Il diritto di non soffrire
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Il diritto di non soffrire

Cure palliative, testamento biologico, eutanasia

  1. 120 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il diritto di non soffrire

Cure palliative, testamento biologico, eutanasia

Informazioni su questo libro

La labilità dei confini tra le cure di fine vita («lasciar morire»), il suicidio assistito («aiutare a morire») e l¿eutanasia («provocare il morire») non ha permesso finora di affrontare in modo adeguato l¿enorme e delicatissimo problema ¿ irto di implicazioni etiche, giuridiche, umane e perfino religiose ¿ di come rispondere a quei pazienti che, affetti da una malattia inguaribile e irreversibile, invocano il «permesso » di morire, o meglio di interrompere una vita «torturata e non più voluta».
Umberto Veronesi tratta temi di bruciante attualità, come l¿eutanasia e il testamento biologico, presentando le diverse forme di «buona morte» attraverso il racconto di storie eloquenti e strazianti di malati terminali (alcuni molto noti, come Terri Schiavo, Giovanni Nuvoli, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro) a cui è stato a lungo negato l¿aiuto che avrebbe consentito di risparmiare loro atroci sofferenze. Tali argomenti vengono analizzati alla luce delle differenti posizioni assunte dai vari paesi del mondo, sia i molti in cui l¿eutanasia non è permessa sia i pochi (Olanda, Belgio e Lussemburgo) in cui è stata di fatto depenalizzata, pur rimanendo un atto praticabile unicamente da personale medico e a condizione che si tratti di una richiesta motivata, reiterata e consapevole, ovvero dotata di tutti i requisiti che ne attestino la «legalità». In Italia, invece, non solo non è ancora stata varata alcuna legge in materia, ma il cammino verso tale traguardo si annuncia molto arduo e disseminato di ostacoli.
Oggi, quindi, la decisione relativa all¿assistenza di fine vita è pressoché ovunque esclusiva competenza dei medici. Tuttavia Veronesi, da medico, è convinto che sia inalienabile diritto di ogni cittadino decidere se avviare ¿ o quando interrompere ¿ il cosiddetto «trattamento di sostegno» (alimentazione e idratazione artificiali), poiché il prolungamento o l¿accorciamento della vita non sono valori in sé, ma solo in relazione al progetto di vita di ciascun individuo. Dunque, l¿eutanasia non va considerata nell¿impietosa accezione di «omicidio del consenziente», come recita il codice penale italiano, bensì come una delle possibili cure a disposizione del paziente terminale che, se non può più sperare di guarire, deve essere almeno libero di sottrarsi al terribile destino impostogli dalla malattia.
Quanto al testamento biologico, il cui progetto di legge è in discussione in Parlamento, l¿autore ha voluto in questo libro rendere pubblico il proprio, quasi per legittimarne il valore di strumento fondamentale che certifica preventivamente la vincolante volontà di una persona di esercitare il diritto di non soffrire e di scegliere come morire.

