Il sangue dei fratelli
eBook - ePub

Il sangue dei fratelli

Italici contro Romani, aristocratici contro populares

  1. 420 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il sangue dei fratelli

Italici contro Romani, aristocratici contro populares

Informazioni su questo libro

Fausto e Marco si somigliano come due gocce d'acqua e vivono nella stessa casa, ma non sono fratelli. Fausto è uno schiavo, nato da una schiava e - si sussurra - dal padrone, Marco invece è figlio di quest'ultimo e della moglie legittima, ed è l'erede dei nobili Livi Drusi. Il destino dei due giovani sembra già segnato, marchiato nelle loro carni sin dalla nascita, ma la guerra sociale e in seguito la guerra fra Mario e Silla irrompono sovvertendo l'ordine e le leggi degli avi, sparigliando i principi che da secoli regolano i rapporti fra uomini liberi e schiavi, aristocratici e populares, Romani e Italici.
Durante gli scontri, Tito Livio Druso, il vecchio padre, trova la morte, mentre Marco, accompagnato dal suo schiavo di fiducia, viene inviato a Rodi perché possa sfuggire ai torbidi e formarsi come futuro dominus della prestigiosa famiglia e politico di rilievo. Incurante dei suoi doveri, però, il giovane e viziato rampollo si dà al gioco e agli stravizi, cacciandosi più volte nei guai e riuscendo a salvarsi soltanto grazie all'opera del fedele e coraggioso Fausto.
Ma quando, durante un rocambolesco viaggio per mare, Marco mette a repentaglio la vita di altri schiavi, oltre che la sua, Fausto in preda alla collera lo uccide e, di fronte ai pirati che chiedono il riscatto del giovane nobile, prende il suo posto approfittando della forte somiglianza.
Tuttavia fingere non è facile, soprattutto per un uomo onesto come Fausto: il timore di essere scoperto dalla famiglia di Marco e dalla sua sposa promessa non lo abbandona... e, come se ciò non bastasse, un'ombra dal passato del padrone si allunga sulla nuova vita dello schiavo, che - innocente - si trova a doversi difendere da accuse gravissime.
Come già nel Ribelle, con la sua scrittura tesa e precisa come la parabola di un dardo Emma Pomilio ci conduce nei luoghi della Roma antica, che sono quelli del Foro con i suoi retori e dei vicoli della Suburra con le sue prostitute bambine, ma sono anche e soprattutto i luoghi della mente e dell'anima, dove lo scontro fra la difesa della tradizione e la lotta per la libertà infiammava i fratelli contro i fratelli, incendiando le città del Mediterraneo in un rogo che ancora non è spento.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804608707

