Manna e miele, ferro e fuoco
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Manna e miele, ferro e fuoco

  1. 384 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Manna e miele, ferro e fuoco

Informazioni su questo libro

Romilda Gelardi viene alla luce in una notte di tormenta, mentre la neve cade fitta sui boschi delle Madonie. Nel caldo della loro casa, Maricchia e Alfonso si illuminano davanti al miracolo di quella figlia femmina tanto desiderata, bella e polposa come una spiga di grano a giugno. Romilda si rivela subito una bambina speciale, capace di stabilire un dialogo istintivo con cose e persone. Ancora non parla, e già ottiene il rispetto dei fratelli maggiori e quello della natura intorno a sé: è con sgomento che Maricchia, dopo averla lasciata sola pochi istanti, la trova ricoperta da un nugolo di api nere che la proteggono e la cullano con il loro ronzio. Ed è con altrettanto sgomento, misto a fierezza, che suo padre Alfonso si rende conto che, di tutti i figli, forse solo Romilda ha le capacità per ereditare i segreti del suo mestiere.
Sì, perché Alfonso è un mannaluoro: uno dei pochissimi depositari dell¿arte di estrarre dai frassini ¿ muddii in dialetto siciliano ¿ la manna, sostanza dalle miracolose virtù nutritive e curative. La manna è la linfa dei muddii, che si cristallizza in cannoli bianchi dolcissimi e preziosi: ma essa si produce solo in condizioni molto speciali, incidendo la corteccia nel momento incantato in cui gli alberi mormorano nella notte e si offrono docili alle mani sapienti di chi li ferisce.
Romilda cresce così tra gli insegnamenti della madre, che attraverso la cura delle api le insegna la dolcezza e il potere, e quelli del padre, che conosce la natura e sa che dolcezza e potere possono essere distruttivi se non li si controlla. Ma Romilda è destinata a incontrare presto la violenza del ferro e la prepotenza del fuoco: don Francesco, barone di Ventimiglia, la chiede in sposa ancora bambina. Seguire don Francesco significherà lasciare il bosco, conoscere le durezze di una vita più agiata ma profondamente inautentica ¿ in cui anche l¿esperienza della maternità può finire per espropriare una donna di se stessa. E mentre la Sicilia viene investita dal vento che scuote la penisola intera in lotta per l¿unità nazionale, anche per questi due sposi si compie un cammino di sofferenza e di prova: le loro nature opposte si incontrano e si scontrano, si forgiano tra le fiamme della passione e nel gelo di un silenzio sempre più profondo.
Alfonso insegnava che ogni pianta fruttifica con straordinaria generosità quando viene privata del nutrimento: guidata da questa fiducia più forte di tutto, Romilda sopporterà il patimento più duro in attesa dei fiori maturi di una consapevolezza nuova. Quella di una donna, intelligente e dolce, forte e appassionata: manna e miele, ferro e fuoco. Dopo Il conto delle minne, Giuseppina Torregrossa torna ai temi che le sono visceralmente cari: la sua terra e la femminilità. Una Sicilia nobile e feroce, terra di pazzi e sognatori, di aranceti e solfatare, è il palcoscenico sul quale si muovono personaggi memorabili, sul quale grandezza e miseria delle umane passioni prendono vita nel canto di una donna alla ricerca della propria libertà.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804608660

