Ai liberi e forti
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Ai liberi e forti

Valori, visione e forma politica di un popolo in cammino

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Ai liberi e forti

Valori, visione e forma politica di un popolo in cammino

Informazioni su questo libro

Oltre novant'anni fa il partito popolare di don Luigi Sturzo lanciò un celebre appello «ai liberi e forti» a «cooperare ai fini superiori della Patria senza pregiudizi né preconcetti »; un manifesto rivolto ad allargare la partecipazione popolare a uno Stato unitario nato in contrapposizione a una parte importante della società italiana. Maurizio Sacconi propone oggi un manifesto analogamente dedicato a «un popolo di liberi e forti che, ancorato ai valori della tradizione nazionale, ha saputo resistere al fascino delle ideologie totalitarie, che diffida degli interessi particolari che pretendono di farsi bene comune ed è responsabilmente orientato a non attendere con passività dallo Stato le risposte ai propri bisogni, perché intento a costruirle attraverso forme comunitarie».
Ora come allora - e a maggior ragione in presenza dei cambiamenti epocali in corso - egli ritiene di dover porre alla base di una nuova stagione di sviluppo dell'Italia la funzione guida del popolo umile e laborioso, cui si sono ricorrentemente contrapposti nella storia unitaria gli interessi più ristretti di élite cosmopolite e antinazionali, di borghesie orientate al facile arricchimento attraverso rendite e favori pubblici, di corpi separati dello Stato. Solo quando si afferma questo primato il senso della nazione coincide con il senso dello Stato, ovvero i valori della tradizione - la persona, la famiglia, la comunità - sono compiutamente assunti a riferimento delle politiche pubbliche.
Lo stesso destino comune della nazione viene identificato nell'antica attitudine all'universalismo della società italiana che la rende capace di accogliere e integrare i flussi migratori affermando la propria identità e di stabilire relazioni intense con i Paesi emergenti grazie al rispetto curioso delle altre culture secondo l'esempio di uomini come Matteo Ricci e Marco Polo. Sacconi assume quale metodo del buon governo per lo sviluppo integrale della nazione quella «laicità adulta», comune a credenti e non credenti, che sa riconoscere e promuovere il valore della vita nelle umane fragilità, nella procreazione, nella ricerca scientifica e tecnologica.
Il manifesto disegna l'obiettivo di una società attiva, inclusiva e insieme competitiva «perché si realizza attraverso il riequilibrio demografico, elevati livelli di partecipazione ad attività educative finalizzate alla occupabilità, il superamento di ogni divario territoriale, la diffusione delle nuove tecnologie, la valorizzazione delle risorse storiche e naturali».
Lo strumento necessario per affermare i valori della tradizione e costruire la nuova Italia nel tempo del «dopo debito» è il partito del popolo dei liberi e forti, evoluzione delle esperienze politiche nelle due fasi della vita repubblicana e contenitore unitario per tutti coloro che si riconoscono nel popolarismo europeo.

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Informazioni

III

Dove vogliamo andare.
Lo sviluppo integrale della nazione

I valori della tradizione, la visione della modernità
L’UNIVERSALISMO
L’Italia ha nel suo codice genetico uno specifico respiro universalistico. Esso costituisce il destino comune di una nazione formatasi attraverso la cultura cristiana e molteplici esperienze relazionali, perciò naturalmente orientata al dialogo con gli altri popoli sulla base della propria identità aperta. Il che, nel tempo dei profondi cambiamenti nel grande villaggio globale, le consente straordinarie opportunità nella ricerca di compromessi per la pace e di nuove vie dello sviluppo.
È il tratto distintivo che ci ha resi aperti al mondo diversi secoli prima della globalizzazione, costituendo il motore di una riflessione culturale e di un’azione concreta che hanno arricchito il nostro territorio e che si sono proposte appunto al mondo intero. Nella storia ciò è emerso chiaramente e ripetutamente. In epoca antica con la peculiarità e l’impeto globale dell’impero romano. In epoche più recenti, con l’ampiezza di orizzonti che hanno espresso quelle repubbliche e signorie medievali e rinascimentali che, senza perdere un forte radicamento locale, si sono proposte per i commerci su scala mondiale. Si pensi all’attivismo economico fiorentino della famiglia Medici, alle iniziative veneziane che hanno condotto Marco Polo in Cina, alle grandi spedizioni, che hanno portato Cristoforo Colombo a scoprire un continente e Amerigo Vespucci a dargli un nome. Questi eventi sono inseparabili dall’impeto ideale e costruttivo che li ha sostenuti, il cui simbolo emblematico è la vicenda di uno dei più dotti e lungimiranti missionari della storia: padre Matteo Ricci. Questo gesuita maceratese si stabilì nella Cina del XVI secolo per conoscere ed evangelizzare il Paese. Il suo intento di cristianizzazione era tutt’uno con il profondo amore per la cultura cinese, che egli non esitò a fare propria, assumendone i costumi senza rinunciare tuttavia alle proprie convinzioni. Fu un tramite così importante per la conoscenza e la comprensione tra Cina ed Europa, che l’imperatore consentì eccezionalmente la sua sepoltura a Pechino, con uno strappo alla regola che vietava di seppellire stranieri nella città. Attualmente la tomba del gesuita è conservata all’interno della scuola di formazione dei dirigenti del Partito comunista cinese.
Matteo Ricci esemplifica il modello di universalismo italiano, contraddistinto dalla capacità di valorizzare le civiltà e le culture che la nostra storia ha incontrato, di integrarsi con esse apprendendone il meglio e introducendovi quanto di più prezioso è nella nostra tradizione. È un approccio che non pone in alternativa la cultura autoctona con quella italiana, non impone di scegliere tra l’una e l’altra, ma dimostra di saper far proprie e di trovare le soluzioni migliori, più ragionevoli e pacificanti, attraverso il dialogo e la relazione, piuttosto che con l’imposizione.
L’epoca moderna, con l’emergere di potenze mondiali e la colonizzazione dei continenti, ha visto imporsi modelli di internazionalizzazione profondamente diversi. L’azione imperialista di Francia, Gran Bretagna e Paesi Bassi si è definita come una politica di potenza. Anche quando ha mirato a civilizzare, e non soltanto a sfruttare le enormi risorse delle popolazioni colonizzate, questo modello non ha saputo agire che con la forza, sovrapponendosi alla cultura locale e innescando inevitabili, fortissime resistenze. Non è un caso che le vicende coloniali di Francia e Gran Bretagna abbiano avuto venature razziste e si siano concluse in modo drammatico, con scontri o persino conflitti su larga scala. Basti pensare alla guerra di liberazione algerina, al colonialismo britannico in India, o all’eredità dell’apartheid in Sudafrica.
Un modello di universalismo più recente, l’internazionalismo di classe, fondato sull’appello di Karl Marx a tutti i proletari del mondo a unirsi, si è tradotto nella politica omologante dell’Unione Sovietica. Allo scopo di diffondere la rivoluzione russa, esso non ha fatto altro che colonizzare l’Europa dell’Est, privandola della sua libertà e della sua storia in nome di un’ideologia, ha imposto un modello uniforme di stampo proletario assolutamente artificiale, ha raso al suolo le strutture democratiche, ha inquinato spesso irrimediabilmente la società civile dei diversi Paesi, anche quando ha mantenuto formalmente in vita la struttura istituzionale l’ha svuotata al suo interno. Private di spirito e margini di libertà, queste società si sono annichilite evidenziando, alla caduta del comunismo, una diffusa perdita del senso di responsabilità individuale e collettivo e una grande difficoltà nel ritrovare un percorso condiviso.
Gli esiti degli universalismi moderni ne rivelano gli errori di fondo: hanno spesso annientato la libertà dei popoli assoggettati, militarizzato colonizzatori e colonizzati, condotto a tragici strappi e a guerre di liberazione.
IL DESTINO COMUNE DELLA NAZIONE
Nulla di lontanamente paragonabile allo sforzo pacifico, civilizzatore e dialogante dell’universalismo italiano. Niente che possa avvicinarsi alla pax romana, che l’impero aveva saputo garantire esportando il fiore della propria cultura: il diritto. Roma divenne il centro del mondo perché era disponibile ad accogliere il meglio dei territori che controllava. La nostra stessa partecipazione all’avventura coloniale è stata marginale e ha avuto, senza negare gli episodi di dura repressione, caratteristiche originali.
Si tratta dunque di riguadagnare il patrimonio di valori e di metodo emerso in Italia fin dal periodo romano, ma compiuto, sistematizzato e affermatosi nel mondo attraverso la tradizione cristiana. Matteo Ricci è l’esempio forse più chiarificatore della forza e dell’intelligenza del cristianesimo, emerse nel suo incontro con la cultura italiana. L’Italia cristiana ha gestito le sue relazioni esterne applicando il metodo di san Paolo, che invita a «vagliare tutto e trattenere il valore».
Questo spirito ha caratterizzato la nostra storia. Non siamo stati né impermeabili alle altre culture, economie e modi di vita, né ci siamo appiattiti su modelli altrui. Abbiamo saputo esportare quanto di meglio abbiamo senza forzare gli altri popoli; nel contempo, abbiamo recepito quanto gli altri popoli davano di meglio. Uno stile che si radica chiaramente nel cristianesimo. Giovanni Paolo II l’ha espresso con la formula «La Chiesa propone, non impone nulla» nell’enciclica Redemptoris Missio. Grazie al cristianesimo, abbiamo saputo coniugare l’impegno ideale per la verità e la giustizia con un metodo pacifico e rispettoso della libertà. Come scriveva l’allora cardinale Ratzinger, «la lotta contro la sofferenza e l’ingiustizia nel mondo è in realtà un impulso assolutamente cristiano, ma l’idea che si possa creare un mondo senza dolore e il desiderio di ottenerlo subito con le riforme sociali, con l’abolizione del potere e dell’ordinamento giuridico sono un’eresia, una profonda incomprensione della natura dell’uomo».
La nostra allergia all’imperialismo economico o ideologico viene da una profonda comprensione della natura umana, da un’inesausta apertura all’altro. Al di fuori di questa concezione non si può che ricadere in un imperialismo che espropria la libertà altrui, o in un relativismo che in nome della libertà dell’altro non è capace di distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. La cultura cristiana ci ha reso grandi, proprio perché ci ha impegnato a riconoscere le grandezze e le bassezze, nostre e altrui. Ci ha insegnato che possiamo migliorare, che non siamo condannati a sbagliare, e che nessun popolo è destinato per sua natura intrinseca a essere dominatore, né è condannato a essere succube, inferiore, arretrato. Ci ha reso chiaro che è possibile un rapporto con chiunque, proiettandoci decisamente in una dimensione universalistica.
Non solo, essa ci ha insegnato a pensare, non ci ha appiattito sull’eredità che abbiamo ricevuto. Ci ha dato una «educazione critica», mettendoci in condizione di giudicare liberamente il nostro passato, trattenendone il valore e insieme insegnandoci a non essere autoindulgenti, a valutare criticamente quanto della nostra tradizione deve essere ripensato, attualizzato, raccordato al presente o persino abbandonato.
Non valorizzare, per riscoprirlo e usarlo in un rapporto fecondo con la ragione moderna, questo imponente bagaglio culturale che viene dalla tradizione cristiana significa perdere la sfida dei tempi.
La nostra epoca spinge l’Italia a ritornare alle radici cristiane del suo universalismo. All’interno di esso si può definire il destino che abbiamo di fronte: la possibilità per un popolo di essere fattore di civilizzazione, coscienza viva della dignità e della storia degli altri popoli. Esso non si può rinchiudere in una dimensione localistica, in una logica difensiva, per preservare la propria identità e tutelarla dalle influenze esterne. Non può evitare il confronto, né appiattirsi su concezioni che hanno già mostrato abbondantemente i propri limiti e che non gli appartengono. Abbiamo bisogno del mondo e, per molti versi, il mondo ha bisogno di noi. Non prendere consapevolezza di questo significa lasciare le relazioni internazionali in balia dei rapporti di forza, e annegare le relazioni interne in una falsa contrapposizione che già ha iniziato a dividere la società e la politica italiana tra chi, in nome della tradizione, vorrebbe trincerarsi nel locale e chi vorrebbe aprirsi al mondo a spese della nostra tradizione.
Posta in questi termini, la questione se rinchiudersi o aprirsi al mondo è un falso problema, perché non si può ragionevolmente decidere se lasciare dietro di sé la propria storia o fuori dal proprio orizzonte il mondo. Il nostro Paese raramente è scomparso nell’anonimato dalla scena internazionale, o ha teorizzato di rinchiudersi entro i propri confini, con l’eccezione, forse, dell’ideologia «autarchica» di stampo fascista. La nostra cultura e la nostra sensibilità politica ci hanno consentito di essere una cerniera con l’Europa orientale quando il continente era spaccato in due blocchi. Siamo stati un prezioso elemento di mediazione nell’intera area mediterranea, grazie ai nostri buoni rapporti con Israele e con il mondo arabo. Abbiamo tenuto un canale aperto in tempi di conflitti e saputo dialogare con tutti. Le stesse imprese coloniali, pur con tutti i loro limiti, non si sono concluse con una rottura delle relazioni con le popolazioni che prima controllavamo. Anzi, abbiamo trasformato in azioni pacifiche, cooperative e di sviluppo vicende che altrove si sono chiuse con rivoluzioni, strappi e guerre. La nostra politica industriale e soprattutto petrolifera ha rappresentato uno strumento di crescita per i nostri partner, non di sfruttamento delle loro risorse. Ci siamo sganciati dalla logica dei cartelli petroliferi grazie a operazioni industriali come la creazione dell’Eni, che ha allacciato rapporti con i Paesi produttori di greggio.
Nell’incandescente contesto internazionale attuale la moderazione e l’equilibrio che contraddistinguono il nostro impegno per la pace e per lo sviluppo sono uno strumento decisivo, non soltanto per noi: il clima di tensione e guerra che domina il Nordafrica e il Medio Oriente ha bisogno del nostro contributo. La nostra diplomazia e le nostre forze armate godono di grande reputazione per l’intelligenza pragmatica e l’attenzione concreta ai bisogni delle persone. Negli ultimi vent’anni siamo stati una forza efficace e pacifica in aree difficilissime, dai Balcani all’Afghanistan, all’Africa, al Medio Oriente, sia sotto l’egida dell’Onu sia all’interno di forze multinazionali di diversa composizione. Siamo una presenza intelligente e costruttiva in aree sottosviluppate grazie alla ricchezza delle nostre iniziative di cooperazione, di cui fanno testo i riconoscimenti internazionali alle nostre Ong. Godiamo di una reputazione prestigiosa per i rapporti diplomatici con Paesi del Mediterraneo meridionale e orientale, e abbiamo sviluppato relazioni privilegiate con l’intera Europa dell’Est, a cominciare dalla Russia: appena è caduto il Muro di Berlino, abbiamo costruito solidi ponti. Le nostre azioni non esprimono una posizione di tiepida neutralità, ma sono un contributo di pace, come ha esplicitamente riconosciuto il presidente americano Obama nel messaggio del 2 giugno 2010 al presidente Napolitano.
Non si tratta di pacifismo a senso unico, che altro non è se non un alibi per la rinuncia, per il disarmo della mente e del cuore. Non si possono dimenticare il terrorismo islamico, le quasi tremila vittime delle Twin Towers, le violenze di Stato di Paesi come il Sudan. Sarebbe un’amara ipocrisia non capire che la pace potrebbe richiedere anche la guerra, che può essere il frutto di tentativi punteggiati di insuccessi.
L’Italia è caratterizzata da un comune sentire che ha nelle tradizioni cattolica, socialista e liberale il suo humus, e conserva ancora uno spirito di tolleranza e apertura proprio verso chi è diverso. A fronte di qualche intollerante, o di qualche stupido che abbraccia gli imam terroristi e giustifica i facinorosi, la maggioranza dei nostri concittadini sa accogliere chi è nel bisogno e chi vuole lavorare e cooperare.
Questo universalismo pacifico e dialogante ha infatti storicamente contraddistinto anche la politica interna italiana. Grazie al forte senso di solidarietà e di realismo che connota il nostro popolo, abbiamo saputo tenere testa a fenomeni epocali, che hanno visto vacillare o crollare il tessuto sociale di altri Paesi, la loro struttura economica e finanziaria, la loro stessa identità nazionale. Si pensi all’impatto dell’immigrazione, che l’Italia ha subito con ondate incontrollabili, al di fuori di qualsiasi possibile programmazione, ma che è stata complessivamente in grado di integrare. Altri Paesi, come quelli scandinavi, stanno letteralmente cambiando faccia a causa dell’immigrazione, o sono percorsi da tensioni acutissime. In Olanda e in Belgio una presenza migratoria divenuta in alcune sue componenti certamente pericolosa ha innescato pulsioni nazionalistiche e xenofobe, che non fanno che aggravare le difficoltà di integrazione.
Il modello italiano di coesione sociale e culturale ha retto perché non si è affidato a ideologie, come quella del multiculturalismo, profondamente indebitate con il colonialismo, che hanno illuso e poi deluso Olanda, Gran Bretagna e Germania. Da noi non è mai esistito un Londonistan, un territorio consegnato a immigrati auto-organizzati e refrattari alla vita associata. Né, tanto meno, ci siamo appiattiti sull’assimilazionismo di stampo francese.
Un senso di solidarietà innato è divenuto consuetudine, moderazione, equilibrio e pragmatismo nei rapporti internazionali. Il ruolo dell’Italia, la sua coesione e la sua crescita, passano attraverso la riaffermazione di questi caratteri. Si tratta di promuoverli anche nelle sedi sovranazionali, come l’Unione Europea, divenuta purtroppo un apparato burocratico senz’anima e incapace di rispondere alle sfide. E la stessa esigenza di crescere economicamente attraverso la capacità competitiva di raggiungere i consumatori «emergenti» si realizza più efficacemente in questo contesto valoriale. I nuovi grandi mercati sono «politicizzati» e sollecitano l’assiduo sostegno ai nostri operatori commerciali da parte della rete diplomatica, che a sua volta si avvale non solo della capacità politica relazionale ma anche dell’identità di fondo del Paese. È quindi possibile aspirare a uno sviluppo integrale della nazione se sappiamo tenere indissolubilmente collegati valori, visione, azione dei singoli, delle comunità, delle imprese, delle istituzioni, all’interno come all’esterno.
È il nostro, possibile, destino comune.
ETICA E RAZIONALITÀ TECNICA
Le recenti discussioni in materia di bioetica – dalla fecondazione in vitro alla distinzione tra coma e stato vegetativo, alla pillola abortiva – sono state in buona parte dominate da argomenti di natura tecnica, certamente indispensabili, ma che non sono gli unici a poter essere spesi. Anzi, essi non colgono nemmeno le ragioni profonde per cui questi temi suscitano tanto dibattito: per ciascuno di essi è in realtà in gioco il valore stesso della persona umana.
L’autocritica delle scienze sperimentali nel Novecento – già Karl Popper ammetteva che la razionalità tecnica non può arrivare ovunque – viene spesso rifiutata dalle tecnocrazie. Anzi si avverte, da parte della politica e del diritto, un certo rimettersi alla scienza, un delegare scelte e opzioni che di fatto trascendono le capacità delle scienze empiriche.
