La nostra fede è spesso come un vecchio castello. Un castello bello, ricco, colorato, solido, in cui ci piaceva stare, quando eravamo piccoli. Diversi fattori, però, lo hanno cambiato: il vento della storia ne ha sbiadito le facciate colorate, i temporali della vita lo hanno segnato con crepe simili a rughe, le innumerevoli cose da fare non ci hanno permesso di curarlo come volevamo, come dovevamo, come potevamo. Di colpo apriamo gli occhi, ci guardiamo intorno o dentro e ci ritroviamo in un castello non più così bello e accogliente, dove non è più così facile abitare: abbiamo nuove esigenze, nuovi modi di vivere. Un castello da restaurare radicalmente, o forse crollato. Serve troppo: un progetto studiato su misura, la fatica del ricomporre pietre vecchie con nuove strutture, la pazienza della lenta ed esigente ricostruzione. Proprio per questo qualcuno rinuncia, perché tutto sommato si trova bene «in affitto» altrove. È il bambino che sogna per sé un castello. L’adulto invece sogna per sé una casa. Forse hai perso un castello ma hai trovato una casa. Se è crollato il castello, sei diventato grande. È arrivato il momento di «trovare casa», anzi di più: di «mettere su casa». Sarà più piccola, più modesta, più semplice, ma vera, calda, tua, in cui vivere e in cui amare, da cui partire e a cui tornare dopo ogni viaggio che la realtà di tutti i giorni chiede. È una scelta coraggiosa di vita matura.
Lo spazio che il Vangelo dedica alla predicazione di Gesù, che nel calendario liturgico corrisponde al «tempo ordinario», evidenzia come al Signore non piace una fede seducente perché attraente, perché persuadente, perché efficiente, perché luccicante, ma egli propone una fede che ha il sapore della vita concreta e dell’amore quotidiano. Nessuno può porsi la domanda: «io credo in un Dio vivo?», senza chiedersi allo stesso tempo: «ma io sono vivo?». Io credo in un Dio vivo che ama la vita se per me la fede è ricerca di una speranza e non stanca abitudine, irrequieto desiderio di un senso e non noioso dovere, slancio e non superstizione, preghiera e non rito. È un amore che mi interroga e non una formula arida da imparare. Io sono vivo se so cercare, se non mi accontento, se non mi lascio spaventare dai dubbi e vado oltre, se ho capito che questa vita ha un «di più» nascosto nelle pieghe della storia del mondo e nelle pieghe delle storie della mia quotidianità.
Tutta la nostra vita è una conversione dal Dio che c’è nella nostra testa al Dio di Gesù Cristo. Un Dio che non volendo essere frainteso si fa uomo, corpo, sguardo. Un Dio che suda e impara, si stanca e ride, fa festa e lutto, lavora e gioisce dell’affetto di una famiglia di duemila anni fa, ma quanto mai moderna: lei, Maria, che si sposa, incinta, con un uomo, Giuseppe, che non è il padre del bambino. Un Dio che si commuove alle lacrime, che gode dell’amicizia, che non ha paura dei giudizi dei benpensanti, che arriva a morire per non tradire un «ti amo», che piange di paura e chiede qualcuno che lo ascolti, che pende nudo da una croce pur di non barattare la sua identità. Un Dio adulto che ci tratta da adulti.
Sant’Agostino scrisse nel De Trinitate: «Il salmista non dice “si rallegri il cuore di coloro che trovano Dio”, ma “di coloro che cercano Dio”. … Sarà forse che anche una volta che lo si è trovato bisogna cercarlo ancora? … Perché lo si cerca per trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggior ardore. … La fede cerca, l’intelligenza trova». La fede quindi non è mai un’imposizione, ma è sempre un appello. Occorre superare un’immagine concettualistica della fede per entrare in una più relazionale-simbolica. Come quando ci si lascia interpellare da un’opera d’arte: lo sforzo è di capirne la verità, la quale non è riposta tanto nell’oggettività dei suoi dati, quanto in un qualcosa che non posso misurare. Posso prendere un quadro e «analizzarlo» minuziosamente, indicando precisamente i centimetri quadrati coperti da ogni singolo colore, il peso, la forma, il materiale, la consistenza, l’epoca, la conservazione. Oppure posso allontanarmi di un passo, lasciando questa visione da microscopio per una più globale, considerando l’opera nel suo insieme così da «descriverla» indicando il soggetto rappresentato, decifrando eventuali simbolismi, l’autore, il periodo storico-culturale in cui è stata realizzata e gli influssi dei quali risente, il messaggio che intende dare. Ho infine la possibilità di compiere un ulteriore passo per cogliere l’insieme come opera d’arte che muove le mie emozioni e mi interpella. È molto più che un soggettivo «mi piace» o «non mi piace», «è bello» o «è brutto». Ciò che determina che un quadro sia un’opera d’arte è il suo riuscire a suggerire qualcosa di «altro» che mi provoca ad andare «oltre».
