Due esempi
Vorrei cominciare con un esempio, che penso spieghi bene il senso di ciò che seguirà.
Prendiamo due paesi molto distanti dal punto di vista economico: Svezia e Turchia. Gli svedesi hanno un reddito pro capite di 28.000 euro. I turchi di soli 9.000 euro. Un vero abisso.
Immaginiamo che un politico turco si presenti alle elezioni e dica: “Cari concittadini, se mi eleggerete vi farò avere salari svedesi e anche pensioni, assistenza, asili nido, ospedali, di tipo svedese…”. Potrebbe mantenere le sue promesse? Ovviamente no. Perché no?
Rispondere a questa domanda significa capire come funziona la “macchina della ricchezza”. E anche la “macchina della povertà”. Ed è proprio questo lo scopo del libro.
È infatti radicata l’idea che sia la politica a determinare il benessere di un paese. E che, cambiando maggioranza, o cambiando leader, si possano ottenere cose che in realtà non dipendono dalla politica. E che non dipendono neppure dalla capacità di lottare per ottenerle. Infatti, anche se i cittadini turchi riempissero le piazze di cortei, e scioperassero a oltranza, non riuscirebbero comunque ad avere salari svedesi, e neppure pensioni, assistenza, asili nido, ospedali di tipo svedese. Perché?
Perché esistono dei meccanismi che portano una società a essere sviluppata o arretrata, indipendentemente dalla “politica”, così come è intesa comunemente.
Il politico, infatti, è il pilota, ma senza macchina non può andare da nessuna parte. Soprattutto se, come spesso avviene, in politica si dibatte continuamente sui ricambi di maggioranza ma non su come migliorare veramente le prestazioni del paese.
Ma come migliorare queste prestazioni?
Vorrei ricorrere a un altro esempio che penso possa chiarire abbastanza bene il concetto. Immaginiamo che l’Olanda subisca una grande catastrofe: cioè che le dighe vengano travolte da gigantesche onde provocate da un terremoto sottomarino, e che le terre basse vengano invase dal mare. Supponiamo, sempre per assurdo, che due milioni di olandesi, rimasti senza terra e senza casa, vengano portati in qualunque parte disabitata del pianeta. E lì lasciati. Tornando dopo 25 anni, cosa troveremo? I loro scheletri? Oppure università e campi da tennis?
Credo che propenderemmo per la seconda ipotesi. Perché? Perché essi hanno portato con sé la capacità di riprodurre quella “macchina della ricchezza” andata persa nella catastrofe.
In fondo, è proprio quello che è successo alla Germania, uscita completamente distrutta dalla guerra nel ’45, e che 25 anni dopo, nel ’70, era tornata a essere una potenza economica.
È una macchina invisibile, racchiusa nel cervello degli individui, e che “proietta” nella società il suo sapere e il suo saper fare. A pensarci bene, infatti, tutto ciò che vediamo intorno a noi è la proiezione della nostra mente: è la proiezione della nostra educazione, cultura, creatività, capacità imprenditoriale, conoscenza, organizzazione e dei nostri valori (in grado a loro volta di creare regole e di farle rispettare).
È per questo che certe cose non si possono trasferire di colpo da un paese all’altro, da un’“ecosistema” a un altro. Si può trasferire l’hardware ma non il software. Cioè i macchinari ma non i saperi. Ed è il software che fa la differenza.
Se fosse così facile trasferire, con la politica, dei modelli da un paese all’altro, non ci sarebbero problemi: le tecnologie infatti sono disponibili per tutti, nessuno deve inventare la lampadina o il computer. E così pure sono disponibili i modelli di organizzazione amministrativa, di gestione imprenditoriale ecc.: basterebbe adottare dei sistemi già esistenti per fare un balzo in avanti e azzerare i divari.
Invece non è così. Altrimenti non esisterebbero le differenze (in certi casi immense) tra un paese e l’altro.
Parlavamo prima della Turchia. La Turchia è un paese oggi in crescita ed è probabilmente un paese candidato a diventare un protagonista politico sulla scena del Mediterraneo. Ma è ancora nella fascia bassa del reddito. Ci sono paesi che hanno addirittura un reddito pro capite di soli 200 euro l’anno (meno di 60 centesimi al giorno), come il Burundi. Anche qui basterebbe allora cambiare governo per avere salari svedesi?
Due pilastri
Al di là dei paradossi, questo non significa che la politica non sia importante: anzi, è importantissima, come vedremo. Ma soltanto se riesce a stimolare e a far crescere in modo prioritario quei software (valori, educazione, regole, conoscenza, efficienza, competitività, ricerca, produttività, competenze, creatività, imprenditorialità, organizzazione, merito ecc.) che sono i veri produttori di ricchezza. E anche i veri attrattori di investimenti.
Ma è così che funziona la politica in Italia? Quello che colpisce non è tanto il fatto che la politica si occupi poco di queste cose, ma che gli stessi cittadini non si battano per ottenerle. Le battaglie prioritarie sono per l’occupazione, i salari, le pensioni, la casa, l’assistenza sanitaria ecc. Cose sacrosante. Ma è difficile ottenere i frutti se l’albero non cresce.
In altre parole, lo sviluppo di ogni paese è legato a doppio filo alla sua capacità di produrre ricchezza (non solo materiale). E quindi alla sua capacità di sviluppare quei fattori “invisibili” che ne sono alla base.
Ogni società infatti si basa sostanzialmente su due pilastri: produrre ricchezza e distribuire ricchezza. Nella distribuzione della ricchezza la politica, ovviamente, ha un ruolo primario, in quanto è lei a decidere sulle priorità, a valutare le esigenze, a far fronte agli interessi contrapposti per quanto riguarda la ripartizione del “monte premi”. E sono proprio queste scelte (in particolare quelle riguardanti le politiche sociali, economiche, fiscali, salariali, pensionistiche ecc.) a creare poi conflitti, dibattiti, opposizioni, polemiche.
Ma il “montepremi” da dove arriva? Arriva da tutte quelle attività che permettono, nei modi più diversi, di produrre ricchezza. Ed è questo l’altro pilastro.
La produzione di ricchezza è fatta da tutti coloro che, lavorando ai vari livelli della società, danno il loro contributo per produrre beni di ogni tipo: nell’agricoltura, nell’industria, nell’edilizia, nelle attività artigiane ecc. Le imprese sono la struttura portante essenziale di questo mondo produttivo, creando posti di lavoro, stipendi, gettito fiscale: e sono anch’esse il risultato di un lungo processo evolutivo, reso possibile dalla tecnologia, dall’energia, dall’educazione e da una serie di altri fattori che vedremo meglio in seguito.
In Italia, il sistema delle imprese, vivendo nella competizione del mercato, è riuscito a sopravvivere alle inefficienze e ai ritardi della politica e della pubblica amministrazione e a tutta una serie di gravi carenze strutturali.
Infatti il sistema-paese che c’è dietro alla macchina produttiva non è quello di una moderna società industriale: e si sente fortemente qui la mancanza di una cultura politica moderna che sappia non solo distribuire il montepremi, ma anche aiutare a crearlo. Non soltanto nel settore produttivo vero e proprio, ma in tutte quelle attività che rendono possibile la creazione di ricchezza: istruzione, ricerca, valori, pubblica amministrazione ecc.
Crescita e sviluppo
Il fatto è che la distribuzione della ricchezza è qualcosa che in teoria si può fare in 5 minuti, decidendo di investire sulla sanità piuttosto che sulla casa, sulla scuola piuttosto che sulle pensioni ecc. Non solo, ma spendendo molto più di quello che c’è in cassa, accumulando così un enorme debito pubblico, per pagare spese senza copertura finanziaria. Senza bilanciare queste uscite né con tagli agli sprechi, né con una maggior crescita economica, ma facendo vivere il paese al di sopra delle sue possibilità e riempiendolo di debiti (cosa che nessuna famiglia si sognerebbe di fare in casa propria se non con la prospettiva di finire in tribunale). Avremo occasione di tornare su questa follia del debito pubblico.