Parte quarta

IL PROCESSO

CAPITOLO VENTISETTESIMO

Con l’ansia di un condannato a morte sentii un bastone battere ritmicamente sul pavimento del corridoio, poi nel vano della porta comparve lei, Porcia. Zoppicava parecchio, ma non per questo aveva perduto la sua aria maestosa. Quella le veniva da dentro. Avanzò lentamente, sorridendomi: gli anni avevano lasciato il segno sul suo corpo, ma non sul volto imperioso sempre bello e liscio. La vidi curvarsi su di me e poi fu un’emozione incredibile provare le sue carezze e i suoi baci. Mai come in quel momento, da quando fingevo di essere Marco, mi ero sentito un ladro e un impostore, ma la gratificazione superava di molto il rimorso e la paura di essere scoperto.
«Caro nipote» mormorò. «Quanto sono stata in pena per te in tutti questi anni. Ma adesso basta. Ora sei qui e sei così diverso, così cresciuto. Un uomo.»
Non riuscivo a parlare, temevo che attraverso la voce si accorgesse dell’inganno, le parole mi si strozzarono in gola.
«Non sforzarti di parlare, sei debole. Lo devo riconoscere: pensavo che la lontananza da noi ti avrebbe danneggiato e anche le notizie che avevo per lettera da Rodi mi preoccupavano. Invece questi anni e le terribili esperienze fatte ti hanno formato meglio di quanto avessi mai sperato. Basta uno sguardo per capirlo. E somigli così tanto a mio figlio che mi pare di rivedere lui.»
Mi tranquillizzai e dissi qualche parola stentata.
Si vedeva che avrebbe voluto continuare a starmi vicina e non era sazia di accarezzarmi il volto e le mani, ma lasciò il posto a Lelia Prima. La mia fidanzata aveva sedici anni ormai, era pronta per le nozze.
Anche lei si curvò su di me. Composta, educatissima. Indossava una tunica di cotone di pregio, ma poco appariscente, e gioielli semplici; aveva i capelli acconciati in uno stretto nodo sulla nuca, dal quale non sfuggiva un ricciolo. Era molto carina anche senza trucco, neppure un filo di nero con cui le donne accentuano la profondità dello sguardo, ma lei non ne aveva bisogno, i suoi occhi scuri erano grandi e profondi, gli occhi belli di Lelio, e come quando lei aveva otto anni notavano tutto.
Una volta Porcia aveva scritto a Marco che, quando le era stata affidata, Lelia era interessata solo ad atteggiarsi a fidanzata per darsi importanza con le altre ragazzine, poi, crescendo, mentre Marco soggiornava a Rodi, aveva compreso la sua fortuna e, con impegno e intelligenza, aveva imparato tutto quanto le serviva per entrare in una famiglia illustre.
Lelia era la moglie perfetta che Porcia aveva promesso a Marco, eppure io scorgevo qualcosa di indomabile nei suoi occhi, e un fondo di ironia. Era furba e lungimirante, e pronta a cogliere ogni occasione come il padre: quale migliore occasione a Roma per la figlia di un homo novus, che essere la pupilla di Porcia?
Ero certo di non sbagliarmi, Lelia era consapevole di sé, non era molle creta nelle mani di Porcia. In perfetto accordo con il padre, come lui si era servito di una ricca amante per la sua scalata finanziaria, Lelia aveva utilizzato una nobile matrona molto rispettata, venerata quasi, per la sua scalata sociale.
Essere stato schiavo e aver conosciuto le cose meno nobili degli individui, quelle cose che nascondono ai loro pari, mi portava a comprendere molto di quelle persone, certo più di quanto fosse possibile ai loro pari. Io ricordavo il suo scorno e le sue minacce quando Marco la offendeva, tanto piccola, perché Lelia li lasciava vedere a me, lo schiavo di cui non contavano i pareri, non al fidanzato. La stessa cosa che mi succedeva con Lelia mi era successa con gli amici di Marco che avevo incontrato: qualche anno prima avevo conosciuto le persone come Fausto e ora le conoscevo come Marco. Le prospettive erano assai diverse e io di loro potevo capire molto. Con queste considerazioni ripresi il controllo di me stesso e mi avventurai nella prova più ardua.
Lelia rivolse uno sguardo, di cui non compresi il significato, a Porcia, che annuì. Si intendevano perfettamente. Si vedeva che per compiacere Porcia Lelia avrebbe fatto qualunque cosa, e io riguardo alla sua venerazione per Porcia la capivo benissimo.
Aveva avuto il permesso di baciarmi sulle labbra. Porcia non voleva darlo a vedere, ma osservava un po’ in ansia la mia reazione. Per lei ero il nipote che era sempre stato terrorizzato all’idea di accollarsi tutta una vita in comune e i doveri coniugali con una persona antipatica, fastidiosa e invadente. Io non diedi cenno di essere infastidito. Porcia, soddisfatta, decise di lasciarci un po’ soli e uscì dalla stanza.
«Sei contento di vedermi?» mi chiese Lelia.
«Sì, molto, e non mi pare vero di essere vivo e di stare qui con la famiglia.»
«Allora non ti perderai nella Suburra per evitarmi?»
Certi particolari non le erano sfuggiti né li aveva dimenticati, e anche lei era un po’ timorosa, come Porcia. Era molto più intelligente di quello che avevo creduto allora, era la figlia di Lelio.
«Ah, no. Stavolta no» dissi. «Non ti eviterò più. Siamo cresciuti.»
«È vero, ormai siamo consci dei nostri doveri» disse lei.
«Certo, siamo consci» ripetei, senza poter evitare un lampo d’ironia. «E comunque non mi perderei, sono cresciuto da allora.» Ormai mi veniva tutto naturale, non recitavo affatto, mi ero sdoppiato. L’alter ego aveva preso il sopravvento, ma sapeva come agire, l’alter ego sapeva come Marco avrebbe dovuto comportarsi, se fosse vissuto.
Lei si adattò subito alla situazione. Sorrise. Un sorriso aperto come quello di Lelio: crescendo aveva anche smesso l’aria severa con cui da bambina scimmiottava Porcia.
«Come mi trovi? Mi avresti voluta più bella?»
«No, ti trovo molto bella e spero che tra noi non esistano solo doveri.»
Comunque non sembrava del tutto insensibile al mio fascino. «Oh no, non solo doveri» disse infatti, «sono molto contenta di stare insieme a te.» Mi baciò di nuovo, con un bacio meno casto del precedente.
Fuori dalla stanza si udirono tante voci e quella di Lelio le sovrastava tutte.
«Allora ci è permesso?» strepitò e aprì la porta. Dietro di lui c’erano tutti gli altri: Livilla, Publio, Terenzia, Lelia Seconda. Lelio mise una mano protettiva sulla spalla di mia sorella Livilla ed entrarono per primi. Livilla per baciarmi mi si appoggiò: Lusio si precipitò nella stanza a togliermela di dosso e a smistare il traffico.
«Marco Druso è molto stanco e la ferita gli dà un forte dolore» disse con decisione. «I medici raccomandano il riposo, vi prego di salutarlo rapidamente.»
Livilla era carina e tanto dolce. Scrollandosi di dosso Lusio mi disse: «Marco, quanto somigli a nostro padre!».
Poi fecero a turno per salutarmi e baciarmi, e dirmi quanto somigliavo a Tito Druso.
«Adesso basta» disse Lelio. «Publio, non lo soffocare. Fuori tutti. Dobbiamo parlare io e lui tra uomini.»
Gli altri uscirono e dalla porta che stava per chiudersi Porcia mi lanciò uno sguardo significativo, uno di quelli che lanciava anni prima a Tito Druso. Uno sguardo che voleva dire di darmi da fare senza indugi, perché c’erano in ballo cose grosse.
«Esci» disse Lelio a Lusio, ma Lusio fece finta di niente.
«Vai» dissi io. «Mi sento perfettamente bene e in grado di affrontare qualunque cosa.»
Uscito lo schiavo, Lelio mi rivolse uno sguardo ben diverso, preoccupato, allarmato.
«Non pensavo di vederti qui» gli dissi. «Credevo che fossi già fuggito.»
«Che farà Silla?» mi chiese.
«È intenzionato a vendicarsi in modo terribilmente spietato» dissi io. «E ad assumere il titolo di Ultor. Non era così inferocito qualche tempo fa. È stato il pericolo che ha corso Roma per l’arrivo dell’esercito sannita a fargli pensare che i popolari devono essere spazzati via dalla faccia della terra.»
Lui non commentò l’aspetto politico, in quel momento guardava solo agli aspetti pratici. «Tanti popolari che erano in città sono fuggiti appena dalle mura hanno visto la disfatta» disse. «Io ho atteso. Sono o non sono il suocero di Marco Druso, che in battaglia era vicino a Silla? Marco Druso, che è stato ferito in combattimento e ora si trova in casa mia? E poi Silla si è mostrato sempre molto moderato in precedenza.»
Si aspettava da me una protezione ancora più grande di quella che lui mi aveva dato, una protezione politica, perché io ero Marco Druso. «Sbagli, non sai quanto sbagli» dissi, ed ero convinto di quello che dicevo. «Oggi lui considera i popolari non solo nemici di Silla, ma traditori di Roma. È diverso, cerca di capire. Mi dispiace di essere confinato su un letto: vorrei fare di più per te, anche se non riuscirei mai a sdebitarmi del tutto. Secondo me adesso faresti bene ad allontanarti da Roma. Nasconditi in campagna.»
«Abbandonare tutto proprio adesso che c’è da far soldi? Chissà che progetti avrà Silla per abbellire Roma, adesso che ha tolto di mezzo tutti i rivali.» Diceva queste cose come trasognato.
«Ho già provato a parlargli di te: si è mostrato molto infastidito e non mi ha risposto. E questo prima dell’arrivo dei Sanniti. Ti consiglio di metterti in salvo per qualsiasi evenienza. E da qui a qualche tempo si vedrà. Confido che Silla si ammorbidisca nel frattempo. Ha i suoi anni e le cose cambiano. Intanto io intercederò presso di lui per farti tornare senza rischi, gli parlerò di tutto quello che hai fatto per mio padre e di quello che hai fatto per i Drusi dopo la morte di mio padre, ma ci vorranno tempo e abilità diplomatica.»
«Ero intenzionato a nascondermi qui in casa per qualche mese, ma, se tu che sei stato al fianco di Silla la pensi diversamente, non posso che prenderne atto» disse avvilito. «È che non sono pronto a lasciare i miei affetti e tutto quello per cui ho lavorato e rischiato. L’esilio è triste, non è per me.»
Di sicuro avrebbe voluto vedere la figlia sposata a un nobile, cosa per cui aveva davvero lavorato.
«Comunque» continuò, «poiché sono sempre stato dell’idea di diversificare gli investimenti, e i rischi, ho sistemato alcune faccende economiche. Ho venduto proprietà e magazzini, e parte delle navi, e oggi ho grosse somme liquide, in aurei e gioielli, pronte per me per la fuga, ma anche per te, per farti sostenere la famiglia se io non ci fossi più.»
«Non so se sono in grado di prendere il tuo posto alla guida di questa grande famiglia di Leli e Drusi riuniti, ma ci proverò. Ne sono onorato e spero di saperlo fare come te, ma spero anche che si tratti di una cosa temporanea.»
Fu contento di queste parole, mi stava abbracciando, ma si ricordò che ero ferito e si chinò leggermente per baciarmi sulle guance.
«Sbrigati, fuggi» dissi. «Ricordati di Tito Druso, che ha voluto aspettare il figlio per portarlo a Rodi, e non l’ha più visto. Oggi lui sarebbe potuto rientrare a Roma al seguito di Silla, se non avesse indugiato allora.»
«Hai ragione» convenne, ma si attardò ancora. «Ti ho nominato tutore di mia moglie e dei miei figli. Porcia e Lelia Prima sanno dove sono i soldi. Solo loro, perché sono affidabili come uomini, anzi più della maggior parte degli uomini che ho conosciuto, se devo essere giusto. Terenzia, Lelia Seconda e Publio non ne sanno niente, non potrebbero mai sostenere un interrogatorio, ma so che tu sarai giusto e avranno la loro parte.»
«Parli come se non dovessi tornare più.»
«Da accorto uomo d’affari considero tutte le possibilità. Avrei voluto stare ancora con mio figlio in questo periodo, è così giovane... bisognoso di guida... ma preferisco che stia a Roma e lo affido a te, so che quando tornerò troverò un uomo.»
«Ci proverò. Ma se morissi? Se si infettasse la ferita? Non sarebbe la prima volta, anzi è quasi la regola. Sapessi quante ferite infettate ho visto in due campagne di guerra. Ci hai pensato?»
«Certo. Sarebbe la fine per tutti noi. Ma il mio medico, che non è un comune ciarlatano, è convinto che ce la farai. Ha detto che l’uomo che ti ha soccorso ha fatto un buon lavoro: ha lavato bene la ferita prima di fasciarti per fermare il sangue. Questo ti salverà. Quando quell’uomo si farà vivo per avere la giusta ricompensa, sii generoso, se lo merita.»
Mi accarezzò leggermente il braccio sano, mormorò un addio e uscì.
Dalla porta aperta scorsi tante facce preoccupate: la gioia per il mio ritorno era già funestata dalla paura per la sorte di Lelio. Appena uscì dalla stanza, Terenzia gli andò incontro a chiedergli cosa gli avevo detto. Lelio mentì, dicendo che io ero in grado di proteggerlo, intanto lui andava al Foro a informarsi sulle ultime novità, ma la moglie non gli credette e cominciò a singhiozzare. Rimasero tutti davanti alla mia porta. Non lo dissero, ma sono certo che stessero ricordando il giorno in cui fu appesa ai Rostri la testa di Tito Druso. Si aspettavano di vedere appesa anche la testa mozzata del senatore Lelio.
Lusio si infilò lesto nella camera e chiuse.
«Annuncia che il dolore si è calmato e voglio dormire» gli dissi. «La situazione è più difficile di quanto avessimo immaginato, c’è di mezzo anche la vendetta di Silla, e io ho bisogno di riacquistare le forze. Ma se dovesse farsi vivo l’uomo che mi ha salvato, svegliami, voglio guardarlo in faccia.»
Lusio si affrettò a eseguire l’ordine e io finsi di dormire un po’, ma, per quanto stanco e provato, anche se la ferita me lo avesse permesso, non avrei dormito. In effetti volevo riflettere.
Avevo superato la prova più ardua. Porcia e mia madre non avevano dubbi sulla mia identità. Come mi diceva Lusio avevo più un’aria da Marco Druso io che il vero Marco Druso, avevo più sangue di Porcia io nelle vene che lui. Mi mancava l’eredità della madre di Marco, donna del tutto insignificante, che io ricordavo poco e di cui nessuno parlava mai.
In quel momento mi sentii Marco Druso a tutti gli effetti e decisi di lottare per quell’identità che mi ero conquistato con un assassinio. Certo ero, e sono convinto tuttora, che prima o poi la violenza commessa ci perseguita. Ma avrei pagato al momento opportuno, quando e se qualcuno fosse venuto a esigerlo; intanto ero Marco Druso, rispettato, temuto, vezzeggiato, ma non ero animato dalle cattive intenzioni di Marco, che avrebbero portato alla rovina Lelia Prima e i suoi. Questo mi scaricava la coscienza e in quel momento non mi spaventava nemmeno la tortura.
Aprii gli occhi, Lusio era là e osservava le mutevoli espressioni del mio volto, ma non commentò.
«Domani mattina chiederò a Porcia di liberarti per i servigi che hai reso e farò liberare anche la tua famiglia, mia madre, che sarà tua moglie, e anche il mio fratellino.»
In questo modo mia madre sarebbe stata una donna libera, suo figlio anche, e io avrei fatto comunque qualcosa per lei, per darle una vita dignitosa e una famiglia, che in qual...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il sangue dei fratelli
  3. Personaggi principali
  4. Prologo
  5. La giustificazione
  6. La vendetta
  7. L’inganno
  8. Il processo
  9. Epilogo
  10. Nota
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright