Il negativo dell'amore
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Il negativo dell'amore

  1. 336 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il negativo dell'amore

Informazioni su questo libro

Cosa ti aspetta se sopravvivi alla notte in cui tua madre ha deciso di buttarsi nel fiume portandoti con sé? Cica ha paura dell'acqua, o meglio, ne ha un terrore mortale, che sia il mare o il filo d'acqua di un rubinetto. "Cica" è il soprannome che le hanno affibbiato gli altri bambini della colonia, a causa dei due segni curvi che porta sulla schiena, come cicatrici di ali strappate. Cresce in una piccola città del Nord Italia, per compagni un cane lupo e i libri prestati da una vicina di casa capace di tenere i segreti.
E cosa ti attende se nasci con un cromosoma in più? Walker un nome ce l'avrebbe, ma la sua passione per il ranger dei telefilm fa sì che tutti lo chiamino in quel modo. Walker è nato in Puglia, primo di tre fratelli, in un giorno di primavera: per il suo compleanno i genitori organizzano ogni anno una grande festa sul prato. È nato coraggioso, corre veloce in sella al cavallo Fulmine o accanto al nonno, sull'Apecar. Walker è nato con la trisomia del cromosoma 21: è un bambino down.
Qualche anno dopo, Cica e Walker sono due adolescenti alla ricerca del proprio posto nel mondo. Non si conoscono, non sanno di avere lo stesso candore, la stessa audacia: due anime leggere e ostinate come steli di gramigna, a dispetto dei pronostici del mondo. Li attende una notte di ottobre, calda come d'estate: un incontro esplosivo e rivelatore, uno di quei rari momenti capaci di illuminare il buio di tutta una vita e di lasciare tra le mani una fiamma per disperderlo, o almeno per poterlo guardare.
La diversità, quella profonda, genera una speciale acutezza di sguardo ma insieme resta, irrevocabilmente, un limite e una ragione di marginalità. Con passo lieve e voce sicura Maria Paola Colombo esplora i territori della diversità ma anche quelli a tutti noti della normalità: la normalità in cui ci sentiamo immersi e che è l'orizzonte delle nostre inquietudini e della nostra felicità.
Questo romanzo è un'opera prima sorprendente per la scrittura intensa, duttile, capace di coagularsi in immagini vivide e per la grazia con cui - sulla soglia tra "abilità" e handicap, smarrimento e sogno, fiaba e realtà - celebra il potere dell'immaginazione, l'ostinazione alla gioia, la possibilità di un luogo dove crescere la propria unicità.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804614661
eBook ISBN
9788852022531

PARTE PRIMA

MURI

Nord
Cica non entra in mare con gli altri. Ha gli occhi socchiusi per il sole perpendicolare che fa bianca una spiaggia di sabbia marroncina e mozziconi. Lei pure sembra uno di quei mozziconi, piantata nella sabbia, accucciata su se stessa come stesse pisciando. Sulla schiena, appena sotto le scapole appuntite, ha due segni curvi, a mezza luna, lunghi un palmo ciascuno. Per questo le hanno affibbiato quel nome, per via di queste due cicatrici: Cica. L’altro suo nome, da quando è arrivata, è 21. Il numero scritto con il pennarello indelebile sulle etichette dei suoi vestiti per quando li lavano mescolati a quelli degli altri.
Non ci sono ombrelloni qui: una struttura di pali di ferro a cui si aggrappa un lungo telone a strisce bianche e verdi. Il mare batte un’onda fiacca, l’ultima schiuma grumosa di mucillagine si ferma a un metro dai suoi piedi. Le hanno detto che la mucillagine che quest’anno riempie l’acqua della riviera è un’alga piccola che arriva da lontano, a causa delle industrie che buttano i veleni nel mare e lo fanno impazzire. È come la schiuma alla bocca di un matto. Le signore dello stabilimento accanto non fanno entrare in acqua i figli. Li tengono sotto gli ombrelloni, a scavare buche nella sabbia e rimpinzarsi di cocco e merendine. Tanto il bagno non si può fare. Ogni tanto uno di loro passa sotto al cordone che delimita la spiaggia della colonia e viene a curiosare di qua, con un cremino in mano che si squaglia, e tutti i bambini che gli vanno intorno e lo guardano dare una leccata lenta al gelato di panna.
