
- 728 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il romanzo di Alessandro
Informazioni su questo libro
Alessandro aveva un grande sogno: creare un mondo nuovo senza più né greci né barbari, né vincitori né vinti. Era così convinto della sua idea che combatté tra mille avventure per dieci anni pur di realizzarla, spingendosi fino all'India misteriosa, al limite delle terre conosciute. Da un profondo conoscitore dell'antichità, il ritratto emozionante di una delle figure più luminose e affascinanti che la storia ci abbia tramandato.
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Informazioni
Print ISBN
9788804607663eBook ISBN
9788852018220PARTE TERZA
IL CONFINE DEL MONDO
CAPITOLO PRIMO
Il re si rimise in viaggio attraverso il deserto sul finire della primavera, per un’altra via che dall’oasi di Amon raggiungeva direttamente le sponde del Nilo nei pressi di Menfi. Cavalcava da solo per ore e ore in groppa al suo baio sarmatico, mentre Bucefalo gli galoppava a fianco senza finimenti e senza briglie. Da quando Alessandro si era reso conto di quanto lunga fosse ancora la strada che avrebbe dovuto percorrere, cercava di risparmiare al suo cavallo tutte le fatiche inutili, come se volesse prolungargli il vigore dell’età giovanile.
Ci vollero tre settimane di marcia sotto il sole cocente e fu necessario affrontare ancora durissime privazioni prima di vedere la sottile linea verde che annunciava le fertili sponde del Nilo, ma il re sembrava non sentire né la stanchezza né la fame né la sete, assorto nei suoi pensieri o nei suoi ricordi.
I compagni non disturbavano il suo raccoglimento perché si rendevano conto che voleva restare solo in quelle sterminate distese desertiche con il suo sentimento d’infinito, con la sua ansia d’immortalità, con le passioni del suo animo.
Un giorno Tolomeo lo raggiunse nella sua tenda e lo sorprese con una domanda che aveva tenuta dentro per troppo tempo: — Che cosa ti ha detto il dio Amon?
— Mi ha chiamato “figlio” — rispose Alessandro.
— E tu, che cosa gli hai chiesto?
— Gli ho chiesto se tutti gli assassini di mio padre erano morti o se qualcuno era sopravvissuto.
Tolomeo non disse nulla. Solo dopo un poco gli domandò: — Dunque vuoi ancora bene a tuo padre Filippo, ora che sei diventato un dio?
— Se non fossi tu a farmi questa domanda, penserei che sono parole di Callistene… — rispose Alessandro. — Dammi la tua spada.
Tolomeo lo guardò sorpreso. Sguainò l’arma e gliela porse. Lui la prese e si incise con la punta la pelle del braccio, facendone colare un rivolo vermiglio.
— Che cos’è questo, non è forse sangue?
— Lo è infatti.
— È sangue, vero? Non è «icor, che scorre nelle vene degli dei beati» — continuò, citando un verso di Omero. — E dunque, amico mio, cerca di non ferirmi inutilmente, se mi vuoi bene.
Tolomeo capì e si scusò per avergli rivolto la parola in quel modo. Ma Alessandro non si era offeso. Aveva la testa ingombra di altri pensieri. La sua intenzione era quella di tornare a Tiro, dove Antipatro gli avrebbe fatto sapere cosa stava succedendo in Grecia. Inoltre doveva raccogliere informazioni su ciò che stava progettando Dario.
— So che Eumene ti ha riferito della sorte di tuo cognato Alessandro d’Epiro — disse Tolomeo.
— Sì, purtroppo. Mia sorella Cleopatra sarà affranta, e anche mia madre, che lo amava moltissimo.
— Ma io penso che sia tu a provare il dolore più grande.
— Non era solo la doppia parentela ad unirci. C’era un grande sogno. Ora tutto il peso di quel sogno grava sulle mie spalle. Un giorno passeremo in Italia, Tolomeo, e annienteremo i barbari che lo hanno ucciso.
Alessandro versò un po’ di vino di palma all’amico, ed entrambi bevvero con un senso di tristezza.
— Pensi mai a Pella? — chiese a un tratto Tolomeo. — Pensi mai a quando eravamo ragazzi e correvamo a cavallo sulle colline di Macedonia? Alle acque dei nostri fiumi e dei nostri laghi?
Alessandro sembrò riflettere per qualche istante, poi rispose: — Sì, spesso, ma mi sembrano immagini lontane, come di cose accadute tanti anni fa. La nostra vita è talmente intensa che ogni ora conta come un anno.
— Questo significa che invecchieremo anzitempo, non è così?
— Forse… O forse no. La lucerna che brilla più splendente nella sala è quella destinata a spegnersi per prima, ma tutti i convitati ricorderanno quanto bella e amabile fosse la sua luce durante la festa.
Scostò il lembo della tenda e accompagnò fuori Tolomeo. Il cielo sul deserto brillava di un numero infinito di stelle e i due giovani levarono gli occhi a contemplare la volta splendente.
— E forse questo è anche il destino delle stelle che brillano più fulgide nella volta celeste. Che la tua notte sia serena, amico mio.
— E anche la tua, Aléxandre — rispose Tolomeo, e si allontanò verso la sua tenda ai margini del campo.
Cinque giorni dopo raggiunsero le sponde del Nilo a Menfi, dove attendevano Parmenione e Nearco. Alessandro scoprì che in un sontuoso palazzo appartenuto a un faraone era stata alloggiata Barsine, che lo stava aspettando. Gli apparve di fronte nella luce della luna e delle lampade schermate d’alabastro, mentre una musica di arpe e di flauti accompagnava sommessamente i suoi passi. La leggerissima cosmesi egiziana dava risalto ai guizzi di viola sul nero dei capelli, che le ricadevano disciolti sul petto. Alessandro ardeva ancora per la luce accecante del deserto e per quella donna che sapeva incantarlo con la magia della sua presenza. — Aléxandre… — aveva avuto appena il tempo di mormorare Barsine, perdendosi nei suoi occhi e nel suo sguardo. Poi, bastò una contrazione improvvisa di quelle membra profumate e una vibrazione nell’aria alle sue spalle lo mise in allerta. Si volse di scatto trovandosi un corpo lanciato contro di lui con un pugnale sollevato. Un urlo si mescolò a quello di Barsine. — Eteocle! — gridò stupito il sovrano, che aveva facilmente disarmato il suo aggressore ormai inchiodato a terra, riconoscendo il figlio quindicenne della donna. Il comandante delle guardie era accorso e stava gridando di torturare e giustiziare il giovane che ancora sputava ogni genere di insulti ad Alessandro, mentre Barsine, sconvolta, implorava per la sua vita. — Vendicherò mio padre, maledetto! — gridava l’attentatore. Ma il re fece segno alle guardie riluttanti di ritirarsi.
Poi si volse nuovamente a Eteocle: — L’onore di tuo padre è salvo e la vita gli fu tolta da una malattia fatale.
— Non è vero! — gridò il ragazzo. — Lo hai fatto avvelenare e ora… ora ti prendi la sua donna. Sei un uomo senza onore!
Alessandro gli si avvicinò e ripeté con voce ferma: — Ammiravo tuo padre, lo consideravo l’unico avversario degno di me e sognavo soltanto di potermi battere un giorno in duello con lui. Mai lo avrei fatto avvelenare: io affronto i miei nemici a viso aperto con la spada e la lancia. Quanto a tua madre, sono io la vittima, io che penso a lei ogni momento. L’amore è la forza di un dio, forza ineluttabile.
Eteocle era fuori di sé, e le parole del re non valsero a placare la sua sete di vendetta. — Finiscimi subito — gridò il ragazzo. — O combatterò al fianco del Gran Re, per dare la morte a chi ha osato toccare mia madre!
— Sia così, se così deve essere — rispose Alessandro, scuro in volto. Ordinò alle guardie di dargli un cavallo e delle provviste. La sposa di Memnone di Rodi era in preda alla disperazione per la rabbiosa impulsività del figlio. Barsine, con lacrime di rassegnazione, estrasse da una cassapanca la spada di Memnone, padre di Eteocle, e la consegnò fra le mani ancora acerbe del figlio, liberando dalle labbra tremanti e contro il suo stesso cuore una parola soltanto: — Addio — gli sussurrò mentre lo guardava balzare sul destriero e scomparire nella notte fuori dal palazzo.
CAPITOLO SECONDO
Alessandro fece costruire due ponti di barche per far passare l’esercito sulla sponda orientale del Nilo. Là si ricongiunse con i soldati e gli ufficiali che aveva lasciato a presidiare il paese e, avendo visto che si erano comportati bene, confermò i loro incarichi, suddividendoli in modo che il potere su quel ricchissimo regno non fosse concentrato nelle mani di una sola persona.
Ma era destino che i giorni in cui l’Egitto l’aveva accolto reduce dal santuario di Amon, incoronandolo faraone e onorandolo come un dio, fossero funestati da tristi eventi. Alessandro aveva sotto gli occhi quasi ogni giorno la disperazione di Barsine, ma una disgrazia ancora più grande incombeva. Parmenione aveva altri due figli oltre a Filota: Nicanore, ufficiale in uno squadrone di eteri, ed Ettore, un ragazzo di diciannove anni che il generale amava teneramente. Eccitato alla vista dell’armata che attraversava il fiume, Ettore aveva voluto salire su un’imbarcazione egiziana di papiro per godersi lo spettacolo dal centro della corrente. A un tratto, però, la barca urtò qualcosa, forse il dorso di un ippopotamo che emergeva in quel momento, e si sbilanciò. Il ragazzo cadde in acqua e scomparve immediatamente.
I rematori egiziani della barca si tuffarono senza attendere un solo istante e lo stesso fecero non pochi giovani macedoni e suo fratello Nicanore, sfidando il pericolo dei gorghi e le fauci dei coccodrilli, piuttosto numerosi in quella zona, ma fu tutto inutile. Parmenione assistette impotente alla tragedia dalla riva orientale del fiume, da dove sorvegliava l’ordinato passaggio dell’esercito.
Quella stessa sera, dopo ore e ore di affannose e vane ricerche a cui aveva preso parte personalmente, Alessandro andò a far visita al vecchio generale impietrito dal dolore.
— Come sta? — chiese a Filota che era ritto fuori dalla tenda come a guardia della solitudine di suo padre. L’amico scosse il capo sconsolatamente.
Parmenione stava seduto in terra, al buio, in silenzio, e solo la sua testa bianca spiccava nell’oscurità.
— È una ben triste visita quella che ti rendo, generale — cominciò con voce incerta.
Parmenione si alzò in piedi quasi automaticamente al suono della voce del suo re e riuscì a dire, con la voce spezzata: — Ti ringrazio di essere venuto, sire.
— Abbiamo fatto di tutto, generale, per ritrovare il corpo del tuo ragazzo. Io avrei dato qualunque cosa pur di…
— Lo so — rispose Parmenione. — Il proverbio dice che in tempo di pace i figli seppelliscono i padri, mentre in tempo di guerra i padri seppelliscono i figli, ma io avevo sempre sperato che questo strazio mi fosse risparmiato. E invece…
Parmenione sembrava invecchiato di dieci anni in un solo momento: gli occhi arrossati, la pelle secca e grinza, i capelli in disordine.
— Se fosse caduto… — disse — se fosse caduto combattendo con la spada in pugno me ne sarei fatta una ragione: siamo soldati. Ma così… così… Affogato in quel fiume fangoso! O dei del cielo, perché? Perché? — Si coprì la faccia con le mani e scoppiò in un pianto lungo e lugubre che spezzava il cuore.
Davanti a quella sofferenza, Alessandro non trovò più parole. Uscì salutando Filota con uno sguardo pieno di sgomento. Anche l’altro fratello, Nicanore, giungeva in quel momento, anche lui sfigurato dal dolore e dalla fatica, ancora fradicio e sporco di fango.
Il giorno successivo, in un’atmosfera greve e torbida, i soldati gridarono dieci volte il nome del giovane Ettore per consegnarlo all’eternità. Fu lo stesso re a celebrarne le esequie.
L’ammiraglio Nearco ebbe l’ordine di far vela verso la Fenicia mentre l’esercito tornava indietro via terra, lungo la strada che passava tra il mare e il deserto. Quando arrivarono vicino a Gaza, giunse un portaordini da Sidone con una brutta notizia. I samaritani avevano bruciato vivo il governatore di Siria, il comandante Andromaco, dopo averlo a lungo torturato.
Alessandro, già contristato dagli ultimi eventi, montò in collera. — Chi sono — chiese — questi samaritani?
— Sono barbari che abitano le montagne fra la Giudea e il monte Carmelo e hanno una città che si chiama Samaria — rispose il portaordini.
— E non sanno chi è Alessandro?
— Forse lo sanno — intervenne Lisimaco — ma non se ne curano.
— Allora è bene che mi conoscano — replicò il re. E diede ordine di riprendere immediatamente la marcia. Procedettero senza sosta fino ad Akre e di là si diressero a oriente, verso l’interno. Arrivarono sul far della sera e in capo a tre giorni tutti i villaggi e la capitale furono dati alle fiamme.
Quando l’incursione ebbe termine, già calavano le ombre della terza notte e il re decise di accamparsi con i suoi uomini sulle montagne e di attendere il giorno seguente prima di riprendere il viaggio verso la riva del mare. Poco prima dell’alba, il re fu svegliato da un ufficiale, un tessalo di Larissa di nome Eurialo: — Sire, vieni a vedere.
Degli uomini stavano avvicinandosi da sud. Sembrava un’ambasceria, anche se non si capiva da parte di chi.
— A sud non c’è che una città — osservò Eumene, che aveva già fatto un primo giro d’ispezione. — Gerusalemme.
— E che città è?
— È la capitale di un piccolo regno senza re: il regno dei giudei. È arroccata su una montagna e circondata da mura a strapiombo.
Alessandro ricevette il piccolo gruppo ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Il romanzo di Alessandro
- Nota dell’autore
- Parte prima. Il figlio del sogno
- Parte seconda. Le sabbie di Amon
- Parte terza. Il confine del mondo
- Epilogo
- I luoghi della spedizione di Alessandro
- Copyright