Ignorare questi limiti ha avuto implicazioni deleterie per la società e la democrazia. Ha innanzitutto portato a credere che alcune questioni fossero solo provvisoriamente difficili da risolvere, che un bel giorno scienza e tecnica avrebbero sciolto ogni dubbio, illuminato la soluzione migliore anche per i casi più ardui e in tal modo esentato ciascuno dal compito di prendere posizione. La sopravvalutazione della razionalità tecnica ha condotto a sperare in un futuro talmente roseo che arriva a deresponsabilizzare la società. Ha delegittimato la discussione sui temi più controversi. Costringendo questi argomenti nello spazio angusto della razionalità tecnica, ha impedito di discuterne i risvolti antropologici, etici, politici, tutti espulsi dall’area più ampia della ragione. Esautorare l’uso della ragione nell’ambito morale ha conseguenze esiziali per la convivenza sociale perché, come prefigurava Hannah Arendt, il «suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, fra vero e falso, non esiste più». Prendere decisioni soltanto in base al mero dato tecnico, attribuendo diritti e distribuendo risorse sulla scorta di calcoli e categorie prese a prestito dalle scienze empiriche, non può lasciare soddisfatti perché obbliga a mettere da parte un mondo ricchissimo di umanità, di esperienza e di tradizione. L’esclusione di questa profonda dimensione, solo perché la ragione tecnica non è in grado di comprenderla e classificarla, fa perdere ciò che è più interessante e umano nei legami affettivi e nelle relazioni.
Questo atteggiamento tende a svuotare la vita democratica, in quanto orientato a ridimensionare l’approfondimento pubblico dei temi etici. Non è un caso che soprattutto nell’Europa settentrionale, o in talune organizzazioni internazionali, commissioni di tecnici ed esperti abbiano pressoché monopolizzato gli ambiti della bioetica. In questo modo si è spesso generato un nuovo potere, non trasparente e comunque non legittimato dal consenso democratico. Il controllo democratico sulla genesi dei «nuovi diritti» è assente ogniqualvolta la loro introduzione avviene a quei livelli dell’ordinamento – internazionale, comunitario o giurisdizionale – in cui minori sono le possibilità di influenza della sovranità popolare e maggiori invece le possibilità di condizionamento da parte di potenti lobby.
La politica «non riguarda soltanto il modo giusto di distribuire le cose, ma anche il modo giusto di valutarle», secondo Michael Sandel. La razionalità politica – la facoltà che ci consente di vivere insieme un’esistenza ordinata – non può essere schiacciata sulla razionalità tecnica, perché quest’ultima al più ci dice cosa l’uomo può fare, mentre proprio dell’umano è chiedersi cosa si deve fare.
L’autocensura della politica rispetto alla sfera etica e valoriale ha inoltre dato corso a un attivismo giuridico e giudiziario senza precedenti. Il silenzio su questi aspetti morali della vita associata ha offerto spazio alla moltiplicazione di diritti insaziabili, a volte aberranti, come quello «a non nascere», che riguarderebbe le persone con forti disabilità, alcune delle quali sostengono oggi di fronte ai tribunali che avrebbero preferito appunto non nascere piuttosto che soffrire. A queste pretese ha offerto un’incisiva replica la Corte suprema israeliana: «La condizione di chiunque abbia avuto l’opportunità di vedere la gloria del sorgere del sole e la bellezza delle nuvole azzurre e sperimentare la vita in tutta la sua forza e il suo sapore è sempre migliore di quella di colui a cui sia stata negata questa opportunità». Collocare simili osservazioni al di fuori del campo del diritto o della razionalità politica equivale a condannarsi a una concezione della vita e dell’esperienza umana angusta e insostenibile.
In riferimento a coppia, famiglia, malattia o morte si utilizza sempre più la qualifica di «diritti» per descrivere aspetti della vita rispetto ai quali questo termine è discutibile: sono infatti più semplicemente possibilità, opzioni, facoltà. La definizione di questi nuovi diritti spesso avviene senza alcun riferimento reale al ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ai liberi e forti
  3. Preambolo
  4. I. Da dove veniamo. La nazione prima dello Stato
  5. II. Dove siamo. Una nazione al bivio
  6. III. Dove vogliamo andare. Lo sviluppo integrale della nazione
  7. IV. Il partito del popolo dei liberi e forti
  8. Ringraziamenti
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright