Mi scosse delicatamente.
Credevo di essere immersa nel sonno, perché capitava sempre così. Veniva spesso da me a svegliarmi, con delicatezza, soprattutto da quando era iniziata la guerra di luglio, ma io continuavo a dormire.
Avvertii la sua mano tornare a scuotermi, questa volta con forza. La mia mente andò a quando quel gesto era servito a farmi alzare per chiamare Souad e tranquillizzarla: Nahla era rientrata. Nella sua voce che mi domandava notizie sembrava fosse concentrata tutta l’angoscia del mondo.
Questa volta però – me ne accorsi – non stavo dormendo. Era diverso da prima, quando ero ripiombata in un sonno profondo.
Non avevo bisogno di sollevare la testa e guardarla in viso per sapere chi era, la riconoscevo dalla voce. E tutto divenne assolutamente certo quando mi urlò: «Alzati, scrivi e bada a quel che fai! Non vorrai che io muoia, per poter scrivere quel che ti pare e modificare la storia a tuo piacimento?!».
La sua voce era graffiante e roca, ma giungeva dolce alle mie orecchie, quella voce che eccitava Hani, riempiendogli il petto con ondate di calore che accendevano la sua passione per lei.
Mi girai sul fianco sinistro e mi sedetti sul letto, dandole le spalle.
Il quaderno e la penna erano davanti a me sulla scrivania, ma la mia mano non mi obbediva, non voleva scrivere. Era accaduta la stessa cosa le altre volte in cui mi aveva svegliata. All’improvviso mi trovai a parlare e ragionare tra me e me, sottovoce: «D’accordo, ma come posso scrivere di te se non ti conosco a fondo? Quello che so non è certo sufficiente a raccontare la tua vita».
La sentii commentare ironica: «Chi ti dice che se mi conoscessi da più tempo saresti in grado di raccontare la mia vita? Alzati e scrivi, forse finirai per conoscermi. Non dimenticare che, comunque, la scrittura è sempre imperfetta».
Mentre pronunciava quelle parole la sua voce era avvolta da un velo di tristezza, poi cadde il silenzio. Lo percepii come un silenzio sospetto, artificiale, perché nella mia testa i pensieri rumoreggiavano.
Cercai di tranquillizzarmi. Urlai alla mia mente di smetterla di saltare e ballare, di abbandonare quella follia, poi ordinai al mio corpo di rilassarsi sul letto. A un tratto mi domandai cos’era successo. Ero sicura di non essermi assopita e che non si era trattato di un sogno. Tuttavia non sapevo perché fossi distesa sul letto con i vestiti e le scarpe. Ero anche sicura di non sognare a occhi aperti. La scrittura non è un sogno a occhi aperti, perché gli spiritelli che la ispirano non credono nei sogni. Provai a concentrarmi, a riflettere. Era vero che certe volte i personaggi mi apparivano durante il sonno, mentre altre sognavo di scrivere, però non mi ero mai trovata in quello stato. Non sapevo come definire quel che mi stava accadendo.
Mi alzai dal letto e andai alla scrivania. Appoggiai un gomito sul tavolo, chiusi gli occhi davanti ai fogli bianchi, premendomi la fronte con le dita, e iniziai a pensare a Nahla. Istintivamente mi appoggiai la mano destra sulla spalla, proprio nel punto in cui avevo sentito le sue dita premere quando mi aveva chiesto di mettermi a scrivere.
Cercai di cominciare la sua storia, invano. Ero sfinita. Non avevo la forza di scrivere. Da quando era iniziata la guerra di luglio non avevo più assaporato il sonno. Quel giorno le battaglie tra i ribelli e l’esercito israeliano si svolgevano nel Wadi al-Hujair e in numerosi altri villaggi. Da settimane me ne stavo attaccata alla televisione, passando da un canale all’altro, tanto che i miei occhi sembravano infossati, quasi invisibili. Un velo rosso sangue mi rendeva cieca. Seguivo le notizie paralizzata nel fisico e nella mente. Avevo la sensazione che la pelle che mi racchiudeva fosse sottilissima, quasi inesistente, e che le mie giunture giacessero lacerate davanti a me, proprio come le vittime che vedevo sullo schermo. Il mio cervello era consumato dai notiziari. Le immagini dei bambini che venivano trasportati via, per diventare semplici nomi scritti sui sacchi di plastica disposti ordinatamente sul pavimento, ondeggiavano come brandelli di stoffa sullo schermo. Mi sembrava che il mio corpo, come quello delle persone schiacciate dalla propria casa, si trovasse in mille pezzi sotto le macerie, in attesa di essere recuperato.
Quando mi apprestavo a scrivere, tutte le cose mi apparivano ambigue e confuse. Non capivo più se avevo davvero conosciuto una donna chiamata Nahla che mi aveva raccontato la propria storia affinché la scrivessi, oppure se mi ero inventata la vita di una delle donne che avevo visto estrarre dalle macerie della propria abitazione.
C’erano altre guerre devastanti che mi strappavano dalla mia solitudine, dalle mie pagine, dai miei personaggi e dal mondo della scrittura, nello stesso modo in cui le persone venivano strappate dalle proprie abitazioni. Erano guerre che sempre mi riconducevano alla realtà, radendo al suolo il mondo che avevo costruito, come se fossero in grado di abbattere l’edificio narrativo, oltre a quelli in cui abitano gli uomini, ostacolando il funzionamento della mia mente, tanto da impedirmi di incontrare i miei pensieri e confrontarmi con essi. Le guerre li avevano logorati, schiacciati, cancellati. Mi sembrava di avere la mano amputata, come quella di una bambina che avevo visto in televisione. Nahla mi esortava a raccontare la sua storia, ma io non avevo la forza di scrivere.
Eppure l’unica possibilità che avevo per oppormi alla mia morte nella scrittura era assecondare il suo desiderio, fino a quando le pagine bianche non si fossero riempite delle parole del romanzo. Se invece non avessi narrato la sua vita, il suo destino rischiava di diventare un mero nome scritto su un sacco di plastica, come è stato per quei bambini, per tutte quelle vittime innocenti.
Per questo mi ero sentita spinta a scrivere, a immergermi in quella narrazione, nella storia di Nahla, traboccante di amore e di vita. E quando Souad all’improvviso mi aveva annunciato la sua scomparsa, era scaturito in me il desiderio irrefrenabile di seguirne le vicende, di conoscerne il destino. Nahla non mi aveva più chiamata da quando era rientrata da Parigi, dove aveva incontrato Hani, il suo amore, per decidere del destino della loro relazione. L’avevo cercata più volte sul cellulare, per sapere come stava, ma o era irraggiungibile o squillava a vuoto. Il fatto strano era che avevo trovato due “chiamate perse” da parte sua, ma quando le avevo ritelefonato non aveva risposto. Avevo atteso con impazienza che ci riprovasse lei, invano. Poi, fatto ancora più strano, avevo incontrato al caffè le sue amiche, Aziza, Huda e Nadine, sempre senza lei e Souad. E tutte le volte avevano evitato di incrociare il mio sguardo. Ma quel che mi aveva stupita di più era stato che dopo un po’, all’improvviso, avevano iniziato a fissarmi per poi domandarmi se sapevo che fine avesse fatto Nahla.
Fu Souad a scombinare le mie carte.
Venne da me, dopo che era scoppiata la guerra, per chiedermi se sapevo dove si trovasse Nahla. Nel corso della sua prima visita, la taciturna Souad mi pose solo quella domanda. Erano le otto di una mattina di guerra quando suonò il campanello. Sussultai. Era molto presto, per cui temevo che la persona alla porta recasse una brutta notizia su un familiare o un amico. Non era usuale che qualcuno mi facesse visita a quell’ora, e purtroppo la guerra mieteva sempre più vittime. Corsi alla porta, ma non aprii subito. Mi fermai e chiesi: «Chi è?».
Fui sorpresa da una voce strozzata che rispose: «Io…».
«Chi sei?»
«Souad, l’amica di Nahla.»
Aprii e, quando la vidi, rimasi senza fiato. Aveva un aspetto orribile, come se non dormisse da secoli. Il suo viso era più scuro del solito e – cosa che attirò particolarmente la mia attenzione – i suoi occhi sembravano privi di ciglia. La presi per mano e la feci accomodare sul divano. La invitai a mettersi a proprio agio e le offrii un caffè. All’odore del caffè e al rumore dei miei passi, mentre tornavo dalla cucina portando un vassoio con una piccola caffettiera in rame e due tazzine, spostò dal muro gli occhi assenti e si concentrò su di me. Non appena mi sedetti sul divano accanto a lei, mi chiese se Nahla si fosse fatta viva. Quando le risposi di no, con gli occhi pieni di lacrime, velocissima, afferrò la borsa e se ne andò. Il fatto che lei chiedesse informazioni su Nahla mi incuriosiva, anzi mi stupiva e mi rendeva addirittura sospettosa. Era impossibile che Souad non sapesse dove si trovava Nahla, perché loro due non si separavano mai. Nahla non aveva segreti per lei. Come mai questa volta non sapeva dov’era andata? Mi stupiva anche che una persona riservata come Souad ponesse quella domanda proprio a me, che la conoscevo poco, avendola incontrata solo qualche volta, quando Nahla mi narrava pezzi della propria storia in sua presenza.
Dopo nemmeno una settimana Souad si rifece viva, questa volta per telefono. Chiese di incontrarmi. Allarmata dal tono di voce, mi convinsi che si trattava di una cosa seria. Le proposi quindi di trovarci al Caffè Lina’s in Hamra Street. Accettò senza esitare.
Andai al caffè verso le cinque del pomeriggio, come avevamo stabilito. La strada era deserta, mentre di solito a quell’ora era intasata da lunghe code d’automobili e animata da crocchi di pendolari. Non aveva l’aspetto abituale perché sui quartieri meridionali di Beirut era in corso un raid aereo che stava scuotendo il cielo e i corpi.
Da Lina’s Souad mi disse di non sapere ancora dove si trovasse Nahla, e che aveva continuato a cercarla. Piangendo, aggiunse:
«Sono molto preoccupata. È impossibile che sia scomparsa così, di punto in bianco. Non so perché lo abbia fatto, e la cosa mi fa impazzire!»
Inghiottì le lacrime e le parole, quindi si limitò a chiedermi di aiutarla a conoscere il destino di Nahla continuando a scriverne la storia e mi supplicò di informarla qualora si fosse fatta viva.
La rassicurai dicendole che non aveva motivo di temere per lei. Nonostante avessi la sensazione che mi stesse nascondendo particolari che magari avrei scoperto in seguito, avevo il presentimento che Nahla sarebbe tornata prima della fine del romanzo, anche se non sapevo né quando né come. Più tardi rilessi gli appunti che avevo preso mentre lei raccontava la sua vita. Forse avrei trovato qualcosa che mi era sfuggito, forse nella sua storia avrei scoperto la strada che conduceva al suo destino. Avevo sempre più la sensazione che sarebbe ricomparsa, ma continuavo a non avere idea delle circostanze.
Tuttavia i dubbi e le domande tornarono ad assillarmi nel momento in cui Souad e le sue amiche mi ricontattarono per avere sue notizie: “Le è capitata una disgrazia per via della guerra? È stata ferita? È uscita durante il coprifuoco, rimanendo uccisa, e nessuno l’ha riconosciuta? Forse è andata al suo villaggio nel Sud del Libano prima che scoppiasse la guerra ed è rimasta bloccata lì? O è morta: le notizie sulle battaglie dicono che il suo villaggio è stato raso al suolo. Oppure l’ha uccisa suo marito, Salim, occultando il cadavere, dopo essere venuto a sapere della sua relazione con Hani? O è fuggita con Hani perché vuole sparire con lui come gli ha detto più volte scherzando?”.