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XII

Diritti inalienabili

Il testamento biologico, apparentemente semplice, suscita timori perché rappresenta francamente il punto più alto di affermazione del diritto dell’uomo di decidere della propria vita e della propria morte. Nel campo di chi è fermamente contrario a questa estensione logica del consenso informato è stata ormai abbandonata la vecchia posizione del valore «salvifico» della sofferenza, e si fanno considerazioni più moderne e sottili. E anche, a prima vista, più «laiche».
Scrive, per esempio, il teologo don Michele Aramini: «Il diritto a un’autentica morte dignitosa implica diverse prerogative legittime: il diritto del malato di mantenere un dialogo e un rapporto di fiducia con chi lo cura e con le persone che gli sono intorno; il diritto di conoscere la verità sul proprio stato; il diritto di beneficiare delle tecniche mediche disponibili che consentono di alleviare il dolore; il diritto di accettare o rifiutare gli interventi ai quali lo si vuole sottoporre; il diritto di rinunciare ai rimedi eccezionali o sproporzionati in fase terminale.
«Di contro, il preteso diritto di essere soppressi dal proprio medico è di tutt’altra natura. Esso poggia su una nuova e pericolosa concezione della dignità umana. Ciò merita la massima attenzione. In realtà, la nozione classica di dignità, del resto molto antica nella riflessione filosofica, viene abbandonata a favore di una nozione più recente, la qualità della vita. Avviene uno scambio di significati: dalla dignità della persona, intesa come una qualità di ordine ontologico, alla qualità della vita, come possibilità di svolgere determinate funzioni: parlare, camminare, nutrirsi, eccetera. La dignità diviene una nozione molto incerta, eminentemente soggettiva e relativa. Soggettiva, perché ciascuno sarebbe il giudice della propria dignità; relativa, nel senso che la qualità della vita è un concetto a geometria variabile, suscettibile di un’infinità di gradi e misurabile secondo i criteri più disparati. È certo che si deve fare di tutto perché la vita e la morte di ciascuno siano le più dignitose possibili. Ma, in ogni caso, la persona in quanto tale ha sempre la medesima dignità ontologica, intangibile e inviolabile.»
Mi limito a osservare che – da laico – apprezzo al più alto grado che la dignità sia soggettiva, e che ognuno abbia il diritto di essere giudice della propria. Così come apprezzo moltissimo che si possa parlare, camminare, nutrirsi, il che, a mio giudizio, non è un capriccioso optional, ma è condizione imprescindibile dell’integrità della persona. Sta poi alla persona stessa accettare o non accettare un’integrità diminuita o gravemente lesa. In piena e assoluta libertà.
Purtroppo, però, il pensiero che si fonda sul trascendente continua ad avere la tendenza a sostituire alle libertà individuali la preminenza dei valori assoluti, assunti come universali e validi erga omnes. Infatti, più avanti Aramini argomenta: «Il significato della parola dignità non è facile da cogliere concettualmente, perché essa designa una qualità semplice, irriducibile. Più intuitiva che razionale, e da sempre riservata alle persone, la nozione di dignità rimanda all’idea di eccellenza, di preminenza, e comporta un atteggiamento di venerazione e rispetto assoluto. Così Kant ha ben messo in evidenza la distinzione fondamentale tra la nozione di dignità (valore intrinseco), propria delle persone, e quella di prezzo (valore relativo), che caratterizza le cose. Tradizionalmente, tranne che nel pensiero di autori quali Nietzsche e Marx, la dignità è invocata come una qualità che non solo è da costruire, ma da riconoscere e da rispettare in modo incondizionato. Non è la dignità a costituire il fondamento della vita umana, ma è la vita umana a fondare la dignità: quest’ultima deve essere riconosciuta a ogni uomo per il solo fatto di esistere».
Lungi da me l’idea di non riconoscere la dignità umana, ma continuo a chiedermi, forse un po’ ingenuamente, se questa dignità debba sostanziarsi nel negare e respingere la scelta (autodeterminazione) di chi non vuole più vivere imprigionato in un corpo martoriato.

Il mio testamento biologico

Per quanto mi riguarda, io ho fatto il testamento biologico qualche anno fa, e per tre motivi. Per riaffermare le mie convinzioni sulla libertà di disporre della propria vita. Per l’amore profondo verso i miei familiari, che non voglio siano mai straziati dal dubbio sul che fare della mia esistenza. Per il rispetto verso i medici che si prenderanno cura di me. Ho voluto anche renderlo pubblico:
Io sottoscritto Umberto Veronesi, … nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta, dispongo quanto segue: in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico o di sostegno (nutrizione e idratazione). … Queste mie volontà dovranno essere assolutamente rispettate dai medici che si prenderanno cura di me…
Considero il testamento biologico l’atteggiamento più corretto soprattutto verso i medici curanti, cioè verso chi si troverà, concretamente, ad avere la responsabilità terapeutica di un individuo non più consapevole.
Nel febbraio 2009 il giurista Stefano Rodotà, argomentando intorno al caso di Eluana Englaro, ha scritto: «Proprio nell’art. 32 il tema della costituzionalizzazione della persona si manifesta con particolare intensità. Dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell’individuo, si prevede che i trattamenti obbligatori possano essere previsti solo dalla legge, e tuttavia “in nessun caso” possono violare il limite imposto dal “rispetto della persona umana”. È, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, della necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Siamo di fronte a una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, a un’autolimitazione del potere».
Il testamento biologico, che certifica la volontà dell’interessato, è quindi lo strumento più adatto a far sì che nessuna volontà esterna possa prevalere. A questo principio sì ispirò nel 1997 la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, il cui articolo 9 prevede che vengano tenuti in considerazione «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà». Per quanto riguarda il nostro paese, il 18 dicembre 2003 il Comitato nazionale per la bioetica approvò un documento in cui si auspicava un intervento del legislatore volto a obbligare il medico a prendere in esame le dichiarazioni anticipate di volontà e a motivare ogni diversa decisione in cartella clinica. Purtroppo tutto si è fermato, per il timore, da parte di chi è contrario all’eutanasia, che proprio il testamento biologico le aprisse un varco.
Così nella primavera del 2010, mentre una perfetta operazione mediatica presentava con grande risalto l’entrata in vigore della legge che organizza e finanzia le cure palliative, alla Camera, dov’è in gestazione la legge sul testamento biologico, passava tra le proteste di pochi un emendamento che inficia gravemente il diritto all’autodeterminazione del paziente: alimentazione e idratazione artificiali non possono costituire oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. Se dovessero risultare inutili o dannose, saranno i medici a decidere.
Ma i cittadini italiani vogliono veramente affidare ai medici la decisione su come desiderano morire? Tramite la Fondazione Veronesi, all’inizio del 2007 volli affidare la risposta a un sondaggio, che è stato effettuato su un campione significativo di 4300 maggiorenni, e realizzato dall’ISPO, l’Istituto per gli studi sulla pubblica opinione. Prima di parlare degli altri aspetti emersi dalla ricerca, mi sembra fondamentale rispondere alla domanda più importante, che il legislatore non può far finta di ignorare: a chi spetta la decisione? Agli intervistati è stato sottoposto un quesito molto dettagliato: «Se una persona è affetta da una malattia o lesione cerebrale irreversibile che le impedisce di esprimere le sue volontà e la costringe alla dipendenza da macchine, a chi dovrebbe spettare la decisione di non somministrare o eventualmente sospendere i trattamenti che la tengono artificialmente in vita?».
Ebbene, ecco le risposte: solo il 5% degli intervistati ha detto che la decisione spetta al medico che ha in cura il paziente (in ospedale, in un reparto di rianimazione, a casa), mentre ben il 50% ha risposto che la decisione spetta al paziente che ha espresso la propria volontà in merito quando ancora era in piena lucidità mentale. Questa risposta è stata data dalla metà di coloro che si erano posti il problema e dal 40% di coloro che non se l’erano mai posto. Questa risposta mi sembra assolutamente illuminante e nettamente prevalente rispetto alle altre, che comunque riporto: il 20% ha risposto che la decisione spetta a un familiare (coniuge/ genitore/figli o altri parenti), il 20% che la decisione non spetta a nessuno perché «la vita è un dono e bisogna fare di tutto per tutelarla», un altro 5% affida la decisione «a una commissione etica di esperti», e un residuo 1% «a un giudice/magistrato».
Il tema del testamento biologico è tutt’altro che sconosciuto: alla domanda se ne avessero almeno sentito parlare, il 30% degli intervistati ha risposto che sapeva bene di che cosa si trattava, mentre il 45% ne aveva solo sentito parlare, e un altro 25% non ne aveva mai sentito parlare. Com’era prevedibile, la risposta: «So bene di che cosa si tratta» è stata data soprattutto da giovani di 25-35 anni, la cui percentuale è aumentata in ragione del titolo di studio.
Un altro dato molto interessante è emerso dalle risposte al quesito: «Può accadere di trovarsi in una condizione irreversibile di malattia o lesione cerebrale da incidente che ci costringe a dipendere da macchine. Le è mai capitato di pensare al testamento biologico?».
Il 32% (soprattutto tra i maggiori di 64 anni) non ci aveva mai pensato, mentre il 68% si era posto il problema; tra essi, il 45% aveva pensato al testamento biologico in seguito alle vicende di Terri Schiavo e di Piergiorgio Welby, il 15% ci aveva ragionato sulla base di articoli letti su riviste o quotidiani, e infine l’8% ha risposto di averci pensato in seguito a un’esperienza diretta, quando un parente, un amico o un conoscente si erano trovati in questa condizione.
In conclusione, il sondaggio commissionato dalla mia Fondazione ha rilevato l’emergere di una nuova e crescente consapevolezza su questi temi, alla quale non si può rispondere facendo il colossale passo indietro di mettere nelle mani dei medici – e lo dico da medico – decisioni che appartengono unicamente alla persona.

L’ipocrisia dell’eutanasia passiva

Il 26 gennaio 2007 espressi la mia opinione sul «Corriere della Sera» nel dibattito che aveva visto gli interventi di due grandi pensatori, monsignor Elio Sgreccia e il cardinale Carlo Maria Martini, che, dal mio punto di vista di laico, ascolto sempre con grande appagamento intellettuale: «Il laico non è una persona che non vuole credere o che non crede, ma è qualcuno che si ispira al principio della “responsabilità della vita”, un principio di libertà e autonomia intellettuale per il quale ciascuno può consapevolmente scegliere il proprio progetto di vita, in base al valore dell’autodeterminazione. È evidente che una visione che a questo principio si affida trova con difficoltà punti d’incontro con chi abbraccia invece la “sacralità della vita”, considerata non solo dono ma anche proprietà di Dio. E questo soprattutto sui temi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’esistenza umana».
In particolare, dialogando con monsignor Sgreccia, scrivevo: «Eppure ci sono almeno due punti su cui io, laico, sono d’accordo con le tesi di monsignor Sgreccia. Il primo, e il più importante, è proprio sul significato del termine eutanasia e ciò che ne consegue. Eutanasia è la morte che viene provocata in risposta a una specifica richiesta del malato, che si esprime in piena coscienza perché giudica insopportabile la condizione di sofferenza provocata dalla sua malattia. Che la risposta a questa richiesta sia “un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte” oppure “la omissione di terapie la cui privazione causa intenzionalmente la morte”, la sostanza e il significato morale non cambia. Per il cattolico non è da accettare, dice Sgreccia citando anche l’enciclica Evangelium Vitae. Per il laico è da dibattere su nuove premesse: dobbiamo avere il coraggio di sgombrare il campo dalla distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva nella speranza che sotto la maschera della “passività” possiamo nascondere l’atto di causare coscientemente la fine di una vita umana, quella di un malato incurabile. I tempi sono maturi per discutere del principio dell’eutanasia tout court, senza ipocrisie e mezzi termini. Mi rendo conto che dal punto di vista etico-intellettuale, la differenza fra attivo e passivo è più facile da superare che, dal punto di vista giuridico-legale. Causare la morte di un uomo, anche se consenziente, è comunque un reato, può obiettare il giurista. Altri ritengono che si entri nello slippery slope, cioè il pendio scivoloso. Nella realtà, so che nell’esperienza olandese e belga la pratica dell’eutanasia non ha mai creato condizioni che potessero favorire l’insorgere di illegalità o criminalità. L’altro punto su cui concordo con monsignor Sgreccia è l’appello allo Stato e alla comunità per l’adeguatezza dell’assistenza terapeutica, palliativa e umana. Specialmente quando si tratta di malati anziani e non autosufficienti, e per una formazione etico-deontologica del personale medico assistenziale … Se il dibattito su eutanasia, accanimento terapeutico e testamento biologico rimarrà confinato a un gruppo di pensatori e a qualche politico, non incideremo mai sul problema vero, che è il rapporto medico-paziente nell’era di una medicina che cura sempre di più ma non per questo guarisce di più. Per questo bisogna discutere di questi problemi non solo nell’agorà del grande pubblico (che è un grande atto di civiltà comunque) ma soprattutto nelle Università e nei luoghi di formazione dei medici di domani, che sempre più spesso si troveranno ad affrontare non solo malattie, ma dilemmi umani, la cui soluzione non sta nei manuali di scienza».
