. «E uno di essi era il suo ufficio statistiche personale: in ogni grande fabbrica c’era chi gli riferiva quanto era stato venduto e a chi, quanta elettricità era stata consumata, ecc. Ecco perché Sapir era in grado di capire con largo anticipo sulle statistiche ufficiali come stava andando l’economia.»
Sanbar è convinto che questo metodo poteva funzionare solo in un paese piccolo, idealista e battagliero: pur non essendoci la minima trasparenza di governo, «tutti i politici … morivano poveri … Intervenivano nel mercato e decidevano ciò che volevano, ma nessuno intascava un centesimo».6
Il kibbutz e la rivoluzione agraria
Al centro del primo grande balzo si pone una radicale ed emblematica innovazione sociale che rispetto alle sue dimensioni ha avuto un impatto locale e globale decisamente sproporzionato: il kibbutz. Oggi i kibbutznikim sono meno del 2 per cento della popolazione israeliana, ma producono il 12 per cento dell’export nazionale.
Qualche storico ha definito il kibbutz «il movimento comunitario più riuscito del mondo».7 Eppure nel 1944, quattro anni prima della fondazione di Israele, gli abitanti dei kibbutzim (kibbutz significa «gruppo», «collettivo», e kibbutzim è il plurale, mentre i membri di un kibbutz si chiamano kibbutznikim) erano solo sedicimila. Nati come insediamenti agricoli per l’abolizione della proprietà privata e la realizzazione della completa uguaglianza, nel giro di vent’anni videro crescere i propri ranghi fino a ottantamila persone, distribuite in 250 comunità. La cifra corrispondeva solo al 4 per cento della popolazione israeliana, ma i kibbutznikim rappresentavano già il 15 per cento dei membri della Knesset, il Parlamento israeliano, e una percentuale ancora maggiore degli ufficiali e dei piloti dell’IDF. Un quarto degli ottocento soldati israeliani che nel 1967 persero la vita nella guerra dei Sei giorni era costituito da kibbutznikim, sei volte la loro percentuale sul totale della popolazione.8
Anche se il concetto di comune socialista può evocare l’immagine di un ambiente bohémien, i primi kibbutzim erano esattamente il contrario. I kibbutznikim divennero un simbolo di audacia e informalità e la loro ricerca di un’uguaglianza radicale sfociò in una forma di ascetismo. Esempio eminente in tal senso fu quello di Abraham Herzfeld, uno dei leader del movimento dei kibbutzim durante i primi anni di vita dello Stato. Herzfeld sosteneva che le toilette con lo sciacquone fossero insopportabilmente decadenti. Anche nell’Israele povero e assediato degli anni Cinquanta, quando molti beni essenziali erano razionati, in molti insediamenti e in molte città del paese le toilette con lo sciacquone erano considerate necessità comune. La leggenda dice che la prima toilette installata in un kibbutz fu distrutta personalmente da Herzfeld a bastonate. Negli anni Sessanta, però, nemmeno Herzfeld riuscì a frenare il progresso, e la maggior parte dei kibbutzim installarono toilette con getto d’acqua corrente.9
I kibbutzim erano al tempo stesso ipercollettivi e iperdemocratici. Ogni problema di autogestione, dalla scelta delle colture alla decisione sulla possibilità, per i membri, di possedere il televisore, era oggetto di infinita discussione. «Nei kibbutzim» ci ha detto Shimon Peres «non c’era polizia. E non c’erano tribunali. Quando ero membro io, non esisteva denaro privato. E prima del mio arrivo non esisteva nemmeno la posta privata: le lettere che arrivavano potevano essere lette da tutti.»
L’aspetto più controverso, forse, è che i bambini venivano allevati collettivamente. Pur nella varietà dei sistemi, quasi tutti i kibbutzim avevano «case d’infanzia», dove i bambini vivevano accuditi da membri del kibbutz. Nella maggior parte dei kibbutzim i bambini vedevano i genitori qualche ora al giorno, ma dormivano con i compagni e non nella casa dei genitori.
La fortuna del kibbutz è, almeno in parte, il risultato di innovazioni agricole e tecnologiche messe a punto negli stessi kibbutzim e nelle università israeliane. La transizione dalla condizione di estremo sacrificio e dall’inflessibile configurazione ideologica dell’era dei fondatori, nonché dal lavoro della terra, alla realtà di un’industria d’avanguardia è ben visibile in un kibbutz come Hatzerim. Il kibbutz fu fondato, insieme ad altri dieci minuscoli distaccamenti, una notte dell’ottobre 1946, quando la Haganah, la principale milizia ebraica prima della creazione di Israele, decise di attestare la propria presenza in alcuni punti strategici del Negev meridionale. Sul far del giorno, le cinque donne e i venticinque uomini giunti sul posto per dare vita alla base si trovarono sulla cima di un arido colle circondato dal deserto. All’orizzonte un solo albero d’acacia.
Prima che il gruppo riuscisse a posare una conduttura da 15 centimetri di diametro per fare arrivare l’acqua da un’area situata a circa 60 chilometri di distanza passò un anno. Durante la guerra d’Indipendenza del 1948 il kibbutz fu attaccato e il suo approvvigionamento idrico interrotto. Ma anche dopo la guerra, il terreno si dimostrò talmente saligno e difficile da coltivare che nel 1959 i membri dello Hatzerim cominciarono a considerare la chiusura del kibbutz e il suo trasferimento in un luogo più ospitale.
Ma la comunità decise di restare, perché emerse che i problemi di salinità del suolo non interessavano solo lo Hatzerim, ma riguardavano la maggioranza del territorio del Negev. Due anni dopo, i kibbutznikim dello Hatzerim riuscirono a depurare con l’acqua il terreno quanto bastava per avviarne la coltivazione. Era soltanto l’inizio delle conquiste che lo Hatzerim realizzò per se stesso e per il paes...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Laboratorio Israele
  3. Prefazione di Shimon Peres
  4. Nota degli autori
  5. Introduzione
  6. Parte Prima - La Piccola Nazione Che Ce L’ha Fatta
  7. Parte Seconda - Seminare La Cultura Dell’innovazione
  8. Parte Terza - Gli Esordi
  9. Parte Quarta - Un Paese Motivato
  10. Conclusione Coltivatori di hi-tech
  11. Postfazione
  12. Note
  13. Bibliografia
  14. Ringraziamenti
  15. Indice dei nomi
  16. Copyright