Quasi tutte le avventure riferite in questo libro sono realmente accadute: un paio proprio a me, le altre a miei compagni di scuola. Huck Finn è un ritratto dal vero. E anche Tom Sawyer, ma non da un unico modello: è una combinazione delle caratteristiche di tre ragazzi che ho conosciuto; in architettura si direbbe che appartiene all’ordine composito.
Le stravaganti superstizioni alle quali si fa cenno erano realmente diffuse tra i bambini e gli schiavi del West all’epoca in cui si svolge la storia, cioè trenta o quarant’anni fa.
Anche se il mio libro è stato scritto soprattutto per divertire ragazzini e ragazzine, spero che gli adulti non lo butteranno via per questo. Tra i miei intenti nello scriverlo, infatti, c’era anche quello di far tornare in mente ai grandi, con piacere, ciò che loro stessi sono stati, che cosa provavano, come ragionavano e come parlavano quando erano ragazzi e in che razza di strane imprese si andavano a ficcare certe volte.
Hartford, 1876
L’autore
— Tom!
Non risponde.
— Tom!
Non risponde.
— Dove si sarà cacciato quel ragazzo? Dico a te, Tom!
La vecchia signora abbassò gli occhiali sulla punta del naso e guardò da sopra le lenti per tutta la stanza; poi li sollevò sulla fronte e guardò da sotto le lenti. Non ci guardava quasi mai attraverso, quando doveva avvistare una cosa da poco come un ragazzino; infatti erano occhiali di rappresentanza, orgoglio dell’anima sua, fatti per conferire dignità, non per servire a qualcosa. Se sul naso avesse avuto due cerchi per la stufa, sarebbe stato lo stesso. Dopo un attimo di sconcerto disse, non in tono arrabbiato ma abbastanza forte da farsi sentire dai mobili: — Giuro che se ti acchiappo, ti…
Non finì la frase, perché intanto si era piegata in due e si era messa a menare colpi sotto il letto con la scopa, perciò doveva usare tutto il fiato per dare ritmo ai colpi di ramazza. Ma riuscì a stanare solo il gatto.
— Non c’è mai neanche l’ombra di quel ragazzo!
Si affacciò alla porta aperta e scrutò tra i filari di pomodori e l’infestante stramonio che rappresentavano il suo orto. Di Tom, nessun segno. Allora regolò la voce su un volume sufficiente per colpire a distanza e gridò: — Toom, dico a tee!
Un fruscio alle sue spalle la fece girare appena in tempo per acciuffare al volo per il lembo della giacca un ragazzetto che non riuscì a scappare. — Ah, avrei dovuto pensarci, alla dispensa. Che cosa ci facevi là dentro?
— Niente.
— Niente, eh? E questi sbaffi qui sulla bocca e sulle mani, che cosa sarebbero?
— Non saprei, zia.
— Be’, lo so io: marmellata, ecco che cosa sono. Te l’avrò detto quaranta volte: se non stai alla larga dalla marmellata, ti spello vivo. Passami quella frusta.
Brandì la frusta e la alzò. Il pericolo era incombente.
— Mamma mia! Guarda là, zia, dietro di te!
La vecchia signora si voltò, raccogliendosi le gonne per ogni evenienza, e il ragazzo in un lampo scavalcò lo steccato e scomparve. Zia Polly rimase un attimo a bocca aperta, poi scoppiò a ridere piano.
— Accidenti a quel ragazzo, non imparerò mai! Quante volte mi ha tirato scherzetti del genere, eppure ci casco sempre. È proprio vero che non c’è peggior sciocco di un vecchio sciocco. Come dice il proverbio, al cane vecchio la volpe sputa in faccia. Ma, santo cielo, ogni giorno ne inventa una nuova: come fa una poveretta a indovinare? E sembra che sappia esattamente fino a che punto può tirare la corda e anche che, se riesce a distrarmi un attimo o a farmi ridere, è fatta: non ho più cuore di dargli una passata. Bontà di Dio, ma così vengo meno al mio dovere. Eh, sì, la verità è questa: chi risparmia il bastone alleva un mascalzone, come dice la Bibbia. Sto preparando un futuro di peccato e punizione per me e per lui, lo so. Ha il diavolo addosso, quel ragazzo, ma come si fa? È il figlio di mia sorella, pace all’anima sua, e, insomma, non ho il coraggio di frustarlo. Ogni volta che gliene lascio passare una mi rimorde la coscienza e ogni volta che lo picchio mi piange il cuore, vecchia sciocca che non sono altro. Ah, ogni nato di donna ha i giorni contati e ciascuno ha il suo guaio, come dicono le Scritture. È proprio vero. Ma giuro che se oggi salta la scuola, domani per castigo lo faccio lavorare. È una crudeltà metterlo sotto di sabato, quando tutti gli altri fanno festa, ma il lavoro è la cosa che odia di più e io il mio dovere lo devo pur fare, o finisce che lo rovino, quel figliolo.
Tom quel pomeriggio in effetti marinò la scuola, e si divertì un sacco. Tornò a casa appena in tempo per aiutare Jim, il garzone di colore, a spaccare la legna per il giorno dopo e a spezzare gli sterpi per il fuoco prima di cena. O, per meglio dire, arrivò in tempo per raccontare le sue imprese a Jim, mentre l’altro svolgeva i tre quarti del lavoro. Sid, il fratello più piccolo di Tom (il suo fratellastro, veramente) aveva già fatto la sua parte (raccogliere i trucioli), perché era un ragazzino tranquillo, senza smanie di avventura, e non combinava guai. La sera a cena, mentre Tom mangiava la minestra (e trafugava qualche zolletta di zucchero appena gliene capitava l’occasione), zia Polly non smise di fargli domande maliziose e astute, perché voleva che cadesse in trappola da solo lasciandosi scappare rivelazioni pericolose. Come molte anime semplici, la zia si credeva maestra nella complicata arte della diplomazia, e considerava i propri trucchetti più trasparenti capolavori di sottile astuzia. — Tom — disse — chissà che caldo oggi a scuola, eh?
— Sì, zia.
— Un caldo insopportabile, vero?
— Sì, zia.
— Ti sarà venuta voglia di farti una nuotata, eh, Tom?
Tom avvertì una piccola scossa di allarme, un’ombra di disagio. Scrutò la faccia della zia, ma non ne ricavò nulla. Così rispose: — No, zia. Cioè, non molta.
La vecchia signora allungò la mano per tastargli la camicia. — Adesso comunque il caldo ti è passato — disse, e si sentì molto furba per essersi accertata che la camicia di Tom fosse asciutta senza lasciar trasparire i suoi sospetti. Ma Tom a questo punto aveva capito l’andazzo e prevenne la mossa successiva. — Ci siamo spruzzati la testa con la pompa. Ho ancora i capelli umidi, senti?
Zia Polly si sarebbe mangiata le mani all’idea di aver trascurato una simile prova indiziaria e di essersi persa la possibilità di un altro trabocchetto. Ma poi le venne una nuova ispirazione: — Per spruzzarti la testa non ci sarà stato bisogno di disfare la cucitura che ti ho fatto al colletto della camicia, vero? Slacciati un po’ la giacca.
Ogni ombra di preoccupazione svanì dalla faccia di Tom. Scostò il bavero della giacca: ecco lì il colletto, cucito come si deve.
— Be’… Va bene, chiuso. Ero proprio sicura che avessi bigiato per farti una nuotata. Sei perdonato, Tom. Come dice il proverbio, chi è stato scottato dall’acqua calda, ha paura anche di quella fredda. Forse sei migliore di quanto non sembri… questa volta.
Da un lato le dispiaceva che la sua sagacia non avesse fatto centro, dall’altro era contenta che, una volta tanto, Tom avesse imboccato la via dell’ubbidienza.
Ma Sidney aggiunse: — Che strano, mi pareva che gli avevi cucito il colletto con il filo bianco, non con quello nero.
— Certo che il mio filo era bianco! Tom!
Ma Tom non rimase ad aspettare il resto. Mentre passava di corsa vicino a Sid gli sibilò: — Questa me la paghi cara, Siddy.
Una volta al sicuro, esaminò i due grossi aghi appuntati sotto il bavero della giacca – con un po’ di filo avvolto attorno – uno infilato di nero, l’altro di bianco. — Non se ne sarebbe mai accorta, se non era per Sid. Accidenti, certe volte usa il filo bianco, certe altre quello nero. Perché cavolo non si decide per l’uno o per l’altro? Non posso mica tenere il conto, io! Giuro che Sid questa me la paga. Mi cascasse un dente se non gliela faccio pagare.
Tom non era propriamente il ragazzo modello del paese. Però sapeva bene chi era il ragazzo modello, e lo detestava.
Due minuti dopo, o anche meno, si era già dimenticato di tutti i suoi guai. Non perché fossero meno gravi e amari di quanto lo siano quelli di un uomo adulto, ma perché un nuovo e prepotente interesse li aveva scacciati, almeno temporaneamente, dai suoi pensieri. Proprio come le disgrazie di un uomo adulto vengono dimenticate nell’eccitazione di una nuova impresa. L’interesse in questione era un nuovo e formidabile modo di fischiare appena appreso da un negro di sua conoscenza, e Tom non vedeva l’ora di esercitarsi in santa pace. Il fischio consisteva in una specie di trillo di uccello, un vibrato liquido tutto particolare, che si ottiene battendo rapidamente e ripetutamente la lingua contro il palato intanto che si fischia. Il lettore, se è mai stato ragazzo, saprà certamente come si fa. Diligenza e concentrazione lo resero ben presto padrone di quell’arte, e Tom si incamminò a testa alta verso il paese, la bocca piena di armonie, l’anima colma di gratitudine. Si sentiva come deve sentirsi un astronomo che abbia appena scoperto un nuovo pianeta, e non c’è dubbio che, quanto a intensità, profondità e genuinità del piacere provato, il paragone vada a tutto vantaggio di Tom.
D’estate le sere sono lunghe. Non era ancora buio. Ma il fischio morì in gola a Tom: davanti a lui c’era uno sconosciuto, un ragazzo appena un po’ più grande di lui. Una faccia nuova, di qualunque età o sesso, suscitava sempre enorme curiosità in un povero paesino sperduto come St Petersburg. Il ragazzo in questione, per di più, era vestito a festa: vestito a festa in un giorno feriale! Una circostanza di per sé senza precedenti. Il berretto era proprio una cosina raffinata, la giacchetta di panno azzurro inappuntabile, attillata e nuova di zecca; lo stesso i pantaloni. Inoltre portava le scarpe. Eppure era solo venerdì! E aveva perfino la cravatta, un fiocco di colore vivace. Tutta quell’aria di città fece rodere il fegato a Tom. Più contemplava lo splendido esemplare, più gli facevano senso le sue finezze, e più gli sembrava scalcagnato il proprio abbigliamento. Nessuno dei due ragazzi fiatò. Se uno faceva un passo, anche l’altro faceva un passo, ma sempre di lato, in cerchio; badavano a tenersi sempre faccia a faccia senza staccarsi gli occhi dagli occhi. Alla fine Tom disse: — Se voglio ti meno.
— Provaci. Mi piacerebbe proprio vederti.
— Sono capacissimo.
— No che non lo sei.
— Sì che lo sono.
— Invece no.
— Invece sì.
— No.
— Sì.
— No.
Pausa carica di tensione.
Tom: — Come ti chiami?
— Non sono affari tuoi.
— Ti faccio vedere io se non sono affari miei.
— Ah, davvero?
— Di’ ancora una parola e vedrai.
— Uh-uh: «ancora una parola»!
— Ti credi tanto intelligente, eh? Sarei capace di prenderti a botte con una mano legata dietro la schiena.
— E fallo, no? Finora, hai fatto solo chiacchiere.
— Guarda che ti meno sul serio, se non la smetti di fare il furbo con me.
— Uh, come no? Ne ho conosciuti di altri uguali a te, che sono finiti male.
— Che piffero! Chi ti credi di essere con quel cappello?
— Mi sa che te lo dovrai far piacere per forza. Ti sfido a togliermelo e chi non ci sta è un cretino.
— Bugiardo!
— Chi lo dice sa di esserlo.
— Sei un vigliacco, non hai il coraggio di farti sotto.
— Va’ a farti un bagno!
— Faccia di tolla! Continua così e prendo un sasso e te lo tiro in testa.
— Sì, proprio!
— Vedrai!
— Allora perché non ci provi, invece di dirlo soltanto? Lo sai perché? Perché sei un fifone.
— Non sono un fifone.
— Sì che lo sei.
— No.
— Sì.
Altra pausa, altri giri in tondo senza perdersi d’occhio. Adesso si trovavano spalla contro spalla.
Tom: — Sloggia di qui.
— Sloggia tu.
— Io no.
— Neanch’io.
Erano fianco a fianco, puntellati ciascuno sul piede esterno divaricato. Incominciarono a spingersi come matti, lo sguardo torvo pieno di odio, ma nessuno dei due mollò di un centimetro. Dopo aver lottato fino a essere rossi e sudati per lo sforzo, allentarono a poco a poco la tensione, pur restando in guardia, e Tom disse: — Vigliacco! Bamboccio! Aspetta che lo dica a mio fratello grande: lui viene e ti stende con il mignolo.
— Sai che paura! Io ho un fratello che è più grande del tuo, e che al tuo è capace di fargli fare un volo sopra quella siepe lì. — (Entrambi i fratelli maggiori erano stati inventati per l’occasione.)
— Bugiardo.
— Chi lo dice sa di esserlo.
Tom tracciò una riga nella polvere con il ditone del piede. — Ti sfido a oltrepassare la riga; provaci e ti riempio di cazzotti finché non ti reggi più in piedi. E chi non ci sta è un ladro di pecore.
Il ragazzo nuovo oltrepassò subito la riga. — Hai detto che mi picchiavi. Avanti, vediamo.
— Stai attento a non provocarmi o ti faccio vedere io.
— Sei stato tu a dirlo. Perché non lo fai, eh?
— Cavoli, per due centesimi lo faccio eccome!
Il ragazzo nuovo tirò fuori di tasca due monete di rame e le tenne in alto con aria di scherno.
Con una manata Tom gliele fece cadere per terra.
Un secondo dopo i due si rotolavano nella polvere avvinghiati come gatti. Per un minuto buono si tirarono e strapparono capelli e vestiti e si diedero cazzotti e graffi sul naso, coprendosi di polvere e di gloria. Poi il groviglio prese forma e dalle nebbie della mischia emerse la figura di Tom che, a cavalcioni sul nemico, lo martellava di pugni.
— Di’: «Basta!»
Ma l’altro continuò a dimenarsi ...