Il destino ha sempre l'ultima parola
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Il destino ha sempre l'ultima parola

  1. 264 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il destino ha sempre l'ultima parola

Informazioni su questo libro

Acapulco, 1951. È una calda sera di settembre quando la misteriosa e affascinante Greta sbarca da una nave proveniente dall'Europa portando con sé solo una valigia piena di denaro e una pistola, dopo essere fuggita dal suo paese d'origine, l'Austria. Nessuno sa chi sia e cosa sia venuta a fare in Messico, ma subito viene notata da un uomo elegantissimo che si offre di ospitarla nella propria splendida villa. Thomas Bouvier, questo il suo nome, è folgorato da tanta bellezza, e dopo un corteggiamento da favola Greta acconsente a sposarlo: lei ha poco più di vent'anni, lui quasi ottanta. Ma la gioia del matrimonio appena celebrato è funestata dalla morte improvvisa di Thomas tra le braccia della giovane moglie, che si ritrova completamente sola in un posto sconosciuto, con un immenso patrimonio e un figlio in arrivo. New York, 2002. Sono passati cinquant'anni, e Greta Bouvier, enigmatica e chiacchierata gran dama del jet set internazionale, decide di concedere le sue attesissime memorie a Gabriel Hinestrosa, illustre intellettuale spagnolo. L'uomo, inspiegabilmente, preferisce affidare il compito di intervistarla alla giovane giornalista Clara Cobián, sua ex allieva e amante. Clara ha così l'occasione di realizzare il suo sogno professionale, anche se per farlo è costretta a riprendere i contatti con Gabriel, che lasciandola l'aveva ferita profondamente. Ma la storia di Greta Bouvier è troppo avvincente per non essere scritta e Clara intuisce presto che lei le sta raccontando solo una parte della verità, e che fra intrighi, rancori e colpi di scena le loro vite sono molto più vicine di quanto non creda. Decide così di andare in fondo a una storia piena di lati oscuri, fino alla scoperta di un terribile segreto. Il destino ha sempre l'ultima parola è un romanzo di grande atmosfera che pagina dopo pagina svela le intricate esistenze dei protagonisti, accompagnando il lettore in un viaggio suggestivo e pieno di emozioni. Con uno stile evocativo e accattivante, Mamen Sánchez dà vita a due personaggi femminili indimenticabili, che grazie al loro incontro sapranno rappacificarsi con il proprio passato

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804614791
eBook ISBN
9788852022517

Mamen Sánchez

Come acqua di limone

Traduzione di Elena Rolla

Mondadori

Come acqua di limone

Ai miei genitori
con tutto il mio amore

1

I
New York, autunno 2002
Greta non usciva mai di casa senza una gardenia all’occhiello. O una rosa tea, bianca e fugace come il suo tacchettio da colomba inquieta. A quel punto della sua storia trattava la vita come una vecchia amica e poteva perdonarle anche gli affronti più crudeli. Sapeva che certi ricordi fanno male per sempre, che il tempo ha la brutta abitudine di lasciare la sua firma sul volto di chi lo vede passare, che certe persone non imparano mai, e chi nasce buono raramente si guasta ma chi nasce cattivo non ha speranza. Aveva appena compiuto settantasei anni – ma solo al di sotto del botulino e del lifting: davanti allo specchio nessuno gliene avrebbe dati più di sessanta – ed era fragile. Fragile nell’incedere ma forte nel carattere, un contrasto che le amareggiava l’esistenza perché, se non fosse stato per i voli così brevi, per le piume così sciupate e le ossa così delicate, Greta Bouvier sarebbe stata ancora quella donna fatale che faceva maledire la sorte agli uomini che ne incrociavano lo sguardo per poi ritrovarsi senza di lei tra le braccia.
Prima di uscire si incipriava il naso e si appuntava il fiore sul bavero. Ne strappava il gambo lungo, evitando le spine e le tenere foglioline da cui spuntava il candido bocciolo che era il suo unico profumo del mattino.
“Odora di estate” diceva all’aria.
E lasciava che i flaconi di Chanel N° 5 nell’armadietto della toletta evaporassero in sua assenza il loro contenuto di alcol e gelsomino, goccia dopo goccia.
“Buongiorno, signora Bouvier” la salutava Carlos dentro la sua uniforme.
Si lamentava di continuo, Carlos, davanti a mezzo litro di birra in uno scantinato di Brooklyn dove una sera sì e l’altra pure andava a giocarsi le mance a poker. Diceva che con i pantaloni a righe, il gilet bordeaux, la camicia bianca e quel ridicolo cappello a cilindro, per non parlare dei guanti di cotone, sembrava un cameriere di Friday’s o uno schiavo negro della vecchia Alabama. Ma Greta, “che Dio la protegga” – questo lo diceva in uno spagnolo nasale e strascicato, effetto dell’alcol e di un’infanzia in technicolor, con la colonna sonora di Celia Cruz e il ricordo sfocato di un giardino che gli avevano raccontato fosse Cuba e non un sogno –, aveva visto quell’uniforme antiquata in un albergo di Londra e aveva deciso che non sarebbe più uscita di casa se ai piedi della scalinata non ci fosse stato ad attenderla un portiere in livrea.
“Buongiorno, Carlos” rispondeva tra i denti, con un certo fastidio nella voce per colpa di quel nome da narcotrafficante; magari si fosse chiamato David, o Jefferson, o perfino Walter. Sì, Walter sarebbe stato perfetto, più intonato al marmo dei pavimenti e all’altezza dei soffitti.
E lui: “Bella giornata”.
E lei: “Bella”.
“Desidera che chiami l’autista, signora Bouvier?” chiedeva Carlos con il fischietto in mano, come se bastasse schioccare le dita per far comparire da dietro la rotonda una carrozza d’oro tirata da quattro cavalli arabi.
Allora Greta annuiva, e alla domanda di lui rispondeva: “La Bentley”.
E mentre la osservava allontanarsi comodamente seduta sul sedile posteriore e confondersi nel traffico di Park Avenue, piccola e impettita, mezza circonferenza d’argento che spuntava dallo schienale, Carlos tirava un sospiro di sollievo e si permetteva di slacciarsi per cinque minuti il primo bottone della camicia, consapevole che dal cancello in poi la responsabilità passava di mano. Dalle sue mani inguantate a quelle fresche di manicure di Néstor Cifuentes, figlio ed erede del defunto Norberto, che ogni settimana andava a farsele sistemare in un salone di bellezza sulla Settantatreesima per due motivi tanto diversi quanto ragionevoli. Primo, perché a Greta piaceva vedere le unghie appena limate sul volante della Bentley e, secondo, perché la proprietaria del salone profumava di mughetto.
“Buongiorno, signora Bouvier.”
“Buongiorno, Néstor.”
“Bella giornata.”
“Bella.”
“Come sta la famiglia?”
“Tutto bene, grazie.”
Così cominciavano di solito le imprevedibili passeggiate di Greta per la città, senza altra meta che i suoi capricci: oggi colazione al Pierre, domani il tè da Swifty’s, ogni giorno una decisione presa all’ultimo momento, in fondo alla strada, quando era costretta a scegliere una direzione – nord o sud, destra o sinistra –, mantenendo la suspense fino all’attimo in cui la luce del semaforo cambiava colore, la macchina davanti partiva o il clacson di quella dietro suonava. Era la sua particolare routine del disordine.
Ma c’era un giorno all’anno, l’unico giorno, in cui il percorso della Bentley era già tracciato con tale anticipo che non era nemmeno necessario scalare la marcia quando si avvicinavano all’angolo. E non bisognava neppure spalancare le ante degli armadi per presentarle gli abiti ordinati per colore, stoffa o qualunque altro criterio dei suoi, e lasciarglieli accarezzare con gli occhi con lo stesso piacere che provava vedendoli per la prima volta nelle vetrine di Bloomingdale’s. Né era necessario prepararle un dolce speciale con cui guarnire il vassoio della colazione, né affacciarsi insieme a lei sul disegno patchwork del parco autunnale, che visto dalla finestra sembrava una coperta stesa ad asciugare più che un bosco circondato da grattacieli che si ostinava ad allungare radici sotto l’asfalto.
Quel giorno in particolare, un anno dopo l’altro da ormai cinquantuno esatti, la signora Bouvier si vestiva a lutto stretto, cancellava il sorriso falso di ogni mattina, lo sostituiva con l’espressione amara del suo vero stato d’animo e, sola con la sua nostalgia, si recava sulla tomba del marito Thomas, morto all’alba di un 30 di novembre.
L’autista la lasciava davanti al cancello di ferro del piccolo camposanto, a cui si arrivava deviando dall’autostrada per gli Hamptons. Greta camminava lentamente, inspirando l’aria umida all’ombra dei castagni, avvolta in una stola nera di visone e con i tacchi che ogni tanto le si impigliavano nell’erba che spuntava disordinatamente tra le pietre.
Davanti al cancello c’era una casa molto umile. In fondo al sentiero si ergeva una chiesetta grigia con il tetto di ardesia, una sola campana e quattro pareti simmetriche con due finestre ciascuna. L’eremo era circondato da quello che chiunque avrebbe scambiato per un giardino costellato di foglie verdi e gialle, con aiuole di ortensie, roseti appena sbocciati e un muro di pietra accanto al quale crescevano timo e lavanda. Solo se ci si soffermava a guardare con attenzione si potevano scorgere qua e là alcune lapidi immacolate, con i nomi e le date sbiaditi dal tempo e dall’oblio, e le croci imperlate di brina. Alcune avevano duecento anni, altre risalivano a due generazioni prima, ma tutte avevano in comune la B del cognome che le riuniva proprio lì e in nessun altro cimitero dell’America profonda. Thomas Bouvier aveva lasciato scritto nel testamento il desiderio di riposare in eterno accanto ai membri passati e futuri della sua famiglia dispersa, e per accontentarlo era stato necessario trasferire i morti dai quattro angoli del mondo fino a quel luogo sperduto lungo la strada per gli Hamptons perché, se durante la sua lunga esistenza qualunque capriccio si era trasformato automaticamente in un ordine da eseguire all’istante, a maggior ragione si dovevano rispettare le sue ultime volontà, per quanto stravaganti potessero sembrare.
Una donna vestita di nero l’aspettava vicino al cancello, davanti alla casetta di legno bianco. Era piccola e grassottella, con i lineamenti della sua razza ancora molto visibili sotto le rughe. Aveva i capelli neri e lisci raccolti in una treccia, la pelle scura, il sorriso bianco e lo sguardo dolce e nostalgico della gente che cresce all’ombra dei vulcani.
Greta l’abbracciò come se si sentisse in debito, e quando si separò dal suo volto umido di lacrime anche lei stava piangendo.
«Sono fiorite le gardenie, Rosa Fe?» le chiese.
«Più di mille» rispose l’india. «Sembrava che nevicasse a maggio.»
Le gardenie evocate da una canzone nello spagnolo del Sud che aveva segnato il ritmo degli ultimi passi di Greta nella baia di Acapulco avevano il potere di trasportarla attraverso il tempo e lo spazio fino a quel giorno, il 30 novembre del 1951, in cui per la prima e ultima volta nella sua vita aveva sfiorato la completa felicità. E nonostante il freddo che le penetrava fin nelle punte dei piedi attraverso le scarpe nere col tacco, le sembrava di camminare sulla sabbia, di respirare l’aria salmastra, di sentire il grido dei gabbiani e il battito d’ala degli avvoltoi, di bagnarsi le dita con la spuma delle onde e di lasciar correre lo sguardo lungo le anse della costa.
Per questo aveva ordinato che ci fossero sempre delle gardenie ai piedi del giaciglio in cui Thomas riposava dal giorno della sua morte, per poterlo andare a trovare senza sentire nostalgia della brezza sulla spiaggia.
“Che Acapulco sia cancellata dalle mappe del mondo” l’avevano sentita dire mentre saliva sull’aereo che riportava in Texas il corpo del marito.
Affacciata al finestrino, guardando il Messico allontanarsi senza essere riuscita nemmeno ad assaporarlo, aveva pianto le uniche lacrime sincere di tutta la sua vita. E non era mai più tornata. Mai più, nonostante le notti di mezza luna. Appena sbrigate le pratiche legate all’eredità del marito, si era trasferita a New York con quell’improvvisa fortuna, decisa a voltare le spalle al Sud.
Ma aveva lasciato aperta la finestra a cui andava ad affacciarsi una volta l’anno, quando all’ombra delle foglie ingiallite dei castagni del cimitero con gli occhi leggeva l’epitaffio di due cifre – 1873-1951 – e con la memoria vedeva il sole tramontare dall’altra parte della baia.
II
Aveva settantotto anni Thomas Bouvier, e vestiva sempre di bianco quando passeggiava nel golfo del Messico. Di lino bianco, con la camicia di batista e un foulard aperto sul collo, un fazzoletto nel taschino della giacca e una dignità non scalfita dalla tequila. L’età non l’aveva avuta vinta sulla linea della sua mascella né sulle nocche delle sue mani grandi, ma gli aveva disegnato solchi nella pelle indurita del viso, intorno agli occhi color nocciola, alla bocca carnosa, alla fronte ampia, e anche se non gli aveva rubato nemmeno un capello era riuscita a striargli la chioma di grigio.
Nel tardo pomeriggio beveva un bourbon con ghiaccio sul terrazzo di casa e poi chiedeva bastone e cappello per scendere in paese lungo il sentiero tortuoso che si snodava in mezzo agli aranceti. A volte si fermava per cogliere un frutto e assaporarne la polpa e il succo dolce e fresco. Respirava l’aria umida delle piantagioni di cocco, camminando lentamente, all’ombra delle palme che ondeggiavano alla brezza marina, e affrettava il passo sentendo la musica dei bordelli del porto, con il pensiero fisso agli occhi neri delle mulatte.
Aveva un debole per le donne, come la maggior parte degli uomini che hanno costruito il mondo, e la cattiva abitudine di restare vedovo ogni tanto – era successo addirittura tre volte –, senza nemmeno un discendente ad arricchire il suo albero genealogico. A volte era consapevole che la vita si prosciugava più in fretta del petrolio nei suoi pozzi in Texas e allora cercava l’immortalità nei vicoli del paese, giurando amore eterno a chi meno se lo meritava, ricevendo in cambio la promessa di non essere mai dimenticato e lasciando l’ultimo bicchiere da pagare per assicurarsi, dopo quella notte, un altro giorno per saldare il debito. Poi, barcollando, tornava alla sua casa, che lo accoglieva appena sveglia, con i bagliori dell’alba che tingevano le colonne della facciata maestosa.
Un cameriere dalla pelle scura gli apriva la porta, e lui attraversava l’ingresso da cui partiva una scalinata divisa in due rampe, poi un salone con le tende che danzavano alla brezza lieve del mattino, e un altro, ancora più grande, in cui troneggiavano un pianoforte a coda bianco e un bancone da bar di legno massiccio con alti sgabelli foderati in pelle di zebra; quindi la sala da pranzo, con le ceramiche di Talavera, i cristalli di Boemia e il lampadario di Murano, e infine la terrazza, da cui un pomeriggio di settembre del 1951 aveva visto arrivare una nave che gli era sembrata diversa da tutte le altre.
Era successo tre o quattro settimane dopo che era atterrato all’aerodromo di Guerrero e si era stabilito in quella residenza sciagurata in cui non era mai riuscito a dormire tranquillo, né quando era ancora viva Gloria, la sua terza moglie, una messicana che aveva insaporito col peperoncino piccante i primi anni della sua vecchiaia, né quando era rimasto da solo, con il suo teschio addobbato di seta, piume e pizzi, lontano ricordo di quel viso così bello, così dolce, che a volte gli appariva in sogno per avvertirlo che presto, molto presto, il mariachi della morte sarebbe venuto a fargli la serenata.
Quella sera, in casa, c’erano una donna elegante al pianoforte e un centinaio di persone. Gli uomini erano in smoking bianco con il papillon nero. Le donne portavano lunghi guanti di seta, avevano le spalle scoperte, i capelli sciolti e il sorriso sulle labbra. Le portefinestre erano spalancate, i lampioni illuminati. Sulla terrazza, quattro o cinque gruppetti di fumatori parlavano del prezzo del mais, del buon caffè e del malgoverno, mentre i sigari si consumavano e si accendevano le stelle.
A Thomas Bouvier quelle cose non interessavano. Consapevole di essere ormai arrivato al penultimo capitolo della sua storia, l’unica cosa che gli importava davvero era sentirsi vivo, e ci riusciva così, tenendo un piede nelle convenzioni dell’alta società e l’altro sprofondato nel fango dei quartieri malfamati.
Se ne stava in piedi di fronte alla baia, con il bicchiere quasi vuoto e il sigaro quasi spento, quando sentì la sirena di una nave che entrava in porto. Era uno di quei cargo che sembrano arrivare da un altro mondo, con lo scafo rovinato dal ghiaccio e dall’acqua di mare. Tuttavia, non avanzava arrancando, ma con la prua alta e tutte le luci accese in coperta, a illuminare un centinaio di ombre tra i container di metallo. A bordo viaggiavano decine di uomini e donne che cercavano di farsi spazio a gomitate lungo il parapetto per assistere alle manovre di attracco e vedere il loro destino ancorarsi alla terra fertile, serena e libera che li accoglieva a braccia aperte.
Thomas non disse niente a nessuno. Si limitò a prendere il bastone da passeggio. Uscì dall’ingresso principale, scese lungo il sentiero tra le piantagioni di cocco che tante volte aveva percorso al buio, e quando abbandonò quel labirinto verde si ritrovò in un altro, fatto di mattoni e calce, tra steccati, mercati e osterie. Poi imboccò il vicolo che conduceva al porto e cercò nella memoria quel caffè, presunto covo di contrabbandieri, da cui di solito assisteva allo sbarco di gente e mercanzie provenienti da oltreoceano. Si sedette su una poltrona di vimini di fronte al molo, si riaccese il sigaro e tra le volute di fumo bianco la vide arrivare.
Il profilo delle persone illuminate dalla luna aveva qualcosa che permetteva a Thomas di intuire, appena posavano piede sul molo, chi sarebbe sopravvissuto e chi sarebbe morto, chi avrebbe messo radici e chi sarebbe avvizzit...

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