Il silenzio non è mancanza di parole, ma è presenza di domande di senso. «È ricercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile. Coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che appariva loro come possibile non hanno mai avanzato di un solo passo» (Michail Bakunin). «Dubitate di chi ha solo grandi certezze e riponete fede in chi ha anche dei seri dubbi, in quanto la vera saggezza sta anche nel saper riconoscere la propria ignoranza; ne fu un classico esempio il grande filosofo greco Socrate, alla base della cui sapienza stava la consapevolezza di sapere di non sapere nulla» (Xavier Wheel). Un innamorato tradurrebbe: «Con te non posso preoccuparmi del buio, perché sei luce; non temo il freddo perché sei fuoco; non mi perdo nel dubbio, perché sei verità».
Un mazzo di fiori
In quel tempo, Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (dal Vangelo secondo Matteo, 3,13-17).
Immaginare Gesù che si fa battezzare è una delle fonti di serenità del Vangelo. Noi siamo portati a vedere Gesù come un personaggio singolare, tutto d’un pezzo, che fin dall’inizio della sua missione era pienamente consapevole di ciò che dovesse fare, come se tutto fosse chiaro e facile davanti a lui, come se non gli restasse che attuare il programma stabilito per lui dal Padre. E invece no. Leggendo questo brano ci accorgiamo che Gesù non si muove come un robot programmato dal Padre, ma come un essere umano che va cercando la sua strada. Se si trova al Giordano è perché sente che è venuto il momento di fare chiarezza dentro di sé e di prendere delle decisioni.
Meditare il Battesimo di Gesù significa anche per noi prendere in mano la vita per fare chiarezza dentro di noi. Significa prendere in mano il nostro Battesimo. Ma che fine ha fatto il mio Battesimo? A cosa mi serve? Pensando a questo mi è venuto in mente un ricordo simpatico. Un giorno un’amica ricevette un mazzo di fiori. Non c’era scritto nulla sul biglietto, se non che erano per lei. Visto che in quella data non ricorreva alcun anniversario, stupita, cominciò a chiedersi chi gliel’avesse mandato. Pensò a tutte le persone che le volevano bene, o con cui aveva condiviso qualcosa di bello per cercare un perché a quel dono che l’aveva emozionata. Nulla. Tutto il giorno scrutò volto per volto, intorno e dentro di lei. Nulla. La sera, a casa, squillò il telefono. Era la sua solita amica: «I fiori te li ho mandati io. Ti ho sentito così depressa ieri. Ma volutamente senza biglietto, così che tu passassi tutta la giornata a pensare a quante persone ti vogliono bene».
Dio fa così con noi ogni giorno, per dirci, come a Gesù: «Tu sei il mio figlio amatissimo!». Vivere il Battesimo è accorgersi della delicatezza di Dio. Dio è così: non parla, sussurra. «Non griderà, né alzerà il tono» afferma il profeta Isaia. Ha da dire cose enormi e lo fa sottovoce. Solo sottovoce si parla con il proprio cuore. Solo sottovoce si pronunciano le parole dell’amore. Solo sottovoce si dialoga con Dio nella preghiera. Solo sottovoce si ama. Dio è così: non tocca, accarezza. «Non spezzerà la canna incrinata, non spegnerà il lucignolo fumigante» continua Isaia nella sua profezia. Dio non ha bisogno di scadenze, di grandi eventi, di feste. Dio sempre si fa vicino con mazzi di fiori senza biglietto, perché ha deciso che la sua forza è il rispetto e la tenerezza: «Tu sei mio figlio, l’amato».
Essere battezzati non significa avere un teorico e arido programma da realizzare, ma avere l’amore di una persona che ci stimola al positivo. Non si è nel campo delle modalità, ma in quello dell’essenza, cioè delle impostazioni di fondo. Non è avere delle regole a cui attenersi, ma è prendere in mano ciò che sono stato ieri, per guardare dritto in faccia al domani. È dare un senso all’oggi, interiorizzando il passato per aprirsi al futuro. Dice un proverbio africano: «Il cammino attraverso la foresta non è mai lungo, se si ama la persona che si va a trovare».
Ecco l’agnello di Dio
In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (dal Vangelo secondo Giovanni, 1,29-34).
Spesso si pensa che per presentarsi a Dio occorra prima essere a posto, puliti. Errore! È proprio quando mi sento a terra, dopo essere inciampato ancora una volta nelle mie fragilità, che ho bisogno di incontrare uno che mi sollevi. Il problema di Giovanni Battista è il nostro: «Io non lo conoscevo!». È il guardare senza vedere, perché si sa già come va a finire. Così l’incontro con Cristo diventa sbadiglio o pretesa. Invece lui è diverso, lui è «l’Agnello», colui «che è avanti a me, perché era prima di me». Non è facile comprendere questa definizione, ma proviamoci usando l’immaginazione.
Alla fine dei tempi, miliardi di persone furono portate davanti al trono di Dio per il Giudizio Universale, ma alcuni facinorosi iniziarono una protesta: «Può Dio giudicarci? Ma cosa ne sa lui della sofferenza?» sbottò una giovane donna ebrea, tirandosi su una manica per mostrare tatuato a fuoco sulla pelle il numero di un campo di concentramento nazista. A lei si unì un giovane di colore facendo vedere il collo, ferito dai segni di una fune: «Sono stato linciato per nessun altro crimine se non quello di essere nero!». In un altro schieramento c’era una ragazzina con gli occhi consumati dal pianto per il rimorso di un aborto: «Non è stata colpa mia! Anche io sono stata una vittima!». Una dopo l’altra si alzarono migliaia di persone e ciascuna aveva dei rimproveri da fare a Dio per il male e la sofferenza che aveva permesso. Che ne sapeva Dio di tutto ciò che l’uomo aveva dovuto sopportare in questo mondo? Genitori con in braccio il figlio strappato alla vita, famiglie spezzate dalla violenza incontrollabile della natura, un soldato trucidato, un civile innocente saltato in aria, un artritico deformato, un bimbo cerebroleso, tutti si radunarono per presentare il loro caso. Prima di poter essere in grado di giudicarli, Dio avrebbe dovuto patire tutto quello che essi avevano sopportato. E allora fecero una lista di condizioni: «Fatelo nascere senza una casa ed ebreo. Che venga messo in dubbio persino che sia figlio legittimo. Dategli un compito tanto difficile che anche la sua famiglia pensi che sia impazzito. Fate che venga tradito dai suoi amici più intimi. Fate che debba essere infangato da accuse calunniose, che venga interrogato da una giuria fasulla e che venga condannato da un giudice codardo. Fate che sia torturato. Fategli capire che cosa significa sentirsi terribilmente soli. Fatelo morire, non in un letto, ma fuori dalla città, da pezzente, nudo in mezzo all’indifferenza dei passanti. Poi consegnate a sua madre il cadavere del figlio». Mentre ognuno dettava con rabbia le sue crude pretese, mormorii di approvazione si levavano dalla moltitudine. Quando l’ultimo ebbe finito, ci fu un lungo silenzio, nessuno più osò dire una sola parola, perché improvvisamente tutti si resero conto che Dio aveva già rispettato tutte le condizioni in Gesù.
In questo egli è l’Agnello! Quando l’amore è vero la parola più bella e preziosa, la sola che ti dà vita è: «Idem». Anche io. Anche io con te!
Si comincia con il piede sbagliato
In quel tempo, quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazaret e andò ad abitare a Cafarnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zabulon e di Neftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: «Terra di Zabulon e terra di Neftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono. Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo (dal Vangelo secondo Matteo, 4,12-23).
Decisivo per la fede è quando riesci a dire a te stesso: «Non ho più niente a cui aggrapparmi!». Potremmo immaginare che sia quel che dice un uccellino impaurito, quando la madre lo spinge fuori dal nido per il primo volo. Finché è dentro al nido, ha sicurezza e equilibrio, ma in realtà sta solo sbattendo le ali. Non si può volare se si è attaccati al nido delle sicurezze: quello non è volare, è solo sbattere le ali.
Forse hanno pensato così questi giovani pescatori quando hanno deciso di lasciare le reti, le barche, il padre e di seguire quel personaggio strano e affascinante, trascinati dall’entusiasmo, dall’illusione, dall’incoscienza e dallo sguardo di quest’uomo che batteva la resistenza delle reti della logica, del porto delle sicurezze e spingeva a prendere il largo in un nuovo mare sconosciuto e sconfinato, spalancando un nuovo misterioso orizzonte. Inizia così, racconta il Vangelo, l’attività di Gesù. È il suo «primo volo», che ha tre coordinate ben precise: un tempo, un luogo, delle persone. Se ci pensiamo bene, Gesù comincia nel momento sbagliato, dopo che Giovanni fu arrestato; nel posto sbagliato, nella Galilea; con le persone sbagliate, dei pescatori. Gesù comincia nel momento sbagliato. È il tempo della paura, l’uccisione di Giovanni parla chiaro: «È pericoloso esporsi e andare contro corrente». Gesù comincia nel luogo sbagliato. La Galilea è una zona periferica, malfamata, disprezzata, considerata «regione a rischio» perché piena di immigrati. Gesù non parte da Gerusalemme, il centro religioso e politico con tutte le garanzie dell’ufficialità e della sicurezza. Gesù comincia con le persone sbagliate, dei pescatori. Non passa nelle università o nei salotti che sfornano esperti, non va nelle scuole del tempio dove brillano i colletti bianchi dei pii sapienti, ma va da persone semplici, anche se un po’ grezze, da gente vera e verace, indaffarata sulla riva del mare del quotidiano a meritarsi, con fatica e sudore, il necessario per donare una vita dignitosa alla propria famiglia (è significativo che il Vangelo insista nel dire che sono fratelli e che lasciano il padre, insieme alle barche).
Se aspettiamo che arrivi nella nostra vita il momento giusto, la condizione giusta, la persona giusta non partiremo mai, non sceglieremo mai nulla. Gesù non passa dove brilla già la luce, ma dove c’è confusione, ombra, dubbio, paura, incertezza. La luce non serve se c’è il sole: è al buio che serve la luce. Gesù non consegna a questi uomini una dottrina, una lezione da imparare a memoria per diventare bravi venditori porta a porta, ma offre se stesso come amico da seguire. Non consegna un programma a cui attenersi, ma apre un cammino da fare, lento e progressivo. La fatica, il fallimento e la fragilità non sono guai o incidenti di percorso, ma sono proprio l’inizio e la base del cammino.
Ora sta a noi fare come quei pescatori: decidere di partire. Lasciare le reti che ci trattengono, lasciare le barche che comunque ci fanno stare a galla, lasciare il nido delle nostre sicurezze, perché solo così si può volare, altrimenti continueremo semplicemente a sbattere le ali. Chi vola vale, chi non vola è un vile.
Ma come si fa a dire: «beati noi»?
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (dal Vangelo secondo Matteo, 5,1-12).
L’esperienza concreta della quotidianità sembra contraddire spesso questa visione «rosea» della pagina delle beatitudini. Tutti sentiamo e sperimentiamo che il nostro «dover essere», o il «come vorrei essere», contrasta con ciò che siamo e con ciò che facciamo. La «beatitudine» di cui parla il Vangelo non è un fiore esotico da andare a cercare chissà dove, ma è un prodotto da fabbricare in proprio. La beatitudine non si trova protestando energicamente contro le tante ingiustizie che esplodono nel mondo, ma dentro un impegno personale concreto e schietto che inizia dalla propria casa e dalla propria vita quotidiana. In questo Gesù ci è maestro come Crocifisso Risorto. In quanto «Crocifisso» compie in sé la prima parte di ogni beatitudine: è povero, afflitto, affamato, perseguitato. In quanto «Risorto» compie in sé la seconda parte: è consolato, trova misericordia, vede Dio, è riconosciuto e chiamato Figlio di Dio.
Tempo fa, durante un’intervista in un programma televisivo andato in onda negli Stati Uniti, è stato chiesto a una ragazza rimasta orfana a causa dello tsunami del 2004: «Come ha potuto Dio permettere una sciagura del genere?». La risposta della ragazza è stata: «Io credo che Dio sia profondamente rattristato da questa tragedia, proprio come lo siamo noi, e abbia pianto insieme a noi. Per anni noi gli abbiamo chiesto di andarsene dalle nostre vite, dalle nostre scuole, dal nostro governo. Essendo Lui quel gentiluomo che è, io credo che con calma si sia fatto da parte. Come possiamo sperare che Dio intervenga subito se gli diciamo continuamente: lasciaci in pace da soli? Qualcuno ha affermato: è meglio non parlare di Dio nelle scuole e...