PRIMA PARTE

Fuoco

1

Don Francesco barone di Ventimiglia si alzava presto al mattino. Gli piaceva l’alba a Castelbuono. L’aria profumava di legno bruciato e a seconda del vento arrivava l’odore del mare da Cefalù o del timo da piano Pomo. Indugiava per un po’ alla finestra, la vista dei monti Gemelli gli dava energia e potenza, più di quel caffè nero e bollente che beveva appena sveglio. Gonfiava il torace muscoloso, respirava a pieni polmoni, poi percorreva a grandi passi il loggiato, faceva un piccolo cenno della testa davanti all’ingresso della cappella, una sorta di contenuto inchino o, meglio, un pensiero rispettoso alla reliquia di sant’Anna di cui i Ventimiglia erano custodi da secoli. Nel cortile lo aspettava Cardiddu, il suo cavallo, chiamato così per via dell’andatura lieve e ondivaga che ricordava il volo dei cardellini a primavera. Prima di montarlo gli accarezzava la fronte, ne controllava gli zoccoli, ché di queste cose se ne occupava lui personalmente, e finalmente usciva per un giro nelle sue terre. Amava quelle ore trascorse all’aria aperta. Visitava a turno i suoi numerosi poderi e godeva del contatto con la natura. La vista dei fiori gli riempiva l’anima, il ritmo del galoppo gli serviva per scaricare la tensione accumulata e riordinare i pensieri.
I gesti si ripetevano sempre uguali ogni giorno e alla medesima ora. La ritualità era un tratto fondamentale del suo carattere. Grazie a essa il barone teneva a bada un inspiegabile nucleo di angoscia che lo tormentava fin dall’infanzia. Francesco di Ventimiglia era sempre stato dilaniato dall’avidità, ma invecchiando la sua personalità si era strutturata attorno a un ottuso bisogno di possedere, e il rapporto con l’oggetto posseduto era diventato di natura fisica: il contatto con la sua terra gli procurava un intenso piacere, la vista delle sue greggi gli allargava il cuore dandogli quasi un senso di sazietà e le schiene curve dei suoi contadini gli facevano provare una sorta di ebbrezza.
Si muoveva con decisione tra le case dei contadini e le loro condizioni di vita gli stavano a cuore quanto la salute delle mandrie, ché ogni morto per lui era una perdita secca. Strade, sentieri, trazzere non avevano segreti e in quella conoscenza meticolosa del suo feudo, fosse anche la più lontana delle contrade, c’era tutto il suo bisogno di non lasciare nulla al caso. Solo così poteva essere padrone del suo destino. Nel controllo ossessivo della realtà aveva consumato energia, entusiasmo e giovinezza.
Quella mattina il barone si era svegliato con un presentimento. C’era qualcosa che si agitava nel suo animo, qualcosa di forte che premeva per uscire, e le sue rassicuranti abitudini non bastarono a riconciliarlo con se stesso. La sua testa era affollata da pensieri cupi e fumosi.
L’estate era finita da poco, i colori spenti dell’inverno imminente avevano il sentore della morte. Il suo palazzo di Cefalù l’aspettava. Da alcuni anni Francesco aveva preso l’abitudine di svernare al mare, il clima di Castelbuono mal si addiceva alle sue articolazioni irrigidite dall’età. L’ovvietà di queste considerazioni non bastava a tranquillizzare il suo animo turbato dall’imminente sensazione di pericolo che l’aveva svegliato prima dell’alba. Al diffuso malessere fisico si aggiungevano le preoccupazioni di carattere economico.
Il barone si era tenuto a distanza dal processo di rinnovamento che aveva agitato l’Italia e che continuava a percorrere l’isola. La situazione politica nel 1867 era ancora particolarmente instabile: l’Italia era già unita, ma la Sicilia ribolliva di insofferenza.
Lontano da tutti e da tutto, assittato sulla sua ignoranza, don Francesco non si era fatto mettere in discussione dagli appassionati ideali che avevano travolto molti picciotti siciliani e alcuni aristocratici illuminati. Di questo suo immobilismo la storia gli chiedeva conto, e lui ne pagava le conseguenze con profuse perdite finanziarie.
«Fatevi furbo, barone» lo incitava Fifo Santò, che l’aiutava ad amministrare il patrimonio ereditato alla morte del padre.
«Tutti, dico tutti, anche il più tinto massaro, si fanno i bagni nell’oro.»
Ma al barone quelle raccomandazioni da un orecchio gli entravano e dall’altro gli uscivano.
«E dove lo trovano, dentro al fiume, quest’oro?»
«Macché, barone, dentro ai libri!»
«E allora io morirò povero, perché lo sanno tutti che non sono uomo di littra.»
I suoi possedimenti spaziavano dalla Sicilia occidentale a quella orientale, un feudo senza confini, il sogno di ogni aristocratico siciliano che si rispetti. L’agricoltura richiedeva sempre nuovi investimenti: la costruzione di nuove strade per il trasporto veloce dei raccolti, il frazionamento della terra, l’impiego di macchinari moderni, la razionalizzazione del lavoro. Tutte migliorie che i proprietari si guardavano bene dal fare. E i contadini perciò, per sfuggire alla miseria, abbandonavano le campagne.
«Signor barone, ma almeno l’enfiteusi! Date retta a me, affittatela la terra. La produzione migliorerà, e poi, appena si spargerà la notizia, arriveranno altri contadini, il feudo si ripopolerà. Per ora tra Gangi e Castelbuono oltre mille sarme sono più vuote delle tasche dei vostri miserabili servi. E poi anche gli altri aristocratici lo stanno facendo...»
«Ma se mi danno quattro soldi d’affitto.»
«Sì, però sono obbligati a migliorare il fondo, ci devono costruire la casa... Pure i parrini concedono la terra in enfiteusi.»
«La fregatura c’è. Ci deve essere, anche se non si vede.»
«Signor barone, certo qualche piccolo rischio ci potrebbe essere...»
«Lo vedi che ho ragione!»
«Sì, ma è cosa di poco.»
«E sarebbe?»
«Sarebbe che qualcuno c’ha appizzato lo scecco con tutte le carrube. Per esempio, a Baarìa, il mezzadro del marchese Arriminusa, persona perbene, ma un poco fracco, dopo che ha finito di costruire la casa non ha voluto restituire la terra al padrone che la rivoleva indietro. Siccome aveva fatto pure la strada nuova, scavato il pozzo, tracciato i canali per l’acqua d’irrigazione... diciamo la verità: aveva trasformato una fungaia pietrosa in un giardino fertile, insomma, il marchese si è rivolto al tribunale. Il mezzadro andava dicendo che c’aveva buttato il sangue e la vita: “Me ne andrò solo da morto e lascerò la terra ai miei figli!”. Avrebbe fatto bene a spararci l’Arriminusa, ma ve l’ho già detto che è un poco fracco...»
«E come finìu?»
«Finìu che il tribunale non ne ha voluto sapere delle ragioni del marchese, che quella terra la possedeva da almeno sei generazioni, e ci ha riconosciuto la piena proprietà al mezzadro.»
«Hai visto che i libri non servono? Dovranno passare sul mio cadavere.»
«Ma a voi non può succedere» insisteva il vecchio, «di voi la gente si scanta, mentre gli Arriminusa sono una famiglia fracca, gente senza palle. E poi ci capitò un giudice un poco particolare! Suo padre ce l’aveva con i Borboni e lui... mmm, signor barone, non mi fate parlare!»
«Di questi tempi e con la fortuna che mi ritrovo, mi può capitare pure a me un giudice rivoluzionario! La mia risposta è no.» E non aveva ceduto neanche una pietra.
Quei discorsi gli avevano instillato la preoccupazione che qualcuno a sua insaputa si insediasse in qualche appezzamento, magari quelli fuori dalla sua portata, verso sud o verso Catania. Perciò aveva cominciato a controllare di persona quello che succedeva nel feudo, spingendosi sempre più lontano. Controllava metro per metro lo stato dei recinti, percorreva chilometri su chilometri, fermandosi nei villaggi per mangiare e dormire. Il caciocavallo a Geraci, la ricotta a Piana, il pane a San Giorgio, il miele a Pollina – sulle Madonie non era difficile trovare del buon cibo e poi lui aveva gusti semplici. Completato il suo giro tornava al castello, e allora per qualche giorno riprendeva a comportarsi come un signore. Ma poco dopo la paura di essere derubato lo assaliva di nuovo e allora ripartiva per un nuovo giro di perlustrazione.
Oggi che compiva cinquantadue anni, senza entusiasmo e con il sospetto di aver sprecato parte della propria vita, si preparava a raggiungere Cefalù, dove da qualche anno ormai svernava. Rifuggite le affettate frequentazioni che il suo rango gli imponeva, aveva rifiutato le innumerevoli ragazze che gli si offrivano attirate dal suo patrimonio e dal suo casato. E, proprio come un lupo solitario, si teneva lontano dai sentimenti e soprattutto dall’amore, che pensava potesse renderlo fragile ostaggio nelle mani altrui. Ma ora, superata la soglia dei cinquant’anni, la solitudine era diventata un macigno che pesava su di lui, una lapide di marmo deposta anzitempo.
L’estate era stata particolarmente calda e le sue membra nel mese di agosto si erano come infiacchite, era stato svogliato per così tanto tempo. L’aria autunnale lo aveva rinvigorito. La sua pelle era umida di rugiada come l’erba che Cardiddu calpestava con soddisfazione. Si sentì rinfrancato dalla temperatura dolce di quel principio di ottobre.
Francesco guardò davanti a sé, le nuvole erano così basse attorno a pizzo Sant’Angelo. Voleva comprare al mercato la manna e curare con quella meravigliosa sostanza il residuo di pigrizia che lo scirocco estivo gli aveva lasciato addosso. Sperava anche di soffocare un’indistinta malinconia che da un po’ di tempo stemperava la sua prepotenza, facendolo assomigliare più a un gattino abbandonato che alla tigre cui amava paragonarsi. Forse aveva ragione Basilla, la vecchia fantesca, che lo spingeva a cercarsi una brava ragazza: “Barone, c’è bisogno di sangue fresco nel vostro feudo e voi, con rispetto parlando, siete un cinquantino...”. Non voleva ammettere che la sensazione di stanchezza potesse essere un effetto collaterale dell’età che avanzava. Si scrollò dai suoi pensieri e lanciò Cardiddu al galoppo. I suoi muscoli si tesero insieme a quelli del cavallo, la sua fronte si distese, e lungo la strada il barone abbandonò quel chiodo fisso della solitudine che da tempo lo tormentava come una tosse stizzosa.

2

Il padre naturale di Francesco, prima che il barone Vincenzo Ventimiglia lo adottasse, si chiamava Angelo Serafino, il miglior maniscalco di Cefalù, nel suo campo un vero genio. Conosceva zoccoli e ferri meglio di se stesso. Asini, muli e soprattutto i cavalli arabi, quelli dei nobili madoniti, erano passati tutti per le sue mani. Piccolo di statura, dal corpo compatto, aveva una grandissima forza nelle braccia e nelle dita una straordinaria sensibilità. Il rumore del martello sull’incudine ce l’aveva nella testa, lo inseguiva dentro al letto anche la notte mentre dormiva, e quel tum tum lo rendeva felice.
Aveva un unico cruccio, suo figlio Francesco. Pigro e indolente, il ragazzo non ne voleva sapere di lavorare. E dire che lui aveva cercato di educarlo come meglio poteva, senza lasciare nulla al caso. Sua moglie era morta di parto e Angelo Serafino aveva dovuto arrangiarsi a fare da padre e da madre.
Ogni mattina, prima dell’alba, lo tirava giù dal letto e lo portava a bottega. Data l’ora, la testa del ragazzo ciondolava per il sonno e gli occhi gli dolevano a tenerli aperti. Angelo non aveva cuore di sgridarlo, e cercava con pazienza e dolcezza di farlo appassionare al suo mestiere. Ma Francesco si rintanava nell’angolo più buio della bottega e non reagiva alle sollecitazioni del padre che gli mostrava con orgoglio come pareggiare un’unghia, piegare un ferro.
«Nessuno ha gana di travagghiare» concludeva il fabbro sconsolato e picchiava con rabbia sull’incudine. «Il lavoro l’ha inventato il diavolo, e a chi ci piace di spaccarsi la schiena? Ma siamo costretti. Lo dice anche la Bibbia: “il pane quotidiano con il sudore della fronte”.» Francesco, catturato dai bagliori rosso fuoco che il ferro incandescente sprigionava, inseguiva con lo sguardo le faville che volavano nell’aria buia e si perdeva nelle sue fantasie.
Avrebbe avuto bisogno di una buona lezione, ma poi il fabbro guardava i suoi occhi sognanti e provava una stretta al cuore per quel picciriddo che invece del profumo dei dolci aveva dovuto respirare fin dalla nascita il puzzo irritante del ferro che fonde. Perciò sospirava e sperava nell’aiuto della provvidenza.
«Francesco, prendi il cato dell’acqua che devo freddare i chiodi.» Lui, infastidito, sollevava di malavoglia il secchio pesante con le braccia che gli tremavano e, traballando sulle gambe incerte per lo sforzo, si avvicinava al padre. Il metallo incandescente friggeva a contatto con l’acqua fredda, lo sfrigolio lo ipnotizzava e di nuovo rimaneva ’ntamato come una statua di sale, mentre l’ambiente piccolo e privo di finestre si saturava di un vapore denso e scuro.
Poi da un giorno all’altro Francesco sviluppò una sorta di intolleranza al fumo. Il sentore di bruciato gli chiudeva la gola. Sentiva l’aria diminuire dentro ai polmoni, il suo torace oppresso smetteva di espandersi, la testa si annebbiava, i suoi muscoli si afflosciavano e le immagini tremavano davanti ai suoi occhi. Il padre lo trascinava fuori, e all’aria aperta il ragazzo riprendeva a respirare. Sollevava il petto due o tre volte, faceva il pieno di ossigeno, poi rientrava nella bottega con un senso di nausea e la voglia di vomitare. Il Serafino certe volte provava una pena infinita e lo mischiniava, altre lo rimproverava aspramente, convinto che cercasse scuse per non lavorare. L’atteggiamento contraddittorio del fabbro danneggiò il ragazzo, che sviluppò un tratto insicuro e indeciso.
