La vita, l'Universo e tutto quanto
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La vita, l'Universo e tutto quanto

  1. 238 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La vita, l'Universo e tutto quanto

Informazioni su questo libro

Gli abitanti meccanici del pianeta Krikkit sono stufi di guardare il cielo stellato sopra le loro teste, con tutto quell'inutile, monotono scintillio. Così decidono, semplicemente, di distruggerlo, facendo scomparire l'intero universo. Solo cinque individui possono opporsi ai loro folli piani: il terrestre Arthur Dent, viaggiatore dello spazio e del tempo, con il suo inseparabile amico alieno Ford Prefect, che, giusto per provare una nuova esperienza, decide di andare fuori di testa; insieme a loro l'indomabile Slartibartfast, vicepresidente della campagna per il Tempo Reale che viaggia su un'astronave alimentata dal comportamento irrazionale; il mostruoso Zaphod Beeblebrox, dotato di due teste e tre braccia, e la sensualissima Trillian. Per la strana brigata inizia così un'altra pazzesca avventura...

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804517580
eBook ISBN
9788852022586

1

Come sempre, nel dormiveglia, Arthur Dent fu assalito dal ricordo di dove fosse e si svegliò con un grido d’orrore.
Così, come sempre, cominciò la sua giornata.
Il problema non erano tanto il freddo, l’umidità, il cattivo odore della caverna. Il problema era che la caverna si trovava nel centro di Islington, e che prima di due milioni di anni non sarebbe passato nessun autobus.
Come Arthur ben sapeva, il tempo è il posto (per così dire) peggiore per perdersi; e lui ci si era perso un mucchio di volte: nel tempo e nello spazio. Ma, se non altro, quando ci si perde nello spazio si ha sempre qualcosa da fare.
E così, era rimasto infognato lì, sulla Terra allo stadio preistorico, in seguito a una serie di avvenimenti che l’avevano di volta in volta visto sfuggire a spaventose esplosioni e a insulti crudeli. Era finito nelle regioni più bizzarre della Galassia, su pianeti che mai aveva immaginato esistessero e, per quanto da anni ormai vivesse una vita molto, troppo tranquilla, si sentiva ancora nervoso ed eccitabile.
Da cinque anni non era più stato vittima di alcuna esplosione. Quattro anni prima lui e Ford Prefect si erano separati e, siccome Arthur da allora non aveva praticamente visto più nessuno, non era stato più nemmeno insultato.
Tranne una volta.
Era successo una sera di primavera, circa due anni prima.
Tornando alla sua caverna subito dopo il crepuscolo, aveva notato diverse luci che lampeggiavano sinistre tra le nubi. Si era voltato e gli era balzata nel cuore l’eterna speranza dei naufraghi: vedere una nave.
Mentre guardava con ansia il cielo, una nave argentea e affusolata era scesa in silenzio nell’aria calda della sera e aveva sganciato lunghe zampe prensili di metallo, in una sorta di danza tecnologica.
Si era posata in terra dolcemente, e il lievissimo ronzio che aveva emesso fino ad allora si era spento del tutto.
Da un portello era stata calata una scaletta.
Dentro si era accesa una luce.
Stagliata contro il tondo luminoso c’era una figura alta. La figura aveva sceso la scala e si era piazzata davanti ad Arthur.
«Sei un cretino, Dent» aveva detto semplicemente.
Era una creatura aliena, molto aliena. Aliena era la sua altezza eccessiva, aliena la testa piatta, alieni gli occhi stretti come fessure, aliene le vesti dorate dal colletto bizzarro, aliena la pelle grigioverde, dotata della caratteristica lucentezza che le pelli grigioverdi riescono a ottenere solo con l’uso paziente di saponi costosissimi.
Arthur aveva osservato lo sconosciuto con una certa perplessità.
L’altro l’aveva fissato dritto negli occhi.
Arthur, che all’inizio si era sentito il cuore pieno di speranza, dopo la frase dell’alieno non era riuscito a dominare lo stupore, e nella sua mente i pensieri più disparati si erano messi di colpo a contendere tra loro per guadagnarsi il diritto all’uso delle corde vocali.
«Perc...?» aveva detto.