Da quel momento cominciarono a frullarmi in testa idee perverse. Iniziai a domandarmi se Souad non avesse addirittura partecipato al suo omicidio e ora si sentisse in colpa per quello che aveva fatto. Pensai a quell’ipotesi perversa ricordando che Nahla un giorno mi aveva detto, ridendo, di avere la sensazione che Souad fosse gelosa di lei, per via di Hani e di suo marito, più di quanto non lo fosse del proprio marito, Sulayman. Mi aveva raccontato che quando riceveva una telefonata da Hani e si chiudeva in camera per parlare con lui percepiva da parte di Souad un sentimento che poteva essere di gelosia o di invidia.
L’unica cosa che potevo fare era mettermi a scrivere. Per dare una risposta a tutti quegli interrogativi, e cercare la via giusta per penetrare la sua vita e il suo destino. Tuttavia mi auguravo che ricomparisse al più presto. Quel che più importava era che non fosse rimasta vittima della guerra.
Prima di partire per Parigi, dove avrebbe incontrato Hani, Nahla mi aveva contattata e mi aveva chiesto quando avrei finito di scrivere il romanzo. Non capivo se il motivo della sua agitazione fosse il viaggio o qualcos’altro. Non riusciva a finire le frasi. Aveva perfino sbagliato il mio nome più di una volta. Dopodiché era scomparsa e non si era più rifatta viva.
Apprestandomi a scrivere quel poco che Nahla mi aveva narrato per illuminarmi sulla sua vita e sul suo destino ricordai le parole che aveva pronunciato durante il nostro ultimo incontro: “Quando scriviamo di un’altra persona, ci impossessiamo della sua vita, come se delimitassimo la sua storia dalla nascita alla morte”.
Se solo fossi riuscita a iniziare!
Dovevo esordire raccontando come aveva ripreso la relazione con Hani dopo che si era sposata? O come l’aveva ripresa più volte nel corso della sua vita, fino all’ultima, intorno ai cinquantacinque anni? Oppure dovevo partire dalla sua infanzia con le amiche Souad, Nadine, Aziza e il fratello Jawad? O narrare le trasformazioni che il suo corpo subiva quand’era innamorata e durante la maternità, in ogni epoca della sua vita? Oppure iniziare dal destino suo e delle sue amiche?
Non avevo alcuna intenzione di assecondare il gioco degli esordi. In realtà possiamo iniziare un romanzo dove vogliamo, anche a metà strada, o poco prima della fine di una vita, perché scrivere non è come parlare. Nel discorso Nahla obbediva al piacere di parlare, nella scrittura io potevo scegliere dove iniziare, perché la scrittura ci asseconda, siamo noi a darle il via, a dirigerla, per concluderla dove preferiamo. Se nella narrazione orale possiamo perdere il filo del discorso, cambiare argomento e apportare integrazioni man mano, questo non accade nella scrittura, perché nella scrittura si può solo cancellare, se si vuole entrare nell’oblio che tanto atterriva Nahla.
Sin dal nostro primo incontro avevo percepito quanto Nahla patisse la pesantezza del proprio corpo. Lo vedevo dalla sua andatura, da come si muoveva, si sedeva, e anche dal modo in cui parlava narrandomi la sua storia.
La prima cosa di cui mi parlò fu l’oblio.
Il giorno in cui la incontrai mi disse immediatamente, inclinando il capo e muovendo gli occhi, che una mattina si era precipitata in bagno subito dopo essersi svegliata e, mentre era sotto la doccia con gli occhi chiusi, aveva ripensato ai sogni della notte. Si era frizionata energicamente i capelli bagnati con lo shampoo come per stimolare il cervello a ricordare, invano. Le mani sembravano non riuscire a contenere l’enorme cranio, occupato da una sorta di nebulosa bianca in cui erano stati prima deposti e poi dispersi i suoi sogni. Aveva aperto gli occhi e a un tratto il vapore che invadeva il bagno le era parso simile alla luce mattutina proveniente da oriente, bianca come la spessa coltre di nebbia che offuscava la sua memoria.
«Non so perché ho dimenticato così tante cose e perché la mia memoria e il mio corpo non siano più vitali. Ora, a questa età, ho la sensazione che ciascuno di noi entri ed esca dal mondo trasportato sul palmo di una mano con la memoria simile a una tabula rasa. Ed è fortunato se questa memoria viene deposta nelle mani di uno scrittore che la conserva e la protegge affinché non scompaia, non si dissolva nel nulla e non vada incontro allo stesso destino del suo corpo e delle sue ossa. E tu, anche tu hai iniziato a dimenticare tutto?»
Scossi il capo e mi disegnai sulle labbra un sorriso ironico, come a confermarle che anch’io purtroppo avevo iniziato a dimenticare. Espirò una boccata di fumo, poi, sollevando il ciuffo di capelli che le si era appiccicato sulla fronte per via del sudore, mi chiese:
«La cosa non ti preoccupa? Dopotutto sei una scrittrice. Come potrai continuare a scrivere se la memoria inizia a tradirti?»
Mi pose quella domanda perché temeva potessi dimenticare quel che mi stava raccontando, che a un certo punto non l’avrei più ricordato. Mi aveva chiesto di mettere per iscritto la sua vita, di raccontare la sua eterna passione per Hani, le sorprese che le aveva riservatobil tempo, che per lei aveva il profumo dei luoghi. Lo sentiva nella vecchiaia che avanzava, nella fragranza fresca e gradevole dei suoi nipoti, in tutti i corpi e in tutte le cose. Di tanto in tanto traeva un respiro profondo e si interrompeva per chiedermi: «Ma l’amore finisce, quando finisce la storia?».
La prima volta che mi aveva invitata a bere un caffè a casa sua mi aveva travolta di domande. L’invito mi aveva colta di sorpresa, dato che la conoscevo appena, ma ci ero andata senza esitare, poiché il suo desiderio di incontrarmi era impellente, lo si capiva dal tono caldo e affettuoso della voce, graffiata da una forte raucedine. Quando le avevo chiesto perché non scrivesse lei la sua storia, era rimasta in un imbarazzato silenzio per qualche istante, come se non riuscisse a trovare le parole. Mi aveva risposto che non poteva scrivere la sua storia d’amore con Hani perché era sposata, e che le donne hanno dei segreti che non possono svelare agli altri.
Infine aveva sottolineato di essere una poetessa, non una scrittrice di romanzi. Aveva scritto alcune memorie ai tempi della sua infanzia, che ancora bambina aveva sotterrato insieme alle sue poesie nel giardino della casa di famiglia. Mi aveva spiegato che quelle pagine contenevano racconti e confessioni, ma non ero riuscita a comprendere se le avesse scritte lei, e poi le avesse nascoste con Souad, oppure se fosse quest’ultima l’autrice. Dopo una certa esitazione e qualche attimo di silenzio, mi aveva confessato che in ogni caso il suo sogno era che a narrare la sua storia fosse un’altra persona, che avrebbe potuto mettere a nudo la sua vita.
I suoi occhi luccicavano quando parlava del suo corpo, di come lo avesse riscoperto in ogni epoca della sua vita, e anche ora, superati i cinquant’anni. Ora, come sempre, era il suo regno, la sua proprietà, ma non era più dominato dalla paura della prestazione. Non capivo perché si soffermasse tanto a parlare dell’oblio. Dopo averlo paragonato al colore bianco, mi aveva detto:
«Perché nella lingua araba hanno oscurato il bianco paragonandolo all’oblio? Come ...