«Se hai un’idea, o coltivi un sogno segreto, allora sì che sei disposto a sudare sangue, figlio mio. Ma che farai quando io non ci sarò più? Cosa vorresti diventare? In testa qualche cosa devi pur avere...» I momenti di dialogo erano rari, perché il più delle volte Francesco opponeva un ostinato silenzio alle domande del padre. Ma qualche volta si scuoteva dal suo torpore e cominciava a raccontare di alberi, torri e merli, mari sconosciuti, fiori profumati e cavalli di razza, di cui amava l’ondeggiare dei fianchi, lo sventolio della coda, il muso quadrato. E quando ne portavano uno a bottega, lui usciva dallo stato stuporoso in cui viveva abitualmente, si avvicinava alla bestia, fissandola negli occhi poggiava la sua mano sulla fronte piatta e sincronizzava il suo respiro su quello del cavallo, che rimaneva soggiogato.
Il fabbro sentiva che Francesco era diverso dai suoi coetanei, era magnetico, e anche lui, pur capendo che andava raddrizzato, ne subiva il fascino.
«Ognuno è quel che è...» diceva per rincuorarsi, «forse è meglio lasciarlo libero», ma la mattina dopo tornava a svegliarlo prima che sorgesse il sole, lo portava di nuovo a bottega, gli parlava di ferrature, pareggio dell’unghia, martelli, sgorbiette e incastri.
Poi Francesco crebbe, e diventò irrequieto. I suoi tratti somatici cambiavano di giorno in giorno: i lineamenti si indurirono, una lieve peluria cominciò a crescere sulle guance, gli occhi si ingrandirono e diventarono ancora più scuri. Il suo fisico in pochi mesi perse la fragilità dell’infanzia e acquistò potenza. I muscoli si tesero sotto la pelle, i polpacci si disegnarono, le gambe soprattutto s’irrobustirono, dando l’impressione di una forza compressa che prometteva di esplodere di lì a poco. Anche il suo atteggiamento cambiò bruscamente. Smise di sonnecchiare, diventò attento e vigile, dimenticò spiagge, vento, corse in libertà e si riempì la testa di indistinte fantasie, fatte di femmine bianche e profumate, carne morbida e bocche dolci. Il suo corpo era tormentato da desideri capricciosi e si muoveva continuamente nello spazio angusto della bottega con un’andatura goffa.
«Hai la testa piena di canigghia!» gli urlava il padre esasperato. «Ti conviene tenere i piedi per terra e imparare il mio stesso mestiere, perché di un fabbro c’è sempre bisogno. Ti rovinerai la vita se continui così.» A forza di urlare Angelo perse voce e illusioni. I genitori spesso intuiscono le inclinazioni dei propri figli, sanno quello che sono in grado di fare, ma sperano di sbagliarsi, di essere smentiti dagli avvenimenti futuri. Angelo Serafino era consapevole che suo figlio non aveva gana di lavorare, e Francesco dal canto suo non faceva mistero dell’avversione per quel m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Manna e miele, ferro e fuoco
  3. Prima della manna
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. Ringraziamenti
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright