Il richiamo della foresta (Mondadori)
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Il richiamo della foresta (Mondadori)

Jack London, Fedora Dei

  1. 144 pagine
  2. Italian
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Il richiamo della foresta (Mondadori)

Jack London, Fedora Dei

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Un grande classico riccamente illustrato a colori. Buck è il re della tenuta dei Miller, una grande casa baciata dal sole in cui è cresciuto amato, coccolato, quasi viziato. Ma il suo mantello lungo e folto può resistere al gelo e i suoi muscoli forti a grandi fatiche: è proprio il genere di cane che serve a un cercatore d'oro. Così Buck sarà rapito e trascinato nel Klondike, costretto a imparare il duro lavoro della muta da slitta e la spietata legge del più forte. Anche sulle piste gelate del Grande Nord Buck ritroverà il senso della lealtà, della fedeltà e dell'amore disinteressato tra l'uomo e l'animale. Ma il richiamo della natura che lo circonda, aspra e desolata, eppure così fiera, libera e selvaggia, si farà sentire risvegliando il suo istinto primordiale. Un romanzo potente e affascinante, che il poeta Carl Sandburg ha definito "la più grande storia di cani mai scritta, e allo stesso tempo lo studio di uno dei moventi più curiosi e profondi che giochino a rimpiattino dentro l'anima umana".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
ISBN
9788852022005

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Buck non leggeva i giornali, altrimenti avrebbe saputo che c’erano guai in vista. E non solo per lui, ma per tutti i cani viventi nel tratto di costa tra lo stretto di Puget e San Diego che avessero muscoli forti, grossa taglia e pelo lungo e caldo. Questo perché alcuni uomini, cercando qua e là nelle buie regioni artiche, avevano trovato un metallo giallo; e siccome le compagnie di navigazione e di trasporti terrestri avevano dato grande pubblicità al ritrovamento, migliaia di altri uomini si stavano precipitando verso il Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani: e li volevano pesanti, con muscoli forti adatti alla fatica e con una folta pelliccia per proteggersi dal gelo.
Buck viveva in una grande casa, nella valle di Santa Clara sempre baciata dal sole. La Villa del giudice Miller, così era chiamata la casa, sorgeva un po’ lontana dalla strada, seminascosta in mezzo agli alberi tra i quali si scorgeva solo la grande e ombrosa veranda che correva sui quattro lati. Vi si accedeva lungo viali ghiaiati che si snodavano attraverso ampi prati, sotto i rami intrecciati degli alti pioppi. Sul retro, tutto era di dimensioni ancora più vaste: c’erano le grandi scuderie, dove lavoravano una dozzina di uomini fra stallieri e garzoni di stalla; c’erano, disposte in file e ricoperte di rampicanti, le casette della servitù; c’era la sterminata e ordinata distesa delle tettoie, e poi lunghi filari di viti, e frutteti e verdi pascoli e macchie di cespugli di bacche selvatiche. C’erano, inoltre, l’impianto di pompaggio per il pozzo artesiano e la grande vasca in cemento dove i figli del giudice facevano il bagno tutte le mattine e, per rinfrescarsi, anche nei pomeriggi afosi.
E su questa grande proprietà Buck dominava. Qui era nato e qui aveva vissuto i primi quattro anni della sua vita. C’erano degli altri cani, è vero. Era impensabile che non ce ne fossero, in un posto così vasto, ma non contavano. Andavano e venivano, stavano nei canili affollati oppure vivevano nei recessi della casa: come Toots, il carlino giapponese, o come Ysabel, una femmina di cane nudo messicano, strane creature che ben di rado mettevano una zampa a terra o il naso fuori casa. Anche perché c’erano una ventina di fox-terrier che ringhiavano in modo minaccioso verso di loro quando li guardavano dalle finestre, protetti da una legione di domestiche armate di scope e spazzoloni.
Buck non era cane né da salotto né da canile. L’intero reame era suo. Si tuffava nella grande vasca con i figli del giudice o andava a caccia con loro; scortava le figlie del giudice, Mollie e Alice, durante le lunghe passeggiate la mattina presto o al tramonto; nelle sere d’inverno stava in biblioteca, sdraiato ai piedi del giudice, davanti al fuoco crepitante; portava a cavalluccio i nipotini del giudice e ruzzolava con loro sull’erba o ne sorvegliava i passi nelle avventurose spedizioni fino alla fontana nel cortile delle scuderie, o anche oltre, dove c’erano i pascoli recintati o i cespugli di bacche selvatiche. Incedeva maestoso fra i terrier, ignorava completamente sia Toots che Ysabel, perché lui era re… Re di tutto ciò che camminava, volava o strisciava nella tenuta del giudice Miller, esseri umani compresi.
Suo padre, Elmo, un enorme San Bernardo, era stato compagno inseparabile del giudice Miller: Buck stava chiaramente seguendo le orme paterne. Pesava circa sessantacinque chili, ma non era grosso come il padre, perché sua madre, Shep, era una femmina di pastore scozzese. Ma quei sessantacinque chili, cui si aggiungeva la dignità che viene dal vivere bene e dal rispetto universale, lo mettevano in grado di comportarsi veramente da re. Da quasi quattro anni, cioè da quando aveva smesso di essere un cucciolo, Buck conduceva la vita dell’aristocratico soddisfatto; aveva una buona dose d’orgoglio ed era forse un tantino egoista, come talvolta sono i signori di campagna, a causa del loro isolamento. Ma si era salvato dal rischio di diventare un semplice cane casalingo, grasso e viziato. La caccia e simili delizie della vita all’aria aperta lo avevano mantenuto snello e gli avevano irrobustito i muscoli. Per lui, come per tutte le razze canine che non temono l’acqua fredda, l’acqua era stata un buon tonico che l’aveva conservato in salute.
Questo era dunque lo stile di vita di Buck nell’autunno del 1897, quando la scoperta dell’oro nel Klondike attirò uomini da tutto il mondo verso il gelido Nord. Buck, che non leggeva i giornali, neppure sapeva che Manuel, uno degli aiuto giardinieri, fosse un tipo poco raccomandabile. Manuel aveva un vizio inveterato: gli piaceva giocare al lotto cinese. E nel gioco aveva un’altra debolezza, anche quella inveterata: la fede in un sistema per vincere. La sua rovina era così assicurata, dato che per giocare secondo un sistema ci vuole denaro e il salario di un aiuto giardiniere basta tutt’al più a mantenere una moglie e una numerosa prole.
La fatidica sera del tradimento di Manuel il giudice era a un convegno dell’Associazione Viticoltori e i ragazzi erano impegnati a organizzare un circolo sportivo. Nessuno vide Manuel e Buck mentre attraversavano il frutteto per quella che Buck immaginava fosse una semplice passeggiatina. E con l’eccezione di un uomo tutto solo, nessuno li vide arrivare alla piccola stazione ferroviaria, quella di College Park… Quest’uomo parlò con Manuel e gli contò denaro sonante.
— Potreste anche impacchettare la merce, prima di consegnarla — disse lo sconosciuto, con voce rauca, e Manuel passò due volte un pezzo di corda robusta attorno al collo di Buck, sotto il collare.
— Torcetela, e lo soffocherete come vorrete — disse Manuel, e l’altro grugnì prontamente il suo consenso.
Buck aveva accettato con calma e dignità quella corda. Era una faccenda insolita, certo, ma lui aveva imparato a fidarsi degli uomini che conosceva, a riconoscere che avevano una saggezza superiore alla sua. Ma quando i due capi della corda passarono nelle mani dello straniero, Buck fece sentire un brontolio minaccioso. Era solo un modo di esprimere il proprio scontento e, nel suo orgoglio, pensava che l’avvertimento valesse un ordine. Ma con sua grande sorpresa la corda invece si strinse di più, troncandogli il respiro. Con rapida furia balzò contro l’uomo, ma questi lo bloccò a mezza strada, lo afferrò saldamente alla gola e, con un abile movimento, lo rovesciò sulla schiena. Allora la corda si strinse senza pietà, mentre Buck lottava invano, furibondo, con la lingua penzoloni e il grande petto ansante. In tutta la sua vita non era mai stato trattato in modo così abietto e mai nella sua vita si era arrabbiato tanto. La sua forza venne meno, gli si velarono gli occhi e non capì più nulla quando il treno si fermò nella stazioncina e i due uomini lo caricarono sul bagagliaio.
Appena riprese i sensi, si rese conto vagamente che gli doleva la lingua e di essere sballottato di qua e di là, in un qualche mezzo di trasporto. Il fischio acuto di una locomotiva a un passaggio a livello gli fece capire dove si trovava. Troppe volte aveva viaggiato con il giudice, per non riconoscere le sensazioni del viaggiare in treno. Aprì gli occhi e in essi si scatenò il furore incontrollato di un sovrano rapito. L’uomo fece per acchiapparlo alla gola, ma Buck fu troppo svelto per lui. Serrò le mascelle su quella mano e non le dischiuse finché non perdette di nuovo i sensi.
— Eh, sì, ha degli attacchi! — disse l’uomo, e nascose la mano ferita perché non la vedesse il guardiano del bagagliaio, accorso al rumore della lotta. — Lo porto a San Francisco per conto del mio padrone. Là c’è un veterinario in gamba, che dice di poterlo guarire.
Riguardo al viaggio di quella notte, l’uomo fu più che mai eloquente in una piccola baracca sul retro di una taverna nel porto di San Francisco.
— In tutto ci faccio cinquanta dollari — brontolò. — Ma questo lavoro non lo rifarei neanche per mille, pagati uno sull’altro.
Intorno alla mano aveva un fazzoletto tutto macchiato di sangue; il calzone destro era strappato dal ginocchio in giù.
— E l’altro compare quanto ha preso? — gli chiese il padrone della taverna.
— Cento — fu la risposta. — Non un soldo di meno. Tutti o niente da fare.
— Che fa centocinquanta — calcolò il taverniere. — E li vale tutti, o io sono l’ultimo dei fessi!
Il ladro si tolse la fasciatura e si guardò preoccupato la mano straziata.
— Se non mi prendo l’idrofobia…
— Se non te la prendi vuol dire che sei destinato a finire sulla forca — lo interruppe il taverniere, ridendo. — Dammi una mano a preparare il carico, prima di farti un bicchiere — aggiunse.
Intontito, preso da un dolore insopportabile alla lingua e alla gola, Buck si provò a tenere testa ai suoi aguzzini, pur mezzo morto com’era. Ma lo buttarono a terra più volte e lo immobilizzarono, riuscendo così a limare il suo grosso collare d’ottone. Poi gli tolsero anche la corda e lo ficcarono in una specie di gabbia.
Là rimase per il resto di quella interminabile notte, covando il suo furore e il suo orgoglio ferito. Non riusciva a capire quanto succedeva. Cosa volevano da lui quegli strani uomini? Perché lo tenevano rinchiuso in quella angusta gabbia? Non capiva nulla, ma si sentiva vagamente allarmato come per l’avvicinarsi di una grande sventura. Più volte, durante quella notte, scattò in piedi sentendo aprirsi la porta della baracca. Si aspettava di veder comparire il giudice Miller o almeno i suoi figli. Ma era sempre il padrone della taverna, con il suo faccione gonfio e con una misera candela di sego in mano, che veniva a spiarlo. E ogni volta il grido di gioia che gli trepidava in gola si mutava in un ringhio selvaggio.
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Alla fine il taverniere lo lasciò in pace. Al mattino arrivarono quattro uomini a portare via la gabbia. A Buck sembrarono più pericolosi, perché avevano strane facce patibolari, erano sudici e vestiti di stracci. Buck si scatenò contro di loro, infuriando tra le sbarre, ma quelli si limitarono a ridere e a stuzzicarlo con dei bastoni, che Buck afferrò subito tra i denti fino a quando non si accorse che proprio questo volevano. Allora si acquattò tristemente sul fondo della gabbia e lasciò che la issassero sopra un carro. Poi la gabbia, con il suo prigioniero, passò per molte altre mani. La presero in consegna gli impiegati della compagnia di spedizioni; venne portata via da un altro carro; un carro merci la trasportò, assieme a una grande quantità di casse e pacchi, fino a una nave traghetto; scaricata da questa, fu trasferita in un grande deposito merci ferroviario e infine posta nel vagone di un treno espresso.
Per due giorni e due notti quel vagone continuò la sua corsa, in coda a un convoglio trainato da una fischiante locomotiva, e per due giorni e due notti Buck non mangiò né bevve. Reagiva con latrati furiosi agli approcci del personale del treno, e gli uomini lo ripagavano prendendosi gioco di lui. Quando si buttava, fremendo e schiumando di rabbia, contro le sbarre, quelli ridevano e abbaiavano a loro volta e ringhiavano come ignobili cani, oppure miagolavano, muovevano le braccia come starnazzando o imitavano il canto del gallo. Erano tutte stupidaggini, Buck se ne rendeva conto, ma proprio per questo l’offesa alla sua dignità era più cocente, la sua ira montava sempre più. Non si curava della fame, ma la mancanza d’acqua gli causava sofferenze atroci e attizzava la sua rabbia fino al delirio. E in quanto a questo, essendo un cane molto sensibile e ora assai teso, il cattivo trattamento gli aveva dato veramente la febbre, alimentata dall’infiammazione alla gola e alla lingua, gonfie e riarse.
Di una cosa sola era contento: non aveva più la corda al collo. Quell’imposizione aveva dato agli uomini un ingiusto vantaggio; ora, senza la corda, l’avrebbe fatta vedere lui, a tutti! Nessuno gliel’avrebbe più messa! Su questo era ben deciso. In quei due giorni e due notti di tormento aveva accumulato una tale riserva di furore che avrebbe ridotto male chiunque gli si fosse avvicinato con aria ostile. Ora aveva gli occhi iniettati di sangue, si era trasformato in un demone inferocito. Neppure il giudice Miller l’avrebbe riconosciuto, così mutato. Gli uomini del treno tirarono un sospiro di sollievo quando giunsero a Seattle e Buck fu scaricato dal treno.
Con molta precauzione, quattro uomini tirarono la gabbia giù dal carro e la portarono in un cortiletto chiuso da alti muri. Arrivò un omaccione, con una maglia rossa a collo alto, e firmò il registro delle consegne che il conducente del carro gli porse. Buck indovinò subito che quello era il suo nuovo aguzzino e si buttò selvaggiamente contro le sbarre. L’uomo fece un sorriso crudele e prese un’accetta e un bastone.
— Non lo tirerete fuori adesso, vero? — chiese allora il conducente.
— Certo! — rispose l’altro, e con l’accetta tirò un colpo di prova contro la gabbia.
I quattro che l’avevano portata fin là si allontanarono all’istante, balzarono a cavalcioni del muro e da quella posizione di sicurezza si prepararono a osservare la scena.
Buck si avventò sul legno che si scheggiava sotto i colpi, vi affondò i denti; a ogni colpo d’accetta, ringhiava e smaniava con grandi balli e torsioni; era tanto ansioso di uscire da quella prigione quanto l’uomo era tranquillo nel liberarlo.
— Ecco fatto, demonio dagli occhi rossi — disse quello quando ebbe fatto un’apertura sufficiente a lasciar passare il corpo di Buck. Nello stesso momento mollò l’accetta e trasferì il bastone alla mano destra.
Buck era veramente un demonio con gli occhi di fuoco, così tutto raccolto per il balzo, col pelo irsuto, la bocca schiumante, un folle scintillio negli occhi iniettati di sangue. Lanciò direttamente contro l’uomo i suoi sessanta e più chili di rabbia aumentati dal furore che si era tenuto dentro per quei due giorni e due notti. A mezz’aria, giusto nel momento in cui le mandibole stavano per chiudersi sull’uomo, ricevette un colpo che frenò il suo balzo e che gli fece sbattere i denti in bocca, come in uno scatto di agonia. Roteò all’indietro, atterrando con la schiena e con il fianco. Mai nella sua vita era stato colpito da un bastone, e non riusciva a capacitarsi. Con un ringhio, che per metà era latrato e per metà rantolo, fu di nuovo all’attacco. E il colpo venne di nuovo e lo ributtò a terra. Stavolta si era reso conto che si trattava del bastone, ma la sua folle rabbia non ammetteva precauzione alcuna. Per una dozzina di volte caricò e per altrettante il bastone ne arrestò l’impeto e lo mandò a terra di schianto.
Dopo un colpo particolarmente violento, fu troppo stordito per ripetere l’attacco; strisciò invece verso i piedi dell’uomo. Poi si rialzò, barcollando: zoppicava, perdeva sangue dalla bocca, dal naso, dalle orecchie e il suo bel mantello era lordo di macchie e spruzzi di sangue e bava sanguinosa. Fu allora che l’uomo si fece avanti e, deliberatamente, gli assestò un tremendo colpo sul naso. Tutto il male che aveva patito fino allora era niente, al confronto di quel violento spasimo. Si scagliò ancora, con un ruggito di ferocia quasi leonina. L’uomo si passò il bastone dalla destra alla sinistra e freddamente afferrò Buck alla mascella inferiore, la torse all’indietro e verso il basso. Buck descrisse in aria un cerchio completo e poi un altro mezzo, sbattendo a terra con la testa e il petto.
Per l’ultima volta si avventò contro l’uomo. E quello gli diede il colpo decisivo che intenzionalmente aveva tenuto in serbo così a lungo. Buck crollò definitivamente, come morto.
— Mica ha l’uguale, lui, a domar cani! Parola mia! — gridò entusiasta uno degli uomini sul muro.
— Preferirei aver da domare un mustang tutti i giorni e due alla domenica! — aggiunse il conducente mentre saliva sul suo carro e avviava i cavalli.
Buck riprese i sensi, ma non le forze. Giaceva là dov’era caduto e osservava l’uomo con la maglia rossa.
— Si chiama Buck — mormorò quello tra sé, leggendo la lettera con cui il taverniere gli annunciava l’arrivo della gabbia e il suo contenuto. — Be’, Buck, ragazzo mio — continuò con voce bonaria — abbiamo avuto una piccola discussione, noi due; ora il meglio che si possa fare è di lasciar perdere. Tu hai capito qual è il tuo posto e io conosco il mio. Fa’ il bravo cane, e andremo a gonfie vele. Fa’ la carogna, e te ne darò tante da farti sputare le budella. Capito?
Così dicendo gli accarezzava senza paura la testa, quella testa che aveva picchiato senza misericordia poco prima. Buck sopportò questo senza protestare, anche se il pelo gli si rizzava spontaneamente al solo tocco di quella mano. E quando l’uomo gli portò dell’acqua, bevve avidamente. E più tardi accettò da quella mano, boccone per boccone, un buon pasto di carne cruda.
Era stato battuto (lo sapeva), ma non spezzato. Aveva capito, una volta per tutte, che di fronte a un uomo con un bastone non c’era niente da fare. Aveva imparato la lezione e non la dimenticò più, per tutta la vita. Quel bastone fu per lui una rivelazione. Fu il bastone che lo introdusse nel regno in cui vigeva la legge più primitiva; da quel preciso momento, i fatti della vita presero un aspetto più crudo: e lui li affrontò non intimidito, li affrontò con tutta l’astuzia latente nella sua natura, ora ridestata.
Nei giorni seguenti arrivarono altri cani, in gabbia o legati all’estremità di una fune; alcuni venivano docilmente, altri ringhiando di rabbia, come aveva fatto lui. E li vide, a uno a uno, che si piegavano al dominio dell’uomo con la maglia rossa. Ripetutamente, ogni volta che osservava quella scena brutale, la lezione gli entrava in testa: un uomo con un bastone detta legge, è un padrone cui obbedire, ma non bi...

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London, J., & Dei, F. (2012). Il richiamo della foresta (Mondadori) ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3301078 (Original work published 2012)

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London, Jack, and Fedora Dei. (2012) 2012. Il Richiamo Della Foresta (Mondadori). [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3301078.

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London, J. and Dei, F. (2012) Il richiamo della foresta (Mondadori). [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3301078 (Accessed: 15 June 2024).

MLA 7 Citation

London, Jack, and Fedora Dei. Il Richiamo Della Foresta (Mondadori). [edition unavailable]. Mondadori, 2012. Web. 15 June 2024.