Brenin non stava mai sdraiato o accucciato nel retro della mia jeep. Gli piaceva sempre vedere che cosa stava arrivando. Una volta avevamo viaggiato in auto da Tuscaloosa, in Alabama, fino a Miami – circa 1300 chilometri – e ritorno, e Brenin era rimasto in piedi per tutto il tragitto, oscurando con la sua ingombrante mole buona parte del sole e tutto il traffico alle nostre spalle. Ma quella volta, durante il breve viaggio fino a Béziers, non rimase in piedi: non ce la faceva. E fu allora che capii che ormai non c’era più niente da fare. Lo stavo portando nel luogo dove sarebbe morto. Mi ero detto che se si fosse alzato in piedi, anche solo per una parte del viaggio, mi sarei concesso un altro giorno: altre ventiquattr’ore perché accadesse un miracolo. Ma adesso sapevo che era finita. Quello che era stato il mio amico per gli ultimi undici anni se ne sarebbe andato. E io non sapevo che tipo di persona avrebbe lasciato dietro di sé.
Il buio inverno francese non avrebbe potuto contrastare di più con quella luminosa serata in Alabama, all’inizio di maggio, poco più di dieci anni prima, quando avevo portato nella mia casa e nel mio mondo un Brenin di sei settimane. Nel giro di due minuti dal suo arrivo – e non sto affatto esagerando – aveva sfilato dalle guide le tende (di entrambe le finestre!) del soggiorno e le aveva gettate a terra. Poi, mentre io cercavo di riappenderle, aveva trovato la strada per arrivare in giardino e sotto la casa. Sul retro l’edificio era rialzato da terra ed era possibile accedere allo spazio sottostante attraverso una porta in un muro di mattoni, porta che ovviamente avevo lasciato socchiusa.
Brenin riuscì ad andare sotto la casa e poi procedette – metodicamente, meticolosamente e, soprattutto, rapidamente – a staccare e strappare ognuno dei flessibili tubi rivestiti di materiale isolante che convogliavano l’aria fredda dalle macchine del condizionatore alla casa attraverso varie bocchette nel pavimento. Era l’atteggiamento caratteristico di Brenin – il suo «marchio di fabbrica» – verso tutto ciò che era nuovo e sconosciuto. Gli piaceva vedere che cosa sarebbe successo. Esplorava, valutava. E poi distruggeva. Era mio da un’ora e mi era già costato mille dollari: cinquecento per comprarlo e cinquecento per riparare l’impianto dell’aria condizionata. Una cifra che, a quei tempi, era pari a circa un ventesimo del mio stipendio lordo annuo. Questo tipo di schema si sarebbe ripetuto, in modi spesso innovativi e fantasiosi, per tutti gli anni della nostra convivenza. I lupi non sono economici.
Perciò, se state pensando di acquistarne uno – o anche solo un incrocio lupo-cane –, la prima cosa che voglio dirvi è: non fatelo! Non fatelo mai, non pensateci neppure. I lupi non sono cani. Ma se persistete scioccamente in questa idea, allora devo avvertirvi che la vostra vita sta per cambiare per sempre.
Era il mio primo lavoro e lo facevo da un paio d’anni: assistente di filosofia all’università dell’Alabama, in una città che si chiama Tuscaloosa. Tuscaloosa è un termine degli indiani choctaw che significa «Guerriero nero» e la città è attraversata dall’imponente Black Warrior River, il «fiume del Guerriero nero». Tuscaloosa è nota soprattutto per la sua squadra universitaria di football, la Crimson Tide, che i membri della comunità locale sostengono con un fervore più che religioso, anche se non ci vanno leggeri neppure con la religione. Penso che sia giusto affermare che sono molto più sospettosi nei confronti della filosofia, e chi può biasimarli? La vita era piacevole. Mi divertivo fin troppo a Tuscaloosa. Ma ero cresciuto in compagnia dei cani – perlopiù cani grossi, come gli alani – e ne sentivo la mancanza. E così un pomeriggio mi trovai a leggere gli annunci economici del «Tuscaloosa News».
Per buona parte della loro relativamente giovane vita, gli Stati Uniti hanno perseguito una politica di sistematica eliminazione dei lupi: armi da fuoco, veleno, trappole, qualsiasi mezzo venisse ritenuto necessario. Il risultato è che non ci sono virtualmente più lupi selvatici in libertà nei quarantotto Stati continentali. Ora che questa politica è stata abbandonata, i lupi sono ricomparsi in alcune aree del Wyoming, del Montana, del Minnesota e in qualche isola dei Grandi Laghi: Isle Royale, al largo della costa settentrionale del Michigan è l’esempio più famoso, grazie soprattutto alle pionieristiche ricerche sui lupi ivi effettuate dal naturalista David Mech. Di recente, tra le vibranti proteste degli allevatori, sono stati reintrodotti lupi addirittura a Yellowstone, il più famoso parco naturale americano.
Questa rinascita della popolazione dei lupi, tuttavia, non ha ancora raggiunto l’Alabama o, in generale, gli Stati del Sud. Ci sono moltissimi coyote. E ci sono alcuni lupi rossi nelle paludi della Louisiana e del Texas orientale, anche se nessuno sa bene che cosa siano: potrebbero benissimo essere il risultato di una storica ibridazione lupo-coyote. Ma i lupi delle foreste, o lupi grigi come vengono a volte chiamati (non correttamente, dato che possono essere anche neri, bianchi e marroni), sono un ricordo remoto nel Sud degli Stati Uniti.
Perciò rimasi piuttosto sorpreso quando lo sguardo mi cadde su un particolare annuncio: «Vendonsi cuccioli di lupo, 96 per cento». Dopo una breve telefonata, saltai in auto e puntai verso Birmingham, un viaggio di circa un’ora in direzione nordest, non sapendo bene che cosa mi aspettassi da quella spedizione. E fu così che, poco dopo, mi ritrovai faccia a faccia e occhi negli occhi con il lupo più grosso di cui avessi mai sentito parlare, o che avessi mai visto. Il proprietario mi accompagnò sul retro della casa per mostrarmi la stalla e il recinto degli animali. Quando il lupo padre, che si chiamava Yukon, ci sentì arrivare balzò contro la porta della stalla, proprio mentre giungevamo lì davanti, dando l’impressione di essersi materializzato dal nulla.
Era enorme, imponente e, ritto sugli arti posteriori, un po’ più alto di me. Dovetti alzare lo sguardo per osservarne il muso e gli strani occhi gialli. Ma furono le sue zampe a rimanermi indelebilmente impresse nella memoria. La gente non si rende conto – di sicuro non me ne rendevo conto io – di quanto siano grandi le zampe dei lupi. Molto più di quelle dei cani. Furono le zampe ad annunciare l’arrivo di Yukon e la prima cosa che vidi quando saltò per sporgersi al di sopra della porta della stalla. E adesso pendevano dalla sommità della porta, molto più grandi dei miei pugni, come guanti da baseball pelosi.
C’è una domanda che la gente mi rivolge spesso, non su questo specifico episodio – è la prima volta che ne parlo con qualcuno –, ma in generale sul fatto di possedere un lupo: non hai mai paura di lui? La risposta, naturalmente, è no. Mi piacerebbe pensare che rispondo così perché sono una persona eccezionalmente coraggiosa, ma è un’ipotesi che non reggerebbe mai di fronte alla grande quantità di prove contrarie. Prima di salire su un aereo, per esempio, ho bisogno di farmi parecchi robusti bicchierini. Perciò, disgraziatamente, credo che l’attribuzione di un coraggio buono per tutte le occasioni non sia sostenibile. In presenza dei cani, però, sono molto rilassato. E ciò si deve in gran parte alla mia educazione: sono il prodotto disfunzionale di una famiglia piuttosto disfunzionale. Per fortuna, e per quello che posso dire, tale disfunzionalità era limitata alle nostