Mi infilo nella toilette dell’aereo, mi piace che ci sia ogni cosa, compresa in uno spazio così piccolo, con tutti quei vanetti in cui si stipano salviette, carta igienica, lo sciacquone che si aziona con un bottone, il risucchio che sembra debba trascinarti via, il lavandino con quel buffo pulsante che fa scendere l’acqua per un secondo prima ancora che uno possa sciacquarsi le mani. Mi do un’occhiata nello specchio, i capelli sono tornati normali, dopo un po’ mi sono scocciata di tingerli e mi era passata la voglia di avere una faccia che sembrava appartenere a qualcun altro.
Torno al mio posto e una hostess mi fissa per un po’, è uno sguardo che conosco ma che sembra relegato in un passato lontano, prende coraggio e si avvicina.
«Sei la cantante?» mi chiede.
«Sì.»
«Mi faresti un autografo? A mia figlia piacciono tantissimo le tue canzoni.»
E ti pareva, penso.
«Certo. Come si chiama?»
«Paola.»
“A Paola, con affetto, Marisa” scrivo su un bloc-notes della compagnia aerea.
Non so se mi piace, non so se ho voglia di ritornare alla mia vecchia vita. Ma poi l’aereo è in volo e, perlomeno, uno scalo a Milano lo dovrò fare.
«Ma canti ancora?» mi chiede.
«In che senso?»
«No, non so, scusa, semplicemente non ti ho più vista in televisione, mi sembrava di aver letto da qualche parte che volevi lasciare la musica, che volevi tornare a fare una vita normale.»
Non capisco come interpretare le sue parole e, soprattutto, non ricordo di aver mai rilasciato una simile dichiarazione a chicchessia. Finché sono rimasta in Italia, non c’è stata una mia frase pubblica che non abbia ricevuto prima della pubblicazione l’assenso del mio manager. Che mai avrebbe fatto pubblicare una frase del genere.
La giornata è limpida e l’aereo sta passando adesso sopra le Alpi: è uno spettacolo incredibile, ci sono tutte le cime innevate e il cielo è talmente terso che pare di poterle toccare. Ancora venti minuti e atterreremo all’aeroporto di Orio al Serio, informa il capitano, che spiega che a terra ci sono dieci gradi, molto più caldo rispetto a Berlino.
Prendo un foglietto e mi metto a ipotizzare qualche risposta quando la stampa mi chiederà che fine ho fatto per tutti questi mesi.
Professionale: ho avuto una crisi creativa e mi sono rifugiata in una località segreta per ritrovare la mia musica.
Intimista: sono andata all’estero a ritrovare la ragazzina che ancora sono.
Strafottente: vi sono mancata, eh?
In realtà, credo che non dirò nulla, mi sento forte, farò una sorpresa al mio manager, parleremo un po’ della nuova direzione che voglio dare alla mia carriera – ho già una mezza idea – e poi si tratterà di trovare gli autori adatti per rimettersi a scrivere canzoni.
L’aereo atterra, mi avvio verso la scaletta e mi viene in mente quello che Ete mi ha raccontato una volta di Marlene Dietrich, con una strana analogia che dimostra che gli dev’essere sfuggito qualcosa della mia situazione. Diceva che la Dietrich se ne era andata da Berlino alla fine degli anni Trenta per sfuggire al nazismo, non aveva voglia di dover avere dei padroni ed era tornata nella sua città diversi anni dopo, alla fine della guerra. Si aspettava un ritorno da trionfatrice, erano state organizzate delle cerimonie di accoglienza ma la popolazione l’aveva fischiata per strada, insultata, era vista come una che aveva tradito. Ho cercato di spiegargli che io al massimo ero una cantante frustrata dall’ossessività con cui le nonnine mi fermavano per strada, dal vedermi raffigurata come una pacioccona amata dalle zie e che me ne ero andata più che altro perché non sopportavo più di vedere su tutti i giornali il mio ex che si faceva una dieci volte più fica di me.
“Non importa, sono dettagli” ha continuato a dire Ete, che ogni tanto sa essere davvero testardo.
Entro in aeroporto, mi lancio subito verso un bar, ordino un cappuccino e una brioche.
«Subito, signorina» dice il cameriere senza guardarmi.
Affondo i denti nella pasta, quanto mi sei mancata, dico alla mia brioche al cioccolato. Anche il cappuccino mi sembra il migliore che io abbia mai bevuto e in un attimo sono di nuovo a casa.
«Ti è caduto questo» dice una signora, passandomi il lucidalabbra che dev’essere uscito dalla borsa. Mi dà una rapida occhiata come se il mio volto le ricordasse qualcosa ma subito prosegue la sua marcia verso la cassa. Stessa cosa fa una pletora di gente, di tutte le età, che mi passa davanti trascinando cigolanti trolley.
Un attimo: sono in Italia, giusto? Sì, la gente parla italiano, io sto mangiando un perfetto cappuccino con brioche che non potrei mai trovare a Berlino o a Parigi, le scritte sono in italiano. Mi chiedo se sia una candid camera all’incontrario. Quelle cose che fanno alle “Iene” con Pif che comincia a intervistare un VIP e poi dice, scusa, scusa, devo andare che c’è una persona importante che devo intervistare e poi torna indietro dicendo, no, non era Briatore, possiamo riprendere noi, tanto non c’è nessuno a cui fare domande.
Sono ferma da dieci minuti in un bar e nessuno mi ha riconosciuta, nessuna signora mi ha chiesto l’autografo, giusto la hostess, ma che sembrava parlarmi come a un ex calciatore di cui si aveva la figurina da piccoli e di cui si sono perse le tracce per secoli. Quei cantanti degli anni Cinquanta che ogni tanto partecipano ai revival televisivi e persino le nonnine li vedono e dicono alle sorelle: “Mah, Maria, ma non era morto questo?”.
Comincio a essere un po’ ansiosa perché, d’accordo che me la stavo tirando un po’ troppo, forse ci sono caduta nella trappola della lusinga di Ete che parlava di me come della novella Marlene Dietrich e, se anche gli dicevo di non dire cazzate, mi ci sentivo un pochino nella parte, ma qui davvero stiamo esagerando, perché è come se uno organizza una festa e passa il tempo a dire “speriamo che non venga troppa gente che non mi ci sta in casa” e poi si ritrova davanti alla torta con una zia fedele e l’amica Gina che non ti abbandona mai.
In questo stato d’animo mi avvio verso l’edicola in cerca di conferme. Sotto lo sguardo infastidito dell’edicolante (che non mi riconosce neanche lei, cazzo, che sta succedendo?) inizio a sfogliare le riviste.
Parto da “Donna vera”, ci trovo nell’ordine: il resoconto del probabile tradimento di una starlet con un uomo molto più vecchio e potente del suo muscolosissimo e tatuatissimo fidanzato (I suoi muscoli non le bastano più? dice il titolo con tanto di ragazzotto in mutande e tatuaggi), poi la storia vera di una madre che ha subito dieci aborti di fila e in seguito ha partorito otto figli sani (“Un caso? Non lo so, ma tutto è successo dopo una visita a Padre Pio”), si parla poi di una cantante, giovane, si chiama Annamaria, così, solo il nome, non l’ho mai sentita (“Il successo non mi ha cambiata” dice, in una foto coi nonni in cucina). Ha un aspetto magro, quasi cadaverico e racconta infatti che la musica l’ha salvata dall’anoressia che la stava consumando.
Sfoglio “Donna & Mamma”, do un’occhiata ai titoli, niente, non trovo il nome di Marisa da nessuna parte, neppure quello di Tano e della sua stangona. Si parla di un paio di personaggi del “Grande fratello” ultima edizione, che ovviamente non conosco, e c’è un articolo sul ritorno in televisione di un noto presentatore, messo in naftalina dopo una storia di sesso con un trans che aveva spinto le gerarchie cattoliche a chiederne la rimozione nelle fasce orarie per le famiglie. Ancora un cenno a questa cantante misconosciuta, la guardo, non è male, chissà chi è.
Stessa cosa più o meno quando mi rigiro avidamente sotto gli occhi le pagine di “Donna perbene”, una nuova pubblicazione che non mi ricordavo esistesse.
«Scusi, signorina, così mi sciupa le riviste...»
Alzo la testa e si interrompe. La guardo sorridendo, mi sistemo gli occhialoni per attirare la sua attenzione sugli stessi, faccio una pausa, lei mi guarda di nuovo. “Sì, sono io, Marisa, se vuole le faccio un autografo e la chiudiamo qui, lei mi fa guardare in santa pace le riviste e siamo felici tutte e due, no?”
«Che fa, mi prende in giro? Ride pure... è qui da mezz’ora che sfoglia le riviste senza prenderne neanche mezza e mi ride in faccia...» dice rivolta a una sua collega che mi lancia un’occhiata di rimprovero.
No, non è possibile, qui sta succedendo qualcosa di veramente strano, quasi inspiegabile e mi sta salendo l’ansia.
“Ah, prima rompevi le palle che eri troppo famosa... e adesso pure rompi le palle, ma perché non ti si fila nessuno?”
La voce di Penelope, quello strano essere che mi accompagna senza farmi veramente compagnia, mi riporta alla realtà.
Ma non mollo: vado con passo svelto verso uno di quei negozi per i regalini dell’ultimo momento, per gli acquisti superflui fatti per ingannare l’attesa dell’imbarco e ricordo esattamente che quando sono partita c’erano in vetrina, nel punto di maggior passaggio, cuscinetti “Marisa Semplicità”, cioccolatini “Semplicità, è il modo giusto per resistere by Marisa” e così via.
Niente, non c’è più niente che mi riguardi, anzi, c’è un pupazzetto di Annamaria, tutto magro e smunto che se lo vedesse la mia nonna si metterebbe le mani nei capelli e comincerebbe subito a nutrirlo con una scofanata di pasta alle melanzane.
Quasi quasi richiamo la mia analista, questo è un sogno e bisogna che lei lo interpreti. Anzi, no, la chiamo sul serio.
«Pronto?»
«Sono Marisa.»
«Maaarisa, buongiorno, come sta? Ma dov’è andata a finire?»
«Ha ricevuto le mie cose?»
«Certo.»
«E?»
«E? Vuole che ne parliamo? Ero felice di saperla altrove, secondo me è stata un’ottima idea.»
«Non mi riconosce più nessuno.»
«... E adesso le dispiace. Guardi, ho un cliente, se vuole le passo la mia segretaria e fissiamo un incontro. La vedo molto volentieri.»
«Guardi, non si preoccupi, sono appena arrivata all’aeroporto, la richiamo poi io.»
«Grazie, che adesso proprio ho un cliente che è appena entrato e non posso rimanere al telefono. A presto, quindi, a presto, mi raccomando.»
Non mi decido ancora a rassegnarmi, mi dico che questo è un aeroporto, qui c’è gente impegnata, che viaggia, mica tutti hanno il tempo di seguire ogni singolo pomeriggio le trasmissioni in TV che per mesi hanno parlato del caso Marisa, questa ragazza di provincia che diventa una miniera d’oro per la discografia italiana, la Caterina Caselli del Duemila e bla, bla, bla.
Salgo sull’autobus, rinuncio al taxi, perché voglio vedere fin dove arriva la candid camera, voglio proprio vedere fino a che punto si sono organizzati per farmi questa strana sorpresa.
Mi guardo intorno nel corridoio centrale, vedo un ragazzo decisamente carino, avrà più o meno la mia età, un po’ sbrindellato come piace a me, e mi ci metto accanto.
L’autista mette in moto e si accende automaticamente la radio.
“Ve lo ricordate ancora? Il pezzo che ci ha fatti cantare tutti l’anno scorso” dice il DJ.
Semplicità, / è il modo giusto per resistere / alla disdetta di esser libere / alla disfatta di restar nubili / e non trovar l’amore tuo...
Non resisto e mi metto a canticchiarla sottovoce. Il ragazzo alza la testa, mi guarda.
«Sei tu, no?»
«Marisa» gli dico porgendogli la mano.
«Andrea.»
«Hai lasciato la musica, no?»
«Perché?»
«No, mi pareva. Non seguo tanto, po...