Creare ricchezza, invece, è qualcosa di molto di più difficile, che non si può ottenere semplicemente girando una manopola, come si fa con l’aria condizionata o il volume della radio…
Certo, per favorire la crescita ci possono essere incentivi per le imprese, detassazioni, finanziamenti, liberalizzazioni, privatizzazioni, l’apertura di nuovi cantieri, un nuovo piano di opere pubbliche (con relativi appalti…). Ma la “crescita” è cosa diversa dallo “sviluppo”: il vero sviluppo di un sistema-paese richiede che funzionino appieno quei motori interni che sono tipici delle società avanzate, e che fanno la vera differenza tra le nazioni. Sono quelle qualità nascoste che debbono essere coltivate, protette e continuamente fertilizzate, perché rappresentano i veri propulsori di una società moderna.
È incredibile invece come una società che vuole essere moderna e competitiva, cioè basata sulla conoscenza (proprio per riuscire a creare più ricchezza per i suoi cittadini) abbia in realtà una ricerca umiliata, un’educazione che nei test internazionali risulta nelle posizioni di coda, un merito negato, un’assenza disperante di cultura scientifica, dei valori calpestati, una corruzione diffusa, un’assenza di un piano energetico degno di questo nome, delle università considerate tra le ultime nelle classifiche internazionali, pochissimo sostegno all’innovazione creativa e all’eccellenza, una cultura e un’informazione che non parlano quasi mai del ruolo profondo e “filosofico” della tecnologia, ma solo delle sue meraviglie o dei suoi guasti (che sono spesso proprio il frutto di un’incapacità di capirlo e gestirlo).
La produzione di ricchezza, insomma, non è una margherita che spunta da sola (anche la margherita, del resto, ha dietro di sé il suo piccolo ecosistema). Una società industriale è il punto d’arrivo di un lungo processo, che ha avuto bisogno di una complessa concatenazione di eventi per emergere, e poi svilupparsi e mantenersi in vita.
È utile, quindi, in proposito, ricordare da dove veniamo. Guardare quello che eravamo ieri è molto utile per capire quali sono i meccanismi che hanno permesso il grande cambiamento, e che ancora oggi fanno girare le nostre società, spesso in modo invisibile.
Istantanee dell’Italia dell’Ottocento
Nel 2011 si sono celebrati i 150 anni dell’Unità d’Italia. Con dovizia di manifestazioni, mostre, discorsi, eventi collaterali.
La mia impressione è che si sia persa l’occasione di spiegare esattamente cosa è successo in questo secolo e mezzo. È stato infatti il periodo che più ha cambiato la storia dell’Italia (e del mondo) da quando è apparso l’Homo Sapiens. Perché?
Perché in questi 150 anni si è concentrata una trasformazione mai vista nella storia umana, dovuta all’esplosione della scienza, della tecnologia e dell’energia.
Se potessimo tornare indietro di 150 anni cosa vedremmo? L’Italia del 1861 era una società contadina povera: quasi il 70 per cento della popolazione lavorava nei campi. Andando in giro per le campagne avremmo visto tanti uomini con la zappa e la falce, e tante donne, invecchiate anzitempo, circondate da bambini a piedi nudi. Il cibo era poco, malgrado la fatica quotidiana dall’alba al tramonto. L’acqua la si tirava su con i secchi dal pozzo. Ci si lavava poco. Quasi nessuno aveva una vasca da bagno (ancor meno uno scaldabagno…). Nelle campagne il gabinetto era fuori casa.
Non esistevano week-end e vacanze (e tantomeno discoteche). Non c’era neppure la luce elettrica. Si partoriva in casa, con seri rischi di infezione (mia nonna morì di parto a 20 anni…). Le donne passavano la loro giovinezza tra una gravidanza e l’altra, tra un allattamento e l’altro. La mortalità infantile era altissima: il 23 per cento dei bambini moriva nel primo anno di vita (oggi lo 0,3 per cento). L’analfabetismo era la regola: il 78 per cento della popolazione italiana era analfabeta con punte del 90 per cento! Anche tra i giovani l’analfabetismo era altissimo: consultando gli atti di matrimonio del 1867 si scopre che il 60 per cento degli sposi firmava con una croce, e così il 79 per cento delle spose!
Lungo le strade polverose si sarebbero incontrati solo uomini su carretti o su somari, e donne con fagotti sulla testa, spesso con pochi denti in bocca. A quel tempo non era ancora stata inventata neppure la bicicletta. Si moriva presto: bastava un’infezione per andarsene (polmonite, tifo, tetano, tubercolosi). Gli abiti e le scarpe dovevano durare fino a completa consunzione.
Si potrebbe continuare a lungo, parlando della condizione della donna, dei diritti umani, e di molte altre cose. Ma il quadro appare già abbastanza chiaro.
Secondo voi, anche qui un politico illuminato avrebbe potuto dire a questi italiani: “Cari concittadini, se mi eleggerete avrete i weekend, le vacanze, alti salari, la scuola per tutti fino a 16 anni, cibo in abbondanza, vita lunga e sana”, ecc. ecc.?
Per secoli, anzi per millenni, nessuno ha mai potuto promettere una cosa simile, in qualsiasi tipo di regime. Eppure i nipoti, o i pronipoti, di quegli italiani oggi queste cose le hanno, insieme a molte altre. E le hanno solo grazie all’ingresso in scena delle macchine (e dell’energia che le fa girare).
La moltiplicazione dei pani
Le cose cominciano a cambiare, in Italia, quando gradualmente nelle campagne arrivano dei macchinari per seminare, per trebbiare, per essiccare, quando arrivano nuove sementi a più alto rendimento, sostanze chimiche per diserbare, per fertilizzare, per uccidere i parassiti nocivi; camion per trasportare i prodotti agricoli verso i grandi mercati (se necessario conservando le derrate deperibili con la catena del freddo) ecc. Ebbene, man mano che entrano nei campi queste nuove tecnologie, il numero dei contadini diminuisce. E diminuisce sempre più rapidamente. Perché bastano sempre meno persone per produrre sempre di più. È la moltiplicazione dei pani.
Nei 2 mila anni precedenti le rese agricole erano aumentate di pochissimo. Al tempo dei romani una spiga di grano, a conti fatti, permetteva di ottenere soltanto 5 chicchi (di cui uno doveva essere tenuto da parte per la semina…). È stato necessario aspettare il Rinascimento per aumentare la resa di un solo chicco. In queste condizioni non si potevano certamente modificare di molto le condizioni dei contadini. E del paese. Oggi si superano i trenta chicchi.
Attualmente in Italia gli addetti all’agricoltura (sia pure con la difficoltà di calcolare i clandestini) sono intorno al 4 per cento della popolazione attiva. Ma producono infinitamente più cibo di quel 78 per cento di contadini del 1861… Negli Stati Uniti, addirittura, oggi basta l’1 per cento della popolazione attiva per produrre cibo in abbondanza per tutti, e esportarne milioni di tonnellate (la Tabella 1 mostra quanto è aumentato il cibo pro capite in Italia dal 1861).
In Italia le campagne, negli ultimi 150 anni, si sono quindi svuotate. Oggi, se si guarda fuori dal finestrino del treno, è difficile vedere contadini al lavoro nei campi: quando invece ero bambino, negli anni Trenta, nel vercellese, dal treno si vedevano tante famiglie curve sulle coltivazioni, e al momento del trapianto e della monda del riso, c’erano tante mondine, con i piedi nell’acqua, tra le zanzare e con un largo cappello di paglia per proteggersi dal sole. Erano ragazze che venivano dal ferrarese, per pochi soldi. Tutte queste cose oggi si fanno a macchina, o si fanno in modi diversi. E questo ha rivoluzionato non solo il modo di coltivare, ma l’intera...