In fondo, dipende tutto da quanto uno sia disposto a sopportare, da quanto uno riesca a stringere i denti. Stando insieme, non facciamo male a nessuno; stando separati, ci consumiamo. Volevo essere forte e dimostrare a Lochan che se lui fosse riuscito a buttarsi alle spalle quella notte, l’avrei fatto anch’io. Se fosse riuscito a distrarsi uscendo con un’altra, lo avrei fatto anch’io con un altro. La mia mente era concentrata sull’obiettivo, ma il resto del corpo non voleva saperne. Piuttosto che rispettare i termini del nostro patto, il mio corpo ha preferito lanciarsi in un pericoloso tuffo, giù da una rampa di scale.
Lochan è sempre Lochan, ma non completamente.
Adesso, quando lo guardo, mi sembra diverso. Sento il bisogno di stare sempre con lui. Lo seguo da una stanza all’altra, inventando scuse per stargli vicino, per guardarlo, per toccarlo. Ho voglia di abbracciarlo, di accarezzarlo, di baciarlo ma ovviamente, con gli altri intorno, è impossibile. Amarlo a queste condizioni per me è ormai un profondo dolore fisico. Sono sopraffatta da un turbinio di emozioni contrastanti: da un lato, sprizzo così tanta energia ed entusiasmo che mi è difficile mangiare; dall’altro, sono consumata dal terrore che Lochan possa dirmi ad un tratto che dobbiamo smetterla perché è una cosa sbagliata. O che qualcuno possa scoprirlo e separarci con la forza. Non voglio prestare ascolto alla bomba a orologeria che mi ticchetta nella testa, non voglio pensare al futuro, che è una specie di buco nero in cui nessuno di noi due può esistere, né insieme, né separati… Non voglio che le mie paure riguardo al domani finiscano per rovinarmi il presente. L’unica cosa che importa, adesso, è che Lochan sia qui con me e che noi ci amiamo. Non mi sono mai sentita così felice in vita mia.
Anche lui sembra più allegro. L’espressione sofferente di stanchezza e di falsa allegria gli è ormai sparita del tutto dalla faccia. Ride a crepapelle alle battute di Tiffin, fa il solletico a Willa e la fa volteggiare talmente veloce che lo supplico di fermarsi. Asseconda Kit e non reagisce più alle sue solite provocazioni. Ha persino smesso di mordicchiarsi il labbro. E ogni volta che i suoi occhi incrociano i miei, il suo volto si accende con un sorriso.
Un venerdì mattina, due settimane abbondanti dopo l’episodio sul letto, io gli arrivo da dietro mentre lui è in piedi davanti al lavandino, con le spalle alla porta, intento a sorseggiare il caffè e a guardare fuori dalla finestra. I suoi capelli corvini sono ancora arruffati dalla notte, le maniche della camicia bianca arrotolate fino al gomito, come sempre. La pelle delle sue braccia sembra così liscia che avverto il bisogno di accarezzargliele. Incapace di trattenermi, infilo la mano nella sua. Lui si volta con un sorriso sorpreso, ma colgo un pizzico di preoccupazione nei suoi occhi, accompagnato anche da un’altra emozione: un desiderio sofferente, una dolorosa disperazione.
— Gli altri scenderanno a momenti — mi avverte a voce bassa.
Guardo la porta chiusa della cucina. Come vorrei poterla chiudere a chiave. Voltandomi di nuovo verso di lui, gli accarezzo il palmo della mano con la punta delle dita. — Mi manchi — sussurro.
page_no="181" Lui sorride, ma i suoi occhi sono tristi. — Dobbiamo solo… aspettare il momento giusto, Maya.
— Non c’è mai un momento giusto — rispondo. — Tra i bambini, la scuola e Kit che resta sveglio fino a tardi, non restiamo mai da soli.
Lui ricomincia a mordicchiarsi il labbro, voltandosi a guardare fuori dalla finestra. Io gli appoggio la testa sulla parte alta del braccio.
— No! — esclama, rauco.
— Ma stavo solo…
— Non capisci? È tutto più difficile così. Peggiori le cose e basta. — Sospira. — Non… non sopporto che tu…
— Che io cosa?
Non risponde.
— Perché non mi rispondi?
— Non puoi capire. — Si gira verso di me quasi con rabbia, la voce che comincia a tremargli. — Vederti, stare con te ogni giorno, senza poter fare niente… è come un cancro, una specie di cancro che mi cresce dentro il corpo, nella testa!
— Sì. Lo so. Scusami. — Cerco di ritirare la mano, ma le sue dita si stringono attorno alle mie.
— Non…
Mi sporgo verso di lui e lo stringo forte, mentre lui mi avvolge con le sue braccia. Il calore del suo corpo scorre all’interno del mio come fosse corrente elettrica. La sua guancia calda mi sfiora il viso, le sue labbra toccano le mie e si staccano subito. Ho talmente tanta voglia di essere baciata da lui che provo dolore.
La porta si spalanca all’improvviso, come un colpo di pistola. Ci stacchiamo subito. Tiffin è lì in piedi, la cravatta penzoloni per terra, la camicia fuori dai pantaloni. Ha gli occhi sbarrati e passa con lo sguardo dalla mia faccia a quella di Lochan.
— Wow, pronto prima degli altri oggi! — La voce mi esce fuori acuta, piena di finta allegria. — Vieni qua che ti faccio il nodo. Cosa vuoi per colazione?
Non si muove. — Che è successo? — chiede dopo un po’, preoccupato.
— Niente! — Lochan si gira verso di lui mentre prepara il caffè e gli fa un sorriso rassicurante. — Tutto a posto. Allora, muesli, pane tostato, o tutti e due?
Tiffin ignora il tentativo di Lochan di distrarlo. — Perché stavi coccolando Maya? — chiede.
— Perché… perché… Maya era un po’ preoccupata. Oggi ha un compito in classe — farfuglia Lochan. — È solo un po’ nervosa.
Annuisco anch’io, cancellando subito il finto sorriso dalla faccia.
Dubbioso, Tiffin va lentamente verso la sua sedia, scordandosi le solite lamentele mentre Lochan gli riempie la scodella di muesli.
Ho il cuore in gola. Abbiamo sentito la porta solo dopo che si è spalancata del tutto e ha sbattuto contro lo spigolo del bancone. Avrà visto Lochan che mi baciava sul collo, notato le mie labbra sfiorare le sue? Tiffin comincia a mangiare il muesli senza ulteriori commenti ma so che non se l’è bevuta, sente che c’è sotto qualcosa. Ed è quasi un sollievo quando arrivano Kit e Willa, tra urla e lamenti, con lui che protesta per la colazione e lei perché non trova più il suo album di figurine. Continuo a lanciare occhiate nervose a Tiffin, ma lui è stranamente silenzioso.
Anche Lochan è chiaramente scosso. Ha le guance rosse e si mordicchia il labbro. Rovescia il succo di frutta di Willa e fa cadere i cereali sul tavolo. Beve caffè a ripetizione e cerca di far finire la colazione in fretta a tutti anche se non sono neanche le otto, e il suo sguardo torna di continuo sul volto di Tiffin.
Dopo aver lasciato i bambini a scuola, mi giro verso di lui e gli faccio: — Tiffin non ha visto niente. Non ne ha avuto il tempo.
— Ha visto solo che mi abbracciavi e ora teme tu sia preoccupata per qualcosa di più serio di un semplice compito in classe. Ho sbagliato a tirar fuori quella scusa patetica. Ma stasera si sarà già scordato ogni cosa, o comunque si accorgerà che stai bene. È tutto sotto controllo.
Sento ancora il groppo di paura allo stomaco. Ma annuisco e basta, sorridendo in modo rassicurante.
Durante l’ora di matematica, Francie mastica una gomma e tiene i piedi appoggiati sulla sedia vuota davanti a sé mentre mi allunga bigliettini su come mi guarda Salim Kumar e su cosa secondo lei gli piacerebbe fare con me. Ma l’unica cosa a cui riesco a pensare è che bisogna che le cose cambino. Io e Lochan dobbiamo trovare il modo di stare insieme almeno per un po’ ogni giorno, senza paura di essere disturbati. So che dopo quanto è successo oggi, lui non mi toccherà più quando ci sono gli altri in casa, vale a dire sempre. E non capisco perché non mi permetta nemmeno di stargli accanto, stringergli la mano, appoggiargli la testa sul braccio, se siamo soli in una stanza. Dice che così non faccio che peggiorare le cose, ma cosa c’è di peggio che non toccarlo affatto?
Oggi spetta a me passare a prendere Tiffin e Willa, perché lui finisce tardi. Nel tragitto fino a casa, mi corrono entrambi davanti come sempre, procurandomi un infarto a ogni incrocio. Una volta rincasati, distribuisco la merenda e gli rovisto nello zaino in cerca dei compiti e di eventuali comunicazioni da parte delle maestre, mentre loro due litigano per il possesso del telecomando in soggiorno.
Faccio una lavatrice, sistemo le cose della colazione e salgo su a mettere a posto le loro stanze. Quando torno in soggiorno, si sono entrambi già stufati della tv, il Game Boy non funziona bene e gli amici di quartiere di Tiffin sono andati tutti agli allenamenti di calcio. Cominciano a bisticciare tra loro, così propongo una partita a Cluedo. Esausti dopo un’intera settimana di scuola, accettano entrambi, e così prepariamo il tabellone sulla moquette in soggiorno. Tiffin è steso a pancia in giù, con la testa appoggiata sulla mano, la zazzera bionda sugli occhi; Willa è seduta a gambe incrociate ai piedi del divano, con un enorme buco nuovo nella calzamaglia rossa della divisa da cui spunta un cerotto ancora più grande.
— Che ti è successo? — chiedo, indicando con il dito.
— Sono caduta! — annuncia, gli occhi le si illuminano, pregustando l’opportunità di rievocare il suo dramma personale. — Mi sono fatta molto, molto male. Mi si è aperto il ginocchio e avevo tutta la gamba piena di sangue e l’infermiera ha detto che bisognava andare all’ospedale per mettermi i punti! — Lancia un’occhiata verso Tiffin per assicurarsi di avere un pubblico attento. — Non ho pianto quasi per niente. Solo fino alla fine dell’intervallo. L’infermiera ha detto che sono stata proprio coraggiosa.
— Ti hanno messo i punti? — la fisso, sgomenta.
— No, perché dopo un po’ il sangue ha smesso di colare, perciò l’infermiera ha detto che secondo lei non c’erano più problemi. Continuava a cercare di raggiungere al telefono la mamma, ma io le ho ripetuto non so quante volte che quello era il numero sbagliato.
— In che senso, sbagliato?
— Continuavo a ripetere di contattare te o Lochan, ma non voleva darmi retta, neanche quando le ho detto che sapevo i vostri numeri a memoria. Ha lasciato solo un sacco di messaggi sulla segreteria di mamma. E mi ha chiesto se avevo una nonna o un nonno che poteva venirmi a prendere.
— Oddio, fammi vedere. Fa ancora male?
— Solo un pochino. No… ahia… non togliermi il cerotto, Maya! L’infermiera ha detto che devo tenerlo!
page_no="185" — Okay, okay — mi affretto a dire. — Ma la prossima volta devi dire all’infermiera di chiamare subito me o Lochie. Che deve farlo per forza, Willa, okay? Per forza! — Mi accorgo che sto quasi urlando.
Willa annuisce distratta, intenta ad allestire i pezzi del gioco ora che il resoconto del suo dramma è terminato. Tiffin invece mi guarda serio, strizzando gli occhi azzurri.
— Perché la scuola deve sempre chiamare te o Lochan? — chiede calmo. — Non è che per caso siete voi i nostri veri genitori?
Un’ondata di panico mi schizza nelle vene come acqua ghiacciata. Per un attimo, mi manca il respiro. — Ma che dici, Tiffin? Siamo solo più grandi di voi, tutto qui. Come… come ti è venuta in mente una cosa simile?
Tiffin continua a fissarmi con uno sguardo penetrante e io resto letteralmente con il fiato sospeso, convinta che voglia tirare in ballo ciò che ha visto stamattina.
— Mamma non c’è quasi più, ormai. Neanche nei week-end. Si è fatta una nuova famiglia a casa di Dave. Vive là e ha pure degli altri figli.
Lo fisso, con la tristezza che mi invade il corpo. — Quella non è la sua nuova famiglia — tento infine di ribattere, disperata. — I bambini restano lì solo il fine settimana e poi sono figli di Dave, mica suoi. Siamo noi i suoi figli. Ultimamente passa un sacco di tempo là perché lavora fino a tardi. Sarebbe pericoloso per lei rientrare a casa da sola a notte fonda.
Il cuore mi batte troppo forte. Vorrei che Lochan fosse qui per trovare le parole giuste. Non so spiegare loro la situazione. Non so spiegarmela nemmeno io.
— E allora com’è che non torna più neanche nei week-end? — chiede Tiffin, con voce improvvisamente tagliente e piena di rabbia. — Com’è che nei giorni liberi non ci porta più a scuola e non ci viene a prendere, come prima?
— Perché… — La voce mi trema. So che adesso devo per forza mentire. — Perché ora lavora anche nei week-end e non prende mai giorni liberi in settimana. Così può guadagnare di più e comprarci tante belle cose.
Tiffin mi lancia un’occhiata lunga e intensa e di colpo vedo in lui il teenager che diventerà tra qualche anno. — Stai mentendo — conclude con voce profonda. — State mentendo tutti quanti. — Si alza e si precipita su per le scale.
Io resto lì seduta, paralizzata dalla paura, dal senso di colpa e dall’orrore. So che dovrei corrergli dietro, ma cos’altro posso dirgli? Willa mi tira per la manica, con la pretesa di giocare, fortunatamente incapace di cogliere il senso della discussione. E così io afferro le pedine con mano incerta e comincio a giocare.
Con il passare del tempo, il pomeriggio del mio svenimento comincia ad apparirmi come un sogno destinato a dissolversi lentamente nei recessi della mente. Non ho neanche più tentato di sfiorare Lochan. Continuo a ripetermi che è una situazione temporanea, solo finché le cose non si tranquillizzano con Tiffin e lui non ricomincia a concentrarsi su altro, tornando a essere il solito bambino impertinente di sempre. Non ci metterà molto, ma so che per ora il ricordo continua ad aleggiargli nella mente, insieme al dubbio, al dolore e alla confusione. E questo basta già a impedirmi di avvicinarmi a Lochan.
Inizia l’incubo natalizio: recite scolastiche, costumi da raffazzonare, una festa in discoteca per tutte le quinte, anche se Lochan è l’unico a non partecipare. Poi tutti si scambiano i saluti e arriva all’improvviso Natale, con la casa decorata con festoni di carta e fili d’argento che Lochan sgraffigna a scuola. Ci vuole lo sforzo di noi cinque per trasportare l’albero dal negozio fino a casa, con Willa che si conficca un ago di pino nell’occhio e, per alcuni istanti di terrore, pensiamo di doverla por...