Come sasso nella corrente
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Come sasso nella corrente

  1. 204 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Come sasso nella corrente

Informazioni su questo libro

In una stanza immersa nella penombra una donna, giunta all'autunno della vita, si muove lentamente appoggiandosi a un bastone. Intorno a lei sculture di ogni tipo. La donna le sfiora e insegue il ricordo di un uomo. Un uomo schivo, selvatico, che però ha saputo rendere eterno nel legno il sentimento che li ha uniti. Ogni statua evoca un episodio della vita avventurosa che quell'uomo ha vissuto e amava condividere con lei, le difficoltà di un'infanzia di povertà e abbandoni, in cui la più grande gioia era stare con i fratelli e i nonni attorno al fuoco, la sera, imparando a intagliare il legno, o sentire la vibrante intensità della natura durante una battuta di caccia. Ogni angolo arrotondato delle sculture fa affiorare in maniera dirompente l'orgoglio e la rabbia di quel giovane che, crescendo, aveva voglia di farcela da solo, cancellando le ombre del passato che lo tormentavano. Ma quei profili, quelle figure che ancora profumano di bosco, raccontano anche che l'amore può trovare pieno compimento solamente nella trasfigurazione, nel sogno, perché l'unica via per non rovinare quel sentimento vero e cristallino è allontanarlo dalle mani dell'uomo che, nella sua intrinseca incapacità di essere felice, finirebbe inevitabilmente per sprecarlo. Dai boschi che Mauro Corona ci ha insegnato ad ascoltare e ad amare si leva in questo romanzo una voce nuova, per molti versi inaspettata, a tratti dolente ma non perciò meno energica. Questo libro è il mémoire di un'infanzia negata, segnata da brutalità e miseria, di una vita scandita dai ritmi implacabili della natura, delle sue necessità, delle sue catastrofi, e insieme un canto di struggente dolcezza sulla possibilità di salvare sempre, in mezzo alla fatica di vivere, dignità, umanità e anche profonda tenerezza. Mauro Corona racconta la storia di un uomo coraggioso fino all'ultimo giorno, dell'amore impossibile, delle mani che conoscono il legno e la roccia, del tempo che passa e delle parole che - a volte - sono in grado di fermarlo. Un romanzo di straordinaria intensità che segna, nella produzione di Corona, un vero momento di passaggio. Come la "Cuna dei morti che piangono" narrata nelle ultime pagine, è la fessura stretta in cui il senso di un'esistenza converge ma da cui nascono, come germogli a primavera, nuove mirabili storie da narrare intorno al fuoco.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804611318
eBook ISBN
9788852021794
Mauro Corona

COME SASSO
NELLA CORRENTE

Romanzo
Mondadori

Come sasso nella corrente

Agli infelici, quindi a tutta l’umanità.

È ancora una bella donna anche se appoggia il corpo al bastone, anche se gli anni le cadono sulle spalle col peso di stagioni lontane. Quelle future non le teme, nemmeno le importa conoscerle. Le attende adagio, guardando ciò che resta della vita. Le nevicate sui capelli non domano lo sguardo, che ancora interroga e fugge. È un po’ come tornare a quegli anni. In che modo? Con la memoria. Cammina a ritroso nei ricordi. I ricordi le tengono compagnia come un vecchio cane fedele.
Da tanto tempo lei non sorride. Nemmeno piange, lo ha già fatto a lungo. Ora ascolta. Ascolta il trascorrere delle stagioni e quel bambino che le salta attorno chiamandola “nonna”. Il bambino fa domande. I bambini fanno domande o non sono bambini. Lei non risponde. Muove cenni col capo, assente, nega, indica. Sempre in silenzio. Non ha più voglia di parlare. Le assenze rendono muti quando si è già detto tutto. Alla fine il bambino smette. Allora lo prende in braccio, fissandolo come se le ricordasse qualcuno. Sì, le ricorda qualcuno. Ma non solo il piccolo. Tutto le ricorda qualcuno. Un albero, una roccia, un torrente, una montagna. Tutto le ricorda lui perché lui era quel tutto. Era albero, roccia, torrente, montagna, mani, attrezzi, quaderni, libri, corde, vino, luci, ombre. Rari i sorrisi.
Quando passeggiavano assieme lei era giovane, lui no, per questo non sorrideva. Forse giovane non lo era mai stato, ma gli resisteva l’entusiasmo come un sasso nella corrente. Quello era rimasto intatto dai tempi dell’infanzia, quando la sorte si accaniva a portarglielo via. Nessuno era riuscito a sottrargli l’entusiasmo, nemmeno i colpi laterali della vita. Il suo ragazzo anziano, il suo vecchio ragazzo era rimasto un uomo pieno di entusiasmo. Come il bambino che tiene in braccio, quel nipotino che fa domande e la chiama “nonna”.
La casa è sempre in penombra. La cucina è fasciata di penombra come a non voler disturbare i ricordi, come se troppa luce ferisse i ricordi. O li rendesse vivi, acuminati al punto da ferire a loro volta. I ricordi feriscono sempre, premono, urtano, gemono. Tenerli avvolti d’ombra aiuta a reggerne l’urto.
Era andato a nascondersi, come quando non se ne può più e si corre via finalmente liberi da tutto. Si può fuggire senza rancore quando dolore, tristezza, vecchiaia, debolezza rendono i giorni insostenibili. Chi ha amato veramente, e ha vissuto senza false balle consolatorie, alla fine davvero non ne può più. Lui era uno di questi: aveva vissuto di tutto e tutto intensamente. Poi era andato via, lasciandola sola.
In verità non si vedevano molto. Ma quando capitava era un completarsi. Uno depositava nel cavo dell’altra un po’ d’amore, come una farfalla che si poggia nella conca della mano. L’altra colmava i vuoti del primo, come la fontana rasa il mastello e lo fa tracimare. I loro incontri erano materia liquida: entrava dappertutto, li riempiva, li saziava, s’abbeveravano l’un l’altra, si dissetavano coi musi vicini, come capretti al ruscello.
Erano buone ore quando stavano assieme. Buone per ciò che restava delle loro anime. Le loro anime non erano intere. In passato le avevano divise con qualcuno che era stato allontanato. Chi viene allontanato non se ne va a mani vuote, ruba sempre un po’ d’anima all’altro. Non si esce ad anima integra da una separazione o da spartizioni di beni comuni. Il passato condiviso non si cancella, resta lì col muso duro e il pugno chiuso, a rammentarci che è esistito. Dentro al pugno un po’ d’anima dell’altro. E viceversa.
Siamo figli di papà e mamma ma pure di quello che ci è accaduto. E del luogo dove siamo cresciuti. Terre aspre creano uomini aspri, dicono “ti amo” col contagocce. Se lo dicono è un miracolo. Di solito non lo dicono. L’unica parola dolce che conoscono è “mamma”. La pronunciano fino alla fine, invocano la mamma col piede nella fossa. Lui no. A lui non era rimasta nemmeno quella. “Mamma” non l’aveva mai pronunciata perché non l’aveva avuta. Fu orfano con genitori viventi. Un vivere pieno d’inciampi lo aveva orbato dei genitori. Ma il suo cuore ancora percepiva negli altri l’odore di buono. Se c’era lo fiutava. Il cuore annusa, ha narici fini, come il cane.
Anche lei aveva buon olfatto. Si erano annusati senza mordersi, allontanandosi a braccetto, incuranti di coloro che vivevano nelle terre estreme e tiravano sputi e insulti e avevano il cuore indurito dalla vita. A volte si diventa cattivi per salvamento, stare a galla, sopravvivere, ma non è necessario diventare invidiosi. Meglio feroci che invidiosi. L’invidia, forma subdola e vile di cattiveria, non tollera chi si vuol bene. Loro dovevano nascondersi come caprioli alla macchia. Forse ci si piega all’invidia perché non amati. Le ferite dei non amati, cicatrizzando, danno origine all’invidia. Con la quale bisogna convivere. Sono tanti nel mondo gli invidiosi. Tanti quanti i non amati, poveri diavoli che vanno aiutati, tollerati, perdonati.
È una stanza immersa nella penombra. La donna vive in un liquido amniotico di penombra, discreta, silenziosa, sfuggente come lo fu da giovane. Non ama né chiasso né clamori, tantomeno apparire. È giusta e schiva. Ma quando da ragazza attraversava la città, col passo lungo e il portamento altero, e quegli occhi color nocciola che leggevano l’anima, appariva suo malgrado. E allora sì che la guardavi! Ti veniva voglia di afferrarla per un polso e trascinartela a casa. Anche solo per parlarle, guardarle il viso, farla sedere sulle tue ginocchia. Che begli occhi aveva e che begli anni furono quelli! Tormentati, crudeli, dolci, sereni, lucenti, misteriosi. Anni e occhi intensi, a volte corredati di alti e bassi.
Era la lontananza a renderli nervosi, non accettavano di separarsi, vedersi ogni tanto. I doveri, quelle pastoie che non lasciano scampo e impediscono scelte coraggiose, avrebbero voluto scrollarseli di dosso come il cane si scrolla l’acqua dal pelo. Ma alla fine vinceva il buon senso, il rispetto, l’affetto per gli altri, beni non declinabili: figli, parenti, nipoti... Anche se, dentro i corpi, le loro anime bruciavano in un impulso di fuoco mai provato prima. Quelle anime volevano contatto. Almeno per qualche ora, almeno per un poco.
La stanza nella penombra è cucina, salotto e luogo di riposo. Qua e là, un po’ dappertutto, occhi immobili spiano. Occhi di oggetti, di figure. Guardiani della penombra sono statue di legno, sculture di ogni forma, soggetto e dimensione.
Il bambino chiede il permesso, vuole toccarle, giocare con quei balocchi sconosciuti, giocattoli strani. La donna dice no, guai, quelle statue non si devono toccare, nemmeno sfiorare. Non sono oggetti o giocattoli, sono mani, le sue mani, sono occhi, i suoi occhi, sono anima, la sua anima. Quelle sculture sono lui, e nessuno può toccarle.
Lei conosce la terra di quell’uomo, una terra estrema, martoriata da destini avversi e politici infami. Terra di fughe, delitti, emigrazioni e ritorni. Quando era giovane, aveva sentito dire che alcuni erano tornati dopo molti anni e avevano trovato le loro case distrutte dall’onda creata dagli uomini e dalla forza del tempo.
E allora, senza guardare indietro, questi uomini avevano voltato le spalle alla tragedia, dimenticando passato e memoria, e se ne erano andati per sempre. Ma alcuni erano restati. Senza le persone i luoghi diventano tristi, lo sapevano. Non possono sorridere o cantare, i luoghi abbandonati. Dove per secoli ha pulsato il cuore degli abitanti, servono ancora voci.
Molto prima di conoscerlo, lei aveva letto queste storie su dei libri. Sapeva che lassù mulini e segherie non esistevano più ma il vento era lo stesso. E così pure i torrenti che li facevano muovere assieme al vento. Un giorno era andata a vedere, voleva rendersi conto di quel che era rimasto. Delle antiche storie non c’era più nulla. I luoghi erano scomparsi, spazzati via dalla forza dell’onda e dall’incuria umana. La memoria distrutta. Quella poca sopravvissuta, abbandonata, segregata nelle madie dell’oblio.
Lui le aveva detto che era inutile visitare i luoghi scordati, perduti per sempre. Gli anziani erano scomparsi, lì non c’era più niente da vedere se non le croci dei morti. Lei insisteva, diceva che si poteva ricominciare, non tutto era perduto, bastava qualche idea, darsi da fare. L’uomo dondolava la testa, rispondeva che gli inverni erano lunghi e li reggeva sempre meno. Diceva di camminare ormai verso il tramonto e di farlo senza paura, ma con molta tristezza. E le raccontava un po’ della sua vita.
Sopra l’acqua dei torrenti erano corsi veloci i fiori dell’infanzia. Era stato lo stesso per l’adolescenza. Alla fine, le foglie giacevano secche ai piedi dei faggi secolari. I mesi del gelo si palesavano presto, avanzando antichi e lenti come candidi buoi al giogo. La neve seguitava a cadere tranquilla e seppelliva nel tempo gli anni e la gioventù. Aveva ceduto? Non ancora. Ma sentiva che mancava poco. Sotto la neve dormiva la memoria. La memoria perduta per sempre. Ma non era morta, la memoria resisteva. Congelata sotto un manto di silenzio, era pronta a rifiorire in qualche remota primavera. O in qualche libro.
Un libro non serve a nulla se non salva la memoria, se non la toglie dalle soffitte e le scrolla via la polvere del tempo. “La musica è tra le note” diceva Mozart. Vale per i libri, i comportamenti, tutto. La verità è tra le righe, il messaggio occhieggia tra esse senza rumore, come il passo lento delle meridiane.
Allora si era messo a cercare la memoria, a tirarla per la coda fuori dalle tane. Erano molte le tane dove si nascondeva. A volte, cercando di farla uscire, infilava la mano nel buco, ricevendo un morso. La memoria spesso addenta, ferisce, fa male. Non sempre sta nascosta col muso dentro e la coda fuori. A volte nella tana si gira, presenta il ghigno all’imbocco, pronta coi canini affilati.
C’era dunque una madre, ancor giovane, stanca di bastonate e calci e pugni, che aveva deciso di farla finita. Non da sola, voleva portare con sé i figli. Tre. Il più grande aveva sei anni, il più piccolo sei mesi. In mezzo, uno di cinque. Sarebbe stata una cosa molto semplice: un salto in una pozza d’acqua fonda e amen. Finita.
Forse sarebbe stato meglio. Ma la trovarono. Esplorarono la valle con fanali a carburo verso l’alba, quando la notte cede il posto al chiaro e al canto degli uccelli. La videro in cima alla rupe, i figli stretti al corpo, come pulcini sotto la chioccia. Non aveva avuto la forza necessaria per quel salto. Più che altro per spingere loro. Loro non capivano perché stavano lì, in cima a una roccia, il burrone sotto con le fauci aperte.
Non aveva mai temuto l’acqua, lui, nemmeno quella notte, quando stava appollaiato sulla rupe assieme alla mamma e ai fratelli, in attesa di esser spedito nel buio della pozza. Ricordava il cammino per avvicinarsi al luogo. Nella notte d’estate il torrente sussurrava “fermati”.
La donna non si fermava, aveva deciso di andare fino in fondo. Voleva farla finita. Ogni tanto apparivano le grandi anse pietrose dove l’acqua allargandosi diventava quieta. Di là non si passava, occorreva spostarsi. Era come se il torrente si opponesse al tragico progetto, creasse ostacoli per fermare il passo notturno ai condannati. Ma lei era camoscia, cerva, capriola, traghettava i figli di qua e di là, e con un salto tornava in linea. Lo scopo: montare sulla rupe. E poi la lunga attesa, ore cementate dalla notte, tempo che non passava.
La madre piangeva, il fiato umido della valle veniva a portare brividi e domande. Che facevano lì? I bimbi non lo sapevano. Lo seppe il maggiore, molti anni dopo, dal racconto reticente e pudico di uno dei soccorritori, uno di quelli che avanzavano all’alba, al lume delle lampade a carburo. Fu sempre amico di quest’uomo, perseguitato dalla vita, percosso dal destino. Nel tempo a venire, diventarono compagni di lavoro e d’osteria.
Ricordava quella notte. Tutto quel che aveva fatto in seguito fu imperniato su quella notte. Tutta la sua esistenza fu il prodotto di quella notte. Vino, donne, cacce di frodo, scalate, risse furono azioni figlie di quella notte. E di altre notti e giorni segnati da sottrazioni e assenze.
Le assenze lasciano segni, solchi che nessuna aggiunta può colmare. È una questione di riempimenti, si ama per essere amati, si dona per ricevere. Ma quando si perde, si perde. Sottrazioni, e assenze, non lasciano scampo, segnano la vita, tracciano il sentiero, decidono il destino, indicano il futuro. Tra questi orti vuoti e desolati dovrebbe cadere a ogni stagione la neve dell’oblio e seppellire la memoria per sempre.
Invece non è così. La neve cade abbondante, anche a luglio, e si scioglie, e la memoria, come una talpa bagnata, preme il muso sulle zolle del sonno, spunta da terre umide di lacrime e di tempo trascorso. Alla fine i bilanci tendono a guardare lontano, rendono silenziosi, fanno dubitare persino se sia valsa la pena venire al mondo. È un dolore di solitudini, ricordi chiusi nei cassetti, nascosti nelle soffitte del tempo.
Una visita alla vecchia casa, i muri bianchi calcinati dal sole, graffiati dal vento, fasciati dalle nevi. Le tegole col muschio degli anni, barbe verdi che segnano stagioni, infanzie, gioventù. Dalla grondaia intasata di terra spuntano fiori. Tutto porta a cercare. I passi sembrano colpi di maglio sulle scale di legno segnate dalle vene dure del larice. Le assi scricchiolano, tutta la casa scricchiola, freme: è tornato il vecchio bambino, un bambino diventato vecchio. È tornato per una visita.
Il focolare spento da anni sembra addormentato, la cenere dell’ultimo fuoco indurita. Antiche pentole appese ai ganci occhieggiano dai fondi neri di fuliggine. Mucchi di scarpe senza forma spuntano da sotto la panca che circonda il focolare di pietra rossa. Alcune hanno la suola di legno. Un paio, sempre di legno, fanno pensare a un gigante. Sono enormi, senza lacci, come se il padrone li avesse tolti prima della galera eterna della morte.

Nella penombra, la donna carezza con le dita una scultura. La ricorda bene, ricorda bene tutto, è l’unica forza che ha per restare. Gliela donò lui un giorno d’estate, prima di una camminata sui monti. Era uno che andava sui monti, saliva sulle cime per stare in pace, pensare, straviarsi dai ricordi, dimenticare i canti delle falci. Ogni tanto portava anche lei, anche lei aveva un passato da spingere in alto. Lassù diventavano leggeri, lassù tutto diventava leggero e il suo sorriso cantava. Le cime rendevano la vita più lieve, ma poi toccava scendere e in basso tornava il piombo dei giorni.
La donna con la neve sui capelli carezza una piccola maternità di pino cembro. Sono trascorsi tanti anni, la scultura manda un buon odore di resina, emana ancora il profumo del tempo passato. Si era convinta che la resina rimanesse per lei, aggrappata alla figura di quella madre col bambino, a evocare per sempre il profumo di quei giorni lontani, del giorno in cui la ricevette in dono.
Il nipote salta qua e là per la stanza, lei prende la scultura, lo ferma, gli fa sentire l’odore. Senza lasciare che la tocchi. Il bambino la annusa come un gattino. Lei ricorda la vita di quell’uomo. L’uomo le raccontava la sua, mentre vivevano qualche ora sottratta alle distanze, al tempo per gli altri. Camminavano molto, camminavano per nascondersi, evitare gli sguardi, avere libertà. Camminavano fuggendo, affinché nessuno entrasse a curiosare nella loro casa di spazi liberi, cieli sopra la testa, boschi odorosi di terra umida e autunni. Autunni spesso colmi di tristezza.
Ogni scultura una tappa, un pezzo di legno un pezzo di vita buttato alle spalle, lo sguardo avanti a sperare. Attendere ancora momenti buoni, tempo per stare assieme, ore, giorni, mesi. Perché no? Anche per sempre. Ma per sempre non esiste. Esiste il tempo che vivono le anime. Perdere tempo in attese mentre le anime vivendo muoiono, è il vero dolore della vita. Assieme ad altri dolori, certamente. Così fu per loro. Attese colme di distanze. Distanze piene di attese, incontri. Abbracci che dicevano “non ti mollo più”. Invece non c’è abbraccio al mondo da cui alla fine non ci si debba sciogliere. Tutto trama per sciogliere gli abbracci, ma se è forte vince solo il tempo che passa. Vince. E uno dei due se ne va per sempre, se lo portano via gli anni, la vecchiaia, la malinconia, la morte. Rimane l’altro, il cui unico scopo è attendere il turno. E intanto ricordare.
Lei ricorda. Nell’attesa ricorda i momenti felici, i giorni buoni, le stagioni passate. Gli occhi negli occhi. Quegli occhi che si amavano, quegli sguardi che non si reggevano per timidezza. Erano timidi, vivevano di lato a se stessi. Un po’ si vergognavano, ma erano puliti, onesti, a volte pensavano di avere troppo. Ma quel troppo non bastava, era la loro vita, la loro forza, la loro unione. Finché potevano, l’avrebbero difesa a denti stretti, in silenzio. E fatta durare.
Nelle pause serene raccontava. Aveva cominciato a scolpire da bambino, lo guidava il patriarca, il vecchio maestro alto due metri. Lui seduto fra i trucioli, il gigante in piedi che guardava. Sembrava ancora più imponente. A vederlo dal basso pareva una montagna, la testa era la cima, la barba i boschi, le spalle le pareti. Quel gran vecchio non parlava mai. Forse aveva parlato da giovane, forse aveva parlato troppo. Insegnava a gesti, a mugugni, a spinte di occhi, segni di piede. Era fatto così, era fatto di silenzio.
Il piccolo portava ancora addosso l’odore della madre, come un cucciolo. Anche i fratelli ce l’avevano. Lei se n’era andata. Così se li erano presi i vecchi, i nonni paterni di settantasei anni, e una zia sordomuta, sorella del nonno, di quasi ottanta. Li avevano presi come quando si adotta un capriolo abbandonato dalla madre perché una mano lo ha toccato.
Erano stati invece toccati dal destino, dalla mano pesante di un padre senza scrupoli, violento e rozzo, rissoso e ignorante, buono a nulla e spaccone. La mamma era partita anni prima, senza rumore, senza preavviso, leggera e furtiva come una rondine d’autunno. Lasciò botte e dolori, un paese di silenzi, tre bambini a crescere veloci, a indurire le braccia, piegare la schiena, lavorare. L’odore di lei aleggiava ancora per la casa, i piccoli diventavano tristi, spesso piangevano. Solo più tardi non piansero più. I vecchi li avevano convinti che non serviva. Ed era così, piangere non serviva a nulla.
Venne in aiuto il tempo. Il tempo dei bambini sbiadisce presto i ricordi: volti, figure, fatti se ne vanno veloci. I bambini hanno una forza che li aiuta, una forza mostruosa per resistere al dolore, dimenticarlo, perderlo lungo la strada via via che crescono. Quando saranno grandi, un bel giorno scopriranno di ricordare qualcosa. Qualcosa che li aveva vinti, umiliati, scorticati. Da lì partirà la reazione, la vita sarà impostata su quei cardini, su quei ricordi ruoterà il futuro della loro esistenza. Da adulti si agisce decifrando e leggendo cicatrici. Siamo il prodotto dell’esistenza in fasce, delle mute domande, delle paure, delle ignoranze non controllate. Siamo quello che ci hanno fatto.
I giorni diventavano lunghi, ma i fratelli pian piano dimenticavano l’odore della madre. Nei mesi di neve, quando il gelo cementava il paese nella morsa di ferro, il grande vecchio intagliava oggetti che avrebbe venduto a qualcuno. Il bimbo imparava, aveva mani piccole, l’ascia era una brutta bestia, andava dove voleva, non era facile tenerla in linea. Perciò era bene tutto, purché non andasse sulle dita. Sgorbie, pialle, scalpelli furono il suo pane da piccolo. Gli piaceva vedere il legno trasformarsi, pigliare forma, diventare qualcosa. Era una magia. Un pezzo di acero bianco si piegava, si contorceva, bombava la pancia, si svuotava, diventava mestolo, cucchiaio, ciotola. Perché non farci gli occhi? Il bambino voleva compagnia. Con naso, occhi e bocca, cucchiai e mestoli prendevano vita. Diventavano amici, compagni di viaggio, medicina contro la solitudine, voce che un vecchio alto e silenzioso non aveva. Quel bimbo creava compagni, guardie del corpo, personaggi, montagne di personaggi ammucchiati in un angolo. Sempre con bocche sorridenti. Un taglio girato all’insù, un’incisione a U sulla parte convessa facevano ridere cucchiai e mestoli. Gli occhi due puntini a temperino, il naso un triangolo corto. Bastava poco a far ridere un cucchiaio. Per farlo piangere invertiva la U verso il basso. A volte lo faceva, poi correggeva subito, non sopportava veder piangere i cucchiai, gli ricordavano la tristezza.
Nel focolare ardeva sempre il fuoco. D’estate e d’inverno, in ogni stagione il fuoco teneva i suoi allegri comizi di fiamme, brontolii, scoppi e risate. Il fuoco era l’unico che rideva in quella casa fatta di pietra, legno e anime antiche dove tiravano avanti nell’indigenza i lati opposti della vita: tre bambini e tre vecchi. Gli inverni si gonfiavano di neve, non finivano mai ed era bello non finissero. Ai bambini piaceva il tempo in cui le montagne lucevano bianche e le notti diventavano infinite, ricamate di stelle piccole e puntute, le stelle del sereno dopo le nevicate. Il freddo serrava la gente in casa giorno e notte, e tutti lavoravano un pezzo di legno, anche le donne. Chi non scolpiva faceva gerle, ceste e altri manufatti di vimini. La casa era invasa di attrezzi. Utensili di ogni forma, taglienti come rasoi stavano posati su panche, tavoli, sedie, tovaglie, sempre pronti all’uso. In mezzo a quei mondi operosi era giocoforza,...

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