Adhara sentì le gambe cedere di colpo. Aveva quasi dimenticato la fatica e il dolore, quando all’improvviso il suo corpo raggiunse il limite. Il tronco di un albero fermò la sua caduta, e lei vi si appoggiò con tutto il peso. Non aveva idea di dove fosse. Si guardò attorno, smarrita. Poi ricordò. Il combattimento con Amhal aveva distrutto il portale della biblioteca e li aveva scagliati entrambi in un luogo che non conosceva. Aveva lasciato Amhal a terra, ferito, e si era inoltrata nella foresta, nel cuore della notte.
Ovunque guardasse, tutto le sembrava ignoto e ostile. Sul terreno crescevano strane piante dalle foglie larghe e carnose, tra i rami contorti degli alberi pendevano lunghissime liane dall’aspetto tetro. E quei fiori, fiori immensi e osceni, sembravano quasi in attesa di un suo passo falso, spalancati su di lei come bocche fameliche.
Non camminava da molto tempo, ma era provata dallo scontro con Amhal. Le mancava il fiato, e il fianco ferito le bruciava da impazzire. Persino il moncherino aveva ricominciato a tormentarla. Era come se la sua mano fosse ancora lì, come se Adrass non gliela avesse mai amputata, come se pian piano avesse ripreso a decomporsi. Percepiva il dolore lancinante della carne corrosa, lo stridio dei tendini. Ma oltre il suo polso sinistro non c’era più nulla, e la pelle era tesa e liscia sull’accurata opera di cauterizzazione che Adrass aveva compiuto per medicarle la ferita.
No, non era il dolore a farla piangere. Si portò la mano destra agli occhi, e le lacrime parvero bruciare come fuoco liquido. Pensava al duello con Amhal, al bacio lungo e disperato che si erano scambiati; pensava a Adrass, al suo corpo ormai perduto, sepolto dalle macerie del portale. Pensava a quegli ultimi, tremendi giorni in cui era diventato un padre per lei, solo per vederlo ucciso sotto i suoi occhi dall’uomo che amava. E non riusciva a darsi pace.
Perché tutto quel dolore, perché era destinata a perdere tutto ciò che conquistava? Gli dei sembravano aver scelto per lei una via così impervia soltanto per il divertimento di vederla dibattersi nelle pastoie del suo destino, e fallire miseramente. Era per questo che esistevano Consacrate e Distruttori, per questo Sheireen e Marvash si massacravano attraverso i secoli? Per il diletto degli dei?
Sapeva solo che era sfinita.
Si portò la mano al fianco, e la vide rossa di sangue.
Rischio di morire, pensò, ma era una semplice constatazione. In quel momento vivere o morire non faceva alcuna differenza.
Lasciò che la schiena scivolasse lungo il tronco, che la corteccia le graffiasse la pelle. Cadde nell’erba alta, tra felci enormi e fiori dall’aspetto minaccioso. Alzò gli occhi. Tra le chiome degli alberi intravide uno sprazzo di cielo. Nulla più che un triangolo nero, acceso da miriadi di stelle. Da un lato, uno spicchio di luna, luminosissimo.
Il cielo era lo stesso del Mondo Emerso, il cielo crudele del giorno in cui era venuta al mondo e si era svegliata in un prato senza sapere chi fosse, né da dove venisse. Allora era una mattina assolata, mentre adesso era una notte cupa e profonda. Da lassù, qualche dio crudele l’aveva vista strisciare tutto quel tempo, e forse ancora la guardava ridendo. Adhara sorrise alle stelle. Era stanca di giocare. E in un modo o nell’altro adesso sarebbe finita.
Lasciò che il suo corpo si abbandonasse, le braccia lungo i fianchi, le gambe distese a terra, senza più forza. Chiuse gli occhi, il buio l’avvolse e la portò via.
L’oscurità densa del suo sonno si animò all’improvviso. C’era qualcosa. Una forma vaga e candida, una fiammella che si agitava, come scossa dal vento.
Piano, iniziò a percepire una voce. Flebile, così debole da essere coperta dalla sua stessa eco. E pronunciava parole incomprensibili, in una lingua perduta.
Non appena la udì, Adhara avvertì una sofferenza profonda, una disperazione cupa. Poteva sentirla nella carne, come se le appartenesse.
Non capiva le parole, e non era in grado di distinguere chi le stesse pronunciando, ma parlavano di dolore e morte.
Catene a stringerle i polsi. Un buio infinito a coprirle gli occhi. E qualcosa che le bruciava il petto, insinuandosi tra i suoi seni come una serpe, scavandole la carne come un pungolo, sempre più a fondo, fino a raggiungerle il cuore.
Presto… presto… presto!
Adhara spalancò gli occhi, ma dovette richiuderli subito. C’era una luce accecante. Scosse la testa, e la sentì come fosse piena di pietre. Le faceva male dappertutto. Il sole le scaldava la pelle. Si passò la mano sulla fronte, e la trovò coperta da un sottile velo di sudore.
Si sentiva addosso una strisciante angoscia. Ricordava bene il sogno che aveva appena fatto. Le sembrò che volesse comunicarle un messaggio, di cui tuttavia le sfuggiva il senso.
Riaprì gli occhi piano, cercando di distinguere qualche forma nota in quel caos di luce. I contorni andarono definendosi a poco a poco. Riconobbe il luogo in cui aveva perso i sensi la sera prima, il profilo dei rami e delle foglie, la forma di alcuni fiori. Era un tripudio di colori, violentissimi. Le corolle la accecarono con i loro petali rossi e viola, le foglie sugli alberi con il loro verde incandescente. I profumi erano inebrianti.
Scrutò il paesaggio. Alla luce del giorno e con la mente più riposata forse sarebbe stato più facile orientarsi. Ma a parte il fatto di trovarsi in una foresta, per il resto le sembrava di essere finita in un incubo. Perché nessuna delle piante che la circondavano apparteneva al suo mondo. Il sottobosco era un intrico di arbusti che non aveva mai visto. C’erano alberi dal fusto lunghissimo, sul quale si innestavano a raggiera foglie aghiformi. C’erano piante che terminavano con grosse escrescenze rosse e carnose, altre composte da foglie a ventaglio, dai bordi taglienti.
Adhara si tastò ancora la fronte. Era fresca. Forse la sera prima aveva avuto la febbre, ma adesso era scomparsa. Non stava delirando. Era davvero finita in un luogo irreale.
Appoggiò la testa al tronco di un albero dalla corteccia porosa. Si ricominciava, dunque. Era ancora viva, e le toccava di nuovo combattere, lottare per sopravvivere. Si fece forza e osservò la ferita al fianco. Era un bel taglio, ma l’emorragia quanto meno si era fermata.
Con estrema delicatezza scostò la stoffa della casacca, ormai tutt’uno con i lembi di carne. Forse c’era rischio di infezione. Poco male. Sapeva che Adrass l’aveva ben attrezzata per ogni evenienza. Sarebbe bastato guardarsi attorno, e la sua memoria di creatura artificiale avrebbe fatto il resto: di sicuro avrebbe individuato una pianta con cui curarsi. Invece le bastarono pochi minuti per capire con sgomento che non funzionava. Niente nei dintorni le ricordava qualcosa. Tutto era sconosciuto. Fino a quel momento il suo istinto l’aveva sempre tirata fuori dai guai. Ora, improvvisamente, la sua voce interiore taceva.
Chiuse gli occhi di nuovo, cercando di vincere il panico che dalle gambe cominciava a salirle verso le tempie. La risposta venne a galla rapidamente. Non sarebbe stato piacevole, ma non c’era altro modo.
Raccolse le energie. Quella notte di sonno l’aveva ristorata, e sentiva di potersi concedere un’unica, semplice magia.
Evocò un fuoco magico. Il globo rossastro si sollevò davanti a lei, acceso di un bagliore timido. Se lo sarebbe fatto bastare.
Prese il pugnale e lo immerse nel globo fino all’elsa. Attese che il fuoco facesse il suo lavoro e che la lama assumesse una colorazione rosso cupo. Quindi inspirò a fondo. Si guardò il fianco. Cercò il coraggio. Si morse il labbro, strinse forte gli occhi, poi appoggiò la lama alla carne. Il suo grido ruppe il silenzio assorto di quel luogo alieno.
La fame non tardò a farsi sentire. Adhara non ricordava quanto tempo fosse passato dal suo ultimo pasto, ma sentiva di doversi rimettere in forze. La ferita era adesso al riparo dall’infezione, ma la procedura che aveva usato l’aveva lasciata stremata. Gli alberi traboccavano di frutti, eppure le riusciva difficile trovarne uno dall’aspetto commestibile. Quei colori sgargianti e quelle forme sensuali sembravano fatti apposta per attirare le prede in un morso fatale. Ma non aveva scelta, doveva rischiare. Camminò ancora, alla ricerca di un frutto dall’aria più inoffensiva degli altri, finché non vide un albero carico di grosse mele di un viola cupo. Ne raccolse una caduta a terra e affondò le dita in una polpa ricca e farinosa che trasudava un liquido rosso vivo, tanto che per un istante le sembrò di avere le mani intrise di sangue. Dentro, c’era un cuore bianco lattiginoso. Lo assaggiò con la punta della lingua: il sapore era dolcissimo. Decise di fidarsi, e lo divorò con foga.
Riposò per gran parte del giorno. Il corso degli eventi l’aveva stordita, e si sentiva come catapultata in un sogno. Aveva bisogno di riprendere fiato, e per farlo doveva chiudere i conti con quanto era avvenuto poche ore prima.
Scavare una buca non fu facile, con una mano sola e il dolore al fianco che non voleva saperne di abbandonarla. Ma doveva farlo. Fece leva sull’elsa della spada, e in quel lavoro profuse tutte le energie residue.
Quando ebbe finito, vi adagiò dentro l’arma. Era tutto quel che le restava di Adrass. Il suo corpo non c’era più, forse seppellito sotto le macerie del tempio elfico, forse a decomporsi chissà dove, scagliato lontano dall’esplosione del portale. Ma l’uomo che era stato meritava una fossa in cui riposare.
Adhara si strappò con forza una ciocca di capelli. L’avrebbe recisa se avesse potuto, ma era infinito il numero di cose che con una mano sola non era più in grado di compiere. Poco male. Era lieta di soffrire per lui.
Depose la lucente ciocca blu nella piccola fossa, accanto all’arma, e la ricoprì di terra. Quando fu colma, vi infisse sopra nient’altro che un ceppo. Si mise in ginocchio, e tutto quel che seppe donare all’uomo che le aveva dato la vita e che poco prima l’aveva salvata fu un silenzio cupo. Ma fu in quel dolore muto che trovò il senso della via che l’attendeva. Avrebbe onorato la morte di Adrass compiendo la missione per cui lui l’aveva creata. Sì, avrebbe continuato la lotta, per lui. Per questo doveva sopravvivere. Per questo, e perché un grande compito la attendeva. Provò una fitta di dolore quando il volto impassibile di Amhal si affacciò nei suoi ricordi. Lui era il Marvash che doveva distruggere, ed era l’uomo che non poteva impedirsi di amare. E ogni giorno che passava, il baratro in cui era precipitato diventava sempre più profondo. Doveva salvarlo, e al tempo stesso doveva sconfiggerlo. E l’avrebbe fatto, per amore suo e di Adrass.
Perché lei era la Consacrata, e il destino del Mondo Emerso era nelle sue mani.
Si riposò due giorni, cercando di recuperare le energie, e per questo decise di muoversi il meno possibile. Si sentiva un’ospite sgradita, come se tutto in quel luogo inquietante, dagli alberi all’invisibile fauna, non facesse altro che spiarla, seguirla, pronto ad attaccarla.
Trovò altri frutti. Ce n’erano di violacei dalla buccia croccante che, una volta spezzata, rivelava un interno giallo, viscido e succoso, pieno di semi. Altri erano allungati, di vario colore e pieni di spine; l’interno però er...