I bambini della colonia invece fanno il bagno lo stesso. Prima buttano l’acqua santa, poi fanno il bagno. La Suora li fa pregare in fila nell’acqua bassa. È una suora ma mette il costume da bagno azzurro con i fiori e ha i capelli un po’ lunghi, bianchi e neri come le zebre. Li tiene raccolti con un foulard, ma il vento ogni tanto ne strappa una ciocca. Bianca una volta, nera un’altra. Così Cica ha imparato che le suore hanno i capelli. Pensava non li avessero e per questo facessero le suore: perché sono calve e nessuno le vuole in moglie. Invece Dio che è buono se le prende tutte.
La Suora, oltre ai capelli, ha un’acqua magica dentro le bottiglie di plastica dell’aranciata Sanpellegrino. Giovanni, l’autista del pullman, quando sono partiti da Novara le ha caricate sotto, una cassa dietro l’altra, accanto alle valigie dei bambini.
«Madre, ma che pensate?» ha detto alla Suora, «che a Misano non tengono l’acqua da bere?»
«Giovanni, è acqua di Lourdes!» ha risposto la sposa del Signore, che aveva il velo ma un po’ scivolato indietro, come se se lo fosse messo all’ultimo o già lo stesse togliendo. E si è fatta il segno della croce.
Giovanni ha guardato il gregge dei bambini: due o tre sono scesi dalle macchine che già piangevano, gli altri hanno cominciato mano a mano che si andavano caricando i bagagli, e quegli altri che ancora si trattenevano hanno iniziato per suggestione, nel vedere quelli che strillavano e si aggrappavano alle gambe delle madri come agnelli al carico della Pasqua. Così alla fine era un disastro di urla e lacrime, una scena da deportazione. Allora Giovanni ha fatto un cenno con la testa, che sì, l’acqua benedetta serviva. E ha pensato a suo figlio a casa con la moglie. La settimana seguente l’avrebbe portato a Cesenatico, loro tre insieme a ingozzarsi di pesce e fare castelli di sabbia. La moglie avrebbe messo un vestito smanicato e la sera, dopocena, l’avrebbero accompagnato alle giostre. Già avevano discusso sulla quantità di roba da portare. Anna esagerava sempre e partivano ogni anno con la Panda che esplodeva, la canoa e l’ombrellone sul portapacchi. L’altr’anno lo aveva legato male. E tirava un vento in poppa sull’Autostrada del Sole da strapparti le orecchie. Il figlio era morto dal ridere quando l’ombrellone s’era staccato come un missile, sparato in avanti oltre il parabrezza. Il vento l’aveva aperto e lo gonfiava trascinandolo come una mongolfiera a strisce bianche e blu nel cielo di giugno. Per tutta la settimana successiva Giovanni aveva letto il giornale con ansia, mai fosse che portasse la notizia di qualcuno morto infilzato come un vampiro dalla stecca di un ombrellone piovuto dal cielo.
Ora pensa con tenerezza a tutti quei loro bagagli, quelle valigie mescolate delle maglie piccole del figlio, delle sue, più grandi, degli abiti sottili di Anna. Vestiti che si tengono compagnia nel viaggio.
Chiude il portellone su quei borsoni di calzoncini e magliette minuscole, accompagnati nell’andare solo da cinque casse di acqua santa.
«Manca ancora la mia», la bambina ha una voce ferma, trascina con due braccia stecchine una grossa valigia di pelle marrone.
Giovanni riapre il portellone, allunga una mano per agguantare la valigia. La bambina è più veloce.
«Faccio da me», con entrambe le mani stringe la maniglia. Lo sforzo le sbianca le dita, e più nero sembra il nero dello sporco sotto le unghie. Tira su la valigia inarcando la schiena e la appoggia in uno spazio che l’uomo le ha fatto spingendo in là uno zaino di Mickey Mouse. Se avesse dovuto alzarla un millimetro di più non ce l’avrebbe fatta. O forse sì.
Sta ancora pensando a lei, alla bambina che è andata a sedersi in fondo. La vede dallo specchietto retrovisore, al centro del sedile lungo dell’ultima fila, seduta con le gambe incrociate come un’indiana, lo sguardo dritto che attraversa come un proiettile il corridoio centrale, dritto fino al rettangolo dello specchio, dritto attraverso le lenti degli occhiali Enrico Coveri che ha inforcato appena acceso il motore. Dritto come l’ombrellone della scorsa estate, un puntale che si infilza nel cuore grosso e molle di Giovanni.
Perché è l’unica che non piange, ecco cosa.
Cica non entra mai in mare, non supera mai quella riga a un metro dall’ultimo rigurgito d’onda.
Ha paura dell’acqua.
Paura non è neppure la parola giusta: lei ha paura del buio, per esempio, molti di loro ce l’hanno. Così le signorine lasciano la luce accesa nel corridoio e quando gli occhi si sono abituati un po’ si distinguono le cose. Una notte qualcuno l’ha spenta, e quando si è svegliata ha sentito il cuore che le batteva forte, ma non ha chiamato. È stata zitta sotto al lenzuolo, ha aspettato che un altro bambino si svegliasse e piangesse, per lei e per tutti loro. Allora la Suora si è alzata e ha acceso di nuovo la luce in corridoio. Lei ha smesso di trattenere il respiro e si è addormentata. Questa è la paura: una cosa che si può superare. Che è difficilissima, ma si sopravvive.
L’acqua è una cosa diversa.
Quando la sabbia allenta la brace e puoi poggiarci i piedi sopra senza saltellare né scavare buche cercando l’umido di sotto, quando nella spiaggia accanto le madri cominciano a chiamare i figli e infilargli le magliette, allora Cica inizia a tremare. Perché il giorno è finito ed è quasi sera.
La sera li fanno lavare fuori. Le docce sono pali di ferro su una piattaforma di cemento, a un paio di metri l’uno dall’altro. Le signorine si mettono in tre a fare questo lavoro, una catena di montaggio dell’igiene: la prima li fa passare sotto l’acqua, la seconda li insapona, la terza più in là sciacqua sabbia e shampoo.
Cica non ce la fa. Sa che non lo può fare, di passare sotto all’acqua.
La prima volta, in fondo alla fila, ha pensato che forse poteva. Ma mentre la riga di piccoli indiani insabbiati avanzava, il rumore del getto le ha riempito le orecchie. È divenuto un ruggito assordante, così forte che si è dimenticata di respirare. Come se il rumore fosse già acqua che le riempiva la gola e i polmoni, rubando l’aria. Avrebbe gridato, ma neppure quello poteva fare, come in quei sogni dove ti inseguono.
Vicino alle docce c’è il gabbiotto dei cessi. Tre turche incrostate di merda e di sabbia. Si è rifugiata lì d’istinto, pochi metri di corsa. Nessuno l’ha vista: non i bambini che sono tutti concentrati, perché la doccia non piace a nessuno, con la schiuma che ti entra negli occhi mentre aspetti di sciacquare; non le signorine indaffarate a strigliare e afferrare corpi sguscianti come pesci.
Ha appoggiato la schiena alla porta, con il respiro rappreso nei polmoni stretti. Si è calmata guardando una lumaca che si arrampica lenta sul muro della latrina. Come ci è arrivata lì? Possibile che abbia attraversato quella distesa di sabbia intorno? Deve essere per lei come andare a piedi da casa di Cica a quella di sua nonna in Puglia. Che poi, umida com’è, appiccicosa, la sabbia l’avrebbe impanata come una cotoletta. Niente affatto. Arriva alla conclusione che quella è la casa della lumaca. La sua mamma ha fatto lì un ovetto e poi è nata lei, la lumaca, con quel guscio bianco che sembra una pietrina. La chiamerà così: Pietra. E domani a pranzo ruberà per Pietra una foglia di insalata. Intanto la lumaca sale, si ferma, tende un cornino. Lo ritrae. Si rassicura. Avanza.
Cica allunga un dito. Quella piglia un colpo e si raggruma sotto al guscio. Il guscio è la casa. Il cesso, in termini di proporzioni, è più come se fosse la sua città. Come Novara.
«Hai ragione tu» le dice, «mica mi piacerebbe, se mi mettessero un dito nell’occhio.»
Intanto ha ripreso a respirare quasi normale. Se ne accorge perché ora sente l’odore che sale dal buco della turca. È odore di cacca, ma anche di alghe, per via del mare vicino e di quelle piante verdi che crescono fin dove si vede, guardando giù, nel tubo.
Si accorgeranno che lei non c’è, deve tornare. Si accorgeranno che ha i capelli asciutti e che non l’hanno ancora lavata. Allora le viene l’idea.
Si accoccola sulla pedana di smalto rotto, ma a rovescio. Sullo scivolo inclinato che porta allo scarico c’è una pista di sabbia e una traccia di altro. Non si ferma a capire meglio, tanto lo sa cos’è. Tanto la cacca non ha mai ucciso nessuno. Infila una mano nello scarico e tira su un poco di acqua torbida, se la porta ai capelli e ne bagna una ciocca. La lumaca ha tirato fuori entrambi i cornini. Tremano leggermente, quasi stesse tentennando la testa.
«Che c’è?» la interroga.
Poi guarda dove la lumaca sta guardando. Si raddrizza e afferra la catena che spenzola nel vuoto senza l’aggrappo di una manopola in fondo. Lo scroscio, e l’acqua riempie la turca, schiumosa come un’onda di mare. Cica fa un salto indietro, un tuffo al cuore. Riprova ancora due volte, la schiena addossata alla porta, aspettando tra un tiro e l’altro che lo sciacquone si riempia: l’acqua ha un tragitto esatto, non trasborda, né dall’alto la vaschetta cede quando è piena. L’acqua è imbrigliata, al guinzaglio di quella catenella che lei tira. Non può decidere per sé, come la doccia o il mare. Il terzo strappo, e Cica ha preso coraggio: si è sfilata il costume e lo immerge, poi se lo preme piano sulle braccia, sulle gambe e sulla testa, attenta che non entri dell’acqua negli occhi. Quando sente l’acqua libera che le gocciola addosso, il respiro si rattrappisce di nuovo. Anche la lumaca si è ritirata, per uno schizzo che le ha preso il guscio.
Ha finito: è bagnata abbastanza. Vorrebbe avere un angolo di stoffa asciutta per levare la goccia dalla schiena della lumaca. Ci passa un dito. Resta un umido. C’è ancora un po’ di sole fuori, l’ultimo, che entra nel cesso in una striscia, perché la porta di legno non arriva al soffitto: è una porta sbilenca e tagliata in alto una spanna perché dentro non si muoia di puzza. Potrebbe prendere la lumaca e appoggiarla più in su, in quella striscia di piastrelle al sole, perché s’asciughi.
Si avvicina al muro e allunga il braccio, la punta del dito medio manca ancora di una spanna la luce.
Speriamo che ce la fai da sola, pensa, e apre la porta sen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il negativo dell'amore
  3. Parte Prima
  4. Dieci Anni Dopo
  5. Epilogo
  6. Ringraziamenti
  7. Copyright