MARIANNE
Questa non è una storia di fantasmi. Ma era Natale e io mi sentivo come se avessi visto un fantasma. O piuttosto sentito un fantasma. Se non che i fantasmi non si sentono, vero? Magari catene che sferragliano, gemiti raccapriccianti, ma in generale i fantasmi si vedono, mi pare di capire. Un’esperienza che mi è stata risparmiata.
Uno, però, pensai di averlo sentito.
La donna esce con cautela dal taxi, allunga una mano nell’abitacolo e ne toglie una valigetta e un sacchetto di plastica. Li appoggia delicatamente sul marciapiede e rovista in una borsa capace alla ricerca del portafoglio.
Mentre il taxi riparte, si gira verso la casa a schiera in stile georgiano, grigia, di un’eleganza anonima tipica di molti edifici edimburghesi. Vestita con un lungo cappotto di lana e un vistoso cappello di velluto, la donna allunga la punta del piede calzato da uno stivale e la blocca, volutamente, contro il bordo di un tombino. Si china e raccoglie le sue borse, si raddrizza, si ferma un attimo, poi, senza guardare né a destra né a sinistra, attraversa il marciapiede diretta ai gradini della scala d’ingresso. Un osservatore dotato di orecchio fino potrebbe sentirla contare sottovoce.
Prima che abbia fatto quattro passi, uno stridio di gomme in frenata e il rumore di una bicicletta che slitta sul marciapiede, seguito dall’esclamazione irosa di una voce da ragazzo:
«Gesù! Ma non mi ha visto arrivare? È cieca, per caso?»
Scossa, la donna volta il viso verso il ciclista. Mentre si sistema il cappello sghembo a causa dell’urto, le sue mani tremano ma la voce è ferma. «Sì. In effetti lo sono.»
MARIANNE
È vero, sono cieca.
Vi concederò un istante o due per rivedere i vostri preconcetti.
Ma, vi sento dire, non dovrei essere scortata da un golden labrador? O agitare un bastone bianco? O, per lo meno, indossare enormi occhiali scuri, come quelli prediletti da Roy Orbison e Ray Charles?
Lo so, lo so: è stata tutta colpa della mia pretesa di andarmene in giro sembrando normale. Be’, mi dicono che lo sembro. Io come potrei giudicare?
«Io sono cieca e tu non puoi andare in bicicletta sul marciapiede. Se hai un campanello, posso consigliarti di provare a usarlo, in futuro?»
Ma il ciclista se ne è già andato. Lei si china a raccogliere il sacchetto caduto, si accorge del vetro rotto a terra, sente lo sgocciolio ritmico di un liquido sul marciapiede. Con il morale sotto le scarpe, sale i gradini e affonda la mano nella borsa alla ricerca della chiave. La perdita del Borgogna è una tragedia: come faranno, senza, a cucinare il boeuf bourguignon? E i cestini di meringa saranno a pezzi come i suoi nervi. Incontrando il metallo freddo del telefonino, si chiede se sia il caso di chiamare la sorella per una spesa dell’ultimo minuto.
La chiave della porta le cade dalle dita gelate. Trattiene il fiato, tendendo l’orecchio per localizzare la provenienza del delicato rumore che produce toccando terra. Si china, passa le mani nude sulla pietra, maledicendo il ciclista, il Natale e soprattutto la propria cecità. Qualcosa di umido e leggero atterra sul dorso delle sue mani.
Neve...
Sente le lacrime pungerle gli occhi, sbatte in fretta le palpebre e passa di nuovo le mani sul gradino, poi le affonda tra le foglie sempreverdi di una pianta in vaso, scuotendola, in attesa del tintinnio di una chiave che cade.
Silenzio.
Mentre valuta se sedersi sui gradini e scoppiare in lacrime potrebbe darle qualche conforto, sente dei passi avvicinarsi, poi fermarsi. Registra la consueta ondata di apprensione. I passi sono di un uomo.
«Posso esserle d’aiuto?» Voce maschile, non del posto, non uno che conosce. Oppure...?
«Mi è caduta la chiave e non riesco a trovarla. Sono cieca.»
Sente delle monetine che gli risuonano nelle tasche mentre sale rapidamente i gradini. Dopo un attimo dice: «Era finita sulla scala della cantina... Eccola». Prende la sua mano gelata, le mette la chiave nel palmo e sussurra: «Che gelida manina...».
«Sì, ho perso anche i guanti. Devono essere caduti da qualche parte.»
«No, spuntano dalla tasca del suo cappotto.»
«Davvero?» Tasta per sentire i guanti. «Grazie. E grazie per la chiave.»
«Di niente. È brutto dirglielo, ma sembra che la sua spesa sanguini.»
«È vino rosso. L’ho fatto cadere. Oggi è una giornataccia.» Apre la borsa e ci ficca dentro i guanti. «Le piace l’opera? O è solo che ogni tanto le scappa una frase in italiano?»
«Sono un estimatore di Puccini.»
Lei ci riflette. «Musicalmente accattivante ma ideologicamente malsano, ho sempre pensato. Le sue donne non sono altro che vittime passive di uomini affascinanti. Piuttosto repellente, nel Ventunesimo secolo.»
«In effetti non l’avevo mai vista in questi termini.»
«Certo che no. Lei è un uomo.»
«Incidente cromosomico. Me ne scuso.»
Lei ride. «No, sono io che mi scuso. Per essere così maleducata. Mi perdoni, ero un po’ scossa per la chiave. Ce l’avevo con me stessa e me la sono presa con lei. Non è carino. Tengo la chiave legata a una catenella che metto al polso proprio per non farla cadere, ma ero di fretta e ho trascurato di farlo... Lei è di Skye?»
L’uomo esita prima di rispondere. «Sì. Be’, sono cresciuto lì. Sono nato a Harris. Ma i miei genitori desideravano le mille luci della città. Così si sono trasferiti a Portree.» Lei ride ancora. «Conosce Portree, mi pare di capire...»
«Solo di fama. Conoscevo un uomo di Skye... uno Sgiathanach.»
«Gli Sgiathanach sono fedeli. Tendiamo a tornarci.»
«Lei lo fa?»
«Sì, se posso. È un posto splendido. A meno che non si cerchi una vita eccitante.»
«I suoi ne furono delusi, quindi.»
«Oh, no, sono morti felici nei loro letti.» Sente che sorride. «Di shock culturale.»
«Be’, ci sono modi peggiori di morire.»
«Sì. Di gran lunga peggiori.»
«Grazie per l’aiuto.»
«Di nulla. Ce la fa con quei vetri rotti?»
«Oh sì, ci penserà mia sorella, dopo avermi strapazzata ben bene per la mia smania di essere così dannatamente indipendente. Lascerò il sacchetto sul gradino. In ogni caso, il cibo è rovinato.»
«D’accordo... sicura che non possa fare nient’altro?»
«Grazie, adesso è tutto a posto.»
Sente i suoi passi sui gradini. Alza la voce, adesso è più lontano. «Capiterà di incontrarci all’opera, magari? Posso presumere che la Turandot soddisfi i suoi parametri rigidamente femministi?»
«Ah, ecco una ragazza che mi piace. Mastica gli uomini e li risputa a pezzettini. E se non risolvono l’indovinello... via la testa!»
«Il principe però la spiazza. Con la storia del nome.»
«Sì. La misoginia di Puccini trionfa sempre, alla fine.»
«Sta prendendo freddo. Entri in casa. E si pulisca i piedi: sono a mollo in una pozza di vino rosso.»
«Ci è mancato poco che fosse una pozza di lacrime.»
«Può darsi che ci si veda in giro.»
«Be’, lei forse mi vedrà, ma io no di certo. Addio.»
MARIANNE
Non avete mai pensato a come il linguaggio favorisca i vedenti? No, ovviamente, perché voi vedete. Per me il problema non è solo vedere ma anche parlare cercando di trovare termini e frasi adeguate alla mia esperienza. Basta sentire come si esprime la gente: “Aspetta, vedo se posso...”, “Guarda che non è come pensi...”, “Il modo in cui la vedo io...”, “Leggendo tra le righe...”, “Vedi come sei?...”, “Dipende dal tuo punto di vista...”.
Visto?
Io, naturalmente, no.
La gente spesso mi chiede perché vado all’opera se non posso vedere i cantanti che recitano, se non posso apprezzare le scene, i costumi, le luci. Perché non restarsene a casa ad ascoltare un cd, non sarebbe la stessa cosa? Io allora chiedo loro se pensano che non ci sia differenza tra vedere una riproduzione della Notte stellata di Van Gogh e guardare dal vivo il dipinto originale. Io non saprei dirlo, certo, ma so di gente che davanti a quella tela ha pianto.
Dico agli scettici e ai dubbiosi che io vado all’opera perché l’opera riversa nelle mie orecchie la visione di un mondo più grande, in un modo che nessun’altra forma d’arte a me accessibile riesce a fare. Le sculture e i tessuti, nelle rare occasioni in cui sono autorizzata a toccarli, mi emozionano. I drammi, i romanzi e le poesie mi commuovono, mi divertono e ampliano la mia cultura, ma non mi scuotono dalle fondamenta facendomi vedere. Posso leggere la descrizione che Tolstoj fa della ritirata francese da Mosca, in braille o con un audiolibro, ma non ho mai visto una città. O la neve. Non ho mai visto un uomo, figuriamoci un esercito. Tolstoj usa un linguaggio visivo che riesco a leggere con molte incertezze. Non è la mia lingua madre.
La musica, invece, riesco a “leggerla” molto più facilmente. In realtà, non ho affatto bisogno di leggerla. La musica arriva direttamente al mio cuore, penetra nella mia anima e muove dentro di me emozioni senza nome, innumerevoli idee e immagini sonore. E di questo sono cosciente a teatro più che in qualunque altro luogo. A volte resto così scossa da quello che ascolto, da quello che sento, da chiedermi se la mia costituzione fisica sarebbe in grado di reggere il supplemento della componente visiva.
Ho mentito a quell’uomo sulla soglia di casa, a proposito della mia antipatia per le eroine-vittime di Puccini, o meglio gli ho detto una mezza verità. Quello che non riesco a sopportare è il loro dolore; e quando le loro sofferenze sembrano gratuite, prive di scopo – come per Tosca, per Mimì e per la Butterfly – io penso di provare, a un qualche livello profondo, rabbia. E io non voglio provare rabbia, specialmente non all’opera.
Ho già troppo di cui essere arrabbiata. La rabbia è un luogo che non frequento, un colore che non indosso.
Ho due armadi nella mia ampia camera da letto. Uno contiene abiti neri, l’altro abiti panna e avorio. Queste sono solo etichette appiccicate a mio uso e consumo dalla mia sorella maggiore, Louisa. Per quanto ne so io, potrebbe farmi vestire in color-cane-che-fugge, come diceva la mamma, colore che per me non è più difficile da immaginare del nero e dell’avorio.
Portare abiti colorati sarebbe troppo complicato, nel mio caso. Se voglio essere elegante sul lavoro o nella mia limitata vita sociale, e se voglio essere indipendente, devo indossare vestiti ben abbinati o tinta su tinta. Louisa e io ci abbiamo pensato molto bene. Lei ha scartato il blu perché pare che ne esistano troppe sfumature diverse. Ha aggiunto che non sopporterebbe di vedermi in blu perché è stato per anni il colore delle nostre divise scolastiche. Ha detto che nero e panna sarebbero stati bene anche insieme, se mi fossi confusa e avessi riposto un capo nell’armadio sbagliato.
I colori chiari sono rischiosi, ovviamente. Si vedono subito le macchie e lo sporco. Mangiare, per i ciechi, è una faccenda irta di difficoltà, quindi io spendo una fortuna in lavanderia. Dipendo da Lou per sapere se è il caso di utilizzare il servizio, ma almeno io non devo mai agonizzare davanti a uno specchio chiedendomi che cosa indossare. O è un giorno panna, o è un giorno nero. A volte Lou insiste perché metta una sciarpa o una pashmina brillante, per dare una nota di colore. Dice che i miei occhi sono di un bell’azzurro opale e che certi colori li fanno risaltare.
Spero che il colore sia più bello della parola. “Opale” non ha un bel suono, forse perché fa rima con “male”, “mortale”, “letale”... Parole sinistre. Qua...