«Cos...?» aveva aggiunto.
«Ch... chi...?» riuscì finalmente a dire per piombare poi in un silenzio spasmodico. Stare anni senza parlare con qualcuno produce questo tipo di effetti.
L’alieno aggrottando la fronte aveva controllato una specie di tabella che teneva in una delle mani lunghe e sottili.
«Sei Arthur Dent, vero?» aveva chiesto.
Arthur aveva annuito, incapace di aprire bocca.
«Arthur Philip Dent?» aveva insistito l’alieno, con tono stridulo.
«Ehm... uh... ssì... ehm... uh» aveva confermato Arthur.
«Sei un cretino» aveva ribadito l’alieno. «Un completo idiota.»
A quel punto la creatura aveva annuito tra sé, aveva spuntato la tabella con un particolare segno alieno e si era voltata di scatto verso la nave.
«Uh...» aveva sussurrato disperatamente Arthur. «Uh...»
«Risparmiami queste stupidaggini» aveva ribattuto l’alieno, con un ringhio rabbioso. Poi era risalito a bordo, scomparendo dietro il portello. La nave si era richiusa e aveva emesso un ronzio sordo.
«Ehi, ehi!» aveva gridato allora Arthur, mettendosi a correre come un forsennato. «Ehi, aspetta un attimo! Che modi sono? Cos’è questa fretta?»
La nave aveva decollato leggera, liberandosi del proprio peso come fosse stato un mantello. Si era librata per breve tempo nel cielo della sera, poi, sfrecciando tra le nubi e illuminandole, era scomparsa ben presto dalla vista. Arthur, solo, nell’immensità del suo deserto, aveva continuato ad agitarsi inutilmente e pateticamente.
«Ma come?» aveva continuato a gridare per un pezzo. «Ma come, andarsene via così senza darmi il tempo di...? Torna qui e prova a ripeterlo!»
Aveva continuato a saltellare qua e là finché le gambe non avevano cominciato a tremargli, e a gridare finché i polmoni non gli erano quasi scoppiati. Ma naturalmente non gli era arrivata nessuna risposta.
La nave aliena era già negli strati più alti dell’atmosfera, pronta a immergersi nel vuoto spaventevole che separa l’una dall’altra le poche cose che ci sono nell’Universo.
Il suo occupante, l’alieno che si curava la pelle con saponi costosi, si appoggiò allo schienale del sedile di comando. Si chiamava Wowbagger lo Sfanculatore Errante, ed era un essere che aveva uno scopo preciso nella vita. Non un gran bello scopo, come lui stesso era pronto ad ammettere, ma se non altro era uno scopo, e serviva a tenerlo occupato.
Wowbagger lo Sfanculatore Errante era, e di fatto è ancora, uno dei pochi, pochissimi esseri immortali dell’Universo.
Chi è nato immortale sa per istinto come gestire la propria immortalità, ma Wowbagger non faceva parte di questa categoria. Anzi, era arrivato a odiare gli immortali per nascita, manipolo di bastardi beoti. Lui era diventato immortale per sbaglio, a causa di uno sfortunato incidente che aveva visto coinvolti un acceleratore di particelle irrazionale, un pranzo liquido e un paio di elastici. I particolari precisi dell’incidente non sono rilevanti; anche perché nessuno è mai riuscito a riprodurre esattamente le circostanze che diedero luogo all’avvenimento, e, anzi, chi ci ha provato ha fatto una figura da idiota o è morto, se non entrambe le cose.
Chiudendo gli occhi in un’espressione di tedio e stanchezza, Wowbagger mise su un po’ di jazz sullo stereo della nave e pensò che avrebbe potuto anche farcela a gestirsi la sua immortalità, se non fosse stato per le domeniche pomeriggio.
All’inizio era stato divertente, se l’era spassata moltissimo, aveva vissuto pericolosamente, corso rischi, guadagnato un mucchio di soldi con investimenti a lungo termine e alto rendimento, e in genere goduto del fatto di vivere infinitamente più a lungo dei comuni mortali.
Alla fine però si era accorto che quello che non riusciva a reggere erano proprio le domeniche pomeriggio e il terribile senso di svogliatezza che comincia a instaurarsi appena prima delle tre, quando ci si rende conto di avere fatto tutti i bagni e le docce che è possibile fare, di avere fissato con aria vacua tutti gli articoli di giornale che è possibile fissare (evitando accuratamente di leggere tutti i loro contenuti), di non potere impedire alle lancette dell’orologio di avvicinarsi inesorabilmente alle quattro, a quel momento fatidico che segna la fine del week-end e l’inizio della lunga oscura pausa caffè dell’anima.
Così, a poco a poco, il disgusto si era insinuato in lui. I sorrisi soddisfatti che un tempo ostentava ai funerali del prossimo erano diventati sempre più tiepidi. Aveva sentito crescere in sé il disprezzo per l’Universo in generale, e per chiunque ci abitava in particolare.
Era stato a quel punto che aveva concepito il suo proposito, un proposito che in seguito lo aveva spinto a viaggiare in astronave da un posto all’altro e che probabilmente avrebbe continuato a spingerlo per il resto della sua interminabile esistenza.
Il proposito in sostanza era questo: insultare l’Universo.
Il che significava insultare tutti i suoi abitanti. Insultarli uno per uno, con offese personali, e (un progetto audace, indubbiamente) in ordine alfabetico.
Quando qualcuno, venuto a conoscenza del suo piano, obiettava che l’impresa era pressoché impossibile, oltre che assurda, in quanto troppa gente nasceva e moriva in continuazione, Wowbagger si limitava a guardarlo fisso e a dire: «Un uomo ha diritto di sognare, no?».
E così aveva messo in atto il suo piano. Aveva installato su un’astronave costruita per durare a lungo un computer che era in grado di rintracciare qualsiasi abitante dell’Universo conosciuto nonché di calcolare le complicatissime rotte necessarie a raggiungerlo.
Dopo avere insultato Arthur Dent, Wowbagger si preparò a uscire con la sua nave dalla zona del sistema stellare Sol.
«Computer» disse.
«Sono qua» garrì il computer.
«Dove si va adesso?»
«Lo sto calcolando.»
Wowbagger contemplò per un attimo le fantastiche gemme che costellavano il cielo, miliardi e miliardi di pianeti lucenti che spruzzavano del loro chiarore l’oscurità infinita del Cosmo. Ognuno di quei pianeti era nel suo itinerario. Nella maggior parte di essi sarebbe stato innumerevoli volte.
Si vedeva, nella sua missione, un po’ come un bambino intento a congiungere puntini numerati per ricavarne una figura. Sperava che da qualche parte, nell’Universo, qualcuno stesse ammirando dall’alto il frutto del suo incessante lavorio. E che questo consistesse in una parolaccia molto, molto volgare.
Il computer emise un piccolo segnale acustico per indicare che aveva terminato i calcoli.
«Folfanga» disse, con un bip.
«Quarto pianeta del sistema Folfanga» continuò, con un altro bip.
«Durata probabile del viaggio, tre settimane» continuò ulteriormente, con un ennesimo bip.
«Lì» proseguì dopo un breve intervallo «dovrai incontrare, se non sbaglio, una lumaca della specie A-Rth-Urp-Hil-Ipdenu. Alla quale, credo, hai deciso di dire: “brutta cozza”.»
Wowbagger emise un grugnito e guardò di là dall’oblò la maestà del Creato.
«Penso che farò un sonnellino» disse, e aggiunse poco dopo: «Che canali tv prenderemo nelle prossime ore?».
Il computer emise un bip.
«Cosmovid, Supercotto e Telescatola Cranica» disse.
«C’è qualche film che non abbia visto trentamila volte?»
«No.»
«Uhm...»
«Ci sarebbe Terrore nello spazio... Quello l’hai visto solo trentatremilacinquecentodiciassette volte.»
«Svegliami al secondo tempo.»
Il computer fece un bip.
«Dormi bene» disse.
La nave continuò a filare silenziosa nella notte.
Sulla Terra, nel frattempo, pioveva a catinelle, e Arthur Dent se ne stava nella sua caverna. Era una delle sere più sfigate della sua vita. Non faceva che pensare a quello che avrebbe potuto dire all’alieno, e mentre lo pensava non faceva che schiacciare mosche. Le quali a loro volta stavano trascorrendo una delle sere più sfigate della loro vita.
Il giorno dopo si disse che ormai gli insulti se li era presi e tanto valeva metterseli in saccoccia. Non ne aveva nessuna, e se ne fabbricò una con la pelle di un coniglio.

2

La matti...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La vita, l'Universo e tutto quanto
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  38. Copyright