Sono convinto che il rapporto medico-paziente, compromesso prima dallo scientismo e poi dalla tecnologizzazione delle cure, può trovare l’occasione di essere rifondato proprio davanti al letto dei morenti o dei malati con gravissime sofferenze fisiche e psichiche. La nuova medicina, nonostante l’impetuoso progresso delle conoscenze mediche, dovrà confrontarsi con l’uomo oppure diventare altra cosa, deragliando da una via millenaria. Scrive Bruno Domenichelli, direttore di «Cardiology Science», in un articolo intitolato Dal «consenso informato» al «testamento biologico» (gennaio-febbraio 2007): «In situazioni cliniche in cui unico compito del medico rimane quello di accompagnare il malato nel processo del morire e di lenire empaticamente la sua sofferenza, diventa obbligo morale del medico rispettare le sue esigenze non solo fisiche, ma esistenziali e spirituali. Il rispetto delle volontà, anche “anticipate” della persona malata di fronte alla fine della vita farà sì che il medico debba rinunciare alle possibilità spesso cieche offerte dalla tecnologia medica, nella prospettiva di prolungare nel tempo una vita solo vegetativa o carica di sofferenze incompatibili con la dignità umana. Lungi dal costituire una sconfitta di fronte alle possibilità offerte dal progresso scientifico, questo atteggiamento di umiltà del medico di fronte ai limiti della natura e ai “miracoli” della tecnologia allarga ancor di più la dimensione di “sacralità” laica della relazione medico-paziente, configurando una “alleanza terapeutica” carica di significati nuovi, in cui all’empatia si aggiunge un ulteriore plus di umanità derivante dal rispetto dell’autonomia della persona malata».
Un tempo c’era il paternalismo medico, e non sempre era un male, se s’intende con questa espressione un atteggiamento da padre nei confronti del paziente. Ma questo profondo rapporto di affetto non può scalfire l’autonomia del malato e il suo diritto all’autodeterminazione. Ci sono alcuni diritti del malato che occorre riaffermare con forza: il diritto alle cure sollecite; il diritto alle cure corrette, adeguate, scientificamente valide; il diritto a una seconda opinione, cioè a essere visitato e consigliato da un medico che non faccia parte dell’équipe dei curanti; il diritto alla privacy, cioè alla tutela dei dati personali; il diritto di conoscere il proprio stato di malattia; il diritto di non conoscere la verità sulla propria malattia, vale a dire di essere informato solo di ciò che deve e può sapere; il diritto di non soffrire; il diritto al rispetto e alla dignità; il diritto di rifiutare le cure; il diritto di esprimere in anticipo le proprie volontà. L’insieme di questi diritti fondamentali forma la base del cosiddetto «modello condiviso»: nel percorso di cura, tutte le azioni di diagnosi e terapia sono intraprese o meno in accordo tra medico e paziente, nell’ambito di un rapporto di alleanza terapeutica.
Un medico cattolico, un grande medico per scienza che stimo particolarmente, Giorgio Lambertenghi Deliliers, ematologo di fama e presidente della sezione milanese dell’Associazione medici cattolici italiani, che è intervenuto spesso nel dibattito su temi di bioetica sostenendo posizioni che alcuni in Vaticano sospettano «eretiche», ma che lui chiama «evangeliche», ha osservato, rispondendo alla domanda su che cosa rende differente un medico cattolico da uno laico e agnostico: «Un qualsiasi medico decide di far questo mestiere per assistere e accompagnare i malati, che significa anche far morire con dignità. Per molti miei malati le cure a oggi non assicurano la guarigione e viene il momento in cui prolungargli la sopravvivenza non si concilia più con una vita decente. Dico la verità, nessuno dei miei malati mi ha mai chiesto: dottore, mi faccia morire. Ma in molti casi mi sono sentito chiedere: mi faccia soffrire il meno possibile. Certi politici, certi magistrati, certi giornalisti, e anche certi vescovi, che a parole difendono la vita, vengano in corsia per vedere com’è la realtà. Perché tanto accanimento? Perfino papa Wojtyła ha implorato: “Lasciatemi andare alla casa del Padre”. Mi farebbe piacere, ripeto, che tanti di coloro che s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il diritto di non soffrire
  3. Introduzione - Non chiamiamola più «eutanasia»
  4. Perché non ho mai dato l’eutanasia
  5. La lezione morale di Montanelli
  6. Andarsene con dignità
  7. Atto d’amore estremo
  8. D ove l’eutanasia non è un crimine
  9. Il corpo come una prigione
  10. Si può uccidere per amore?
  11. Staccare la spina: e dopo?
  12. La «buona morte» di papa Wojtyła
  13. «Li facciamo dormire»
  14. Il testamento biologico
  15. Diritti inalienabili
  16. Sacra la volontà del malato
  17. Appendice - Testamento biologico ed eutanasia nel mondo
  18. Dello stesso autore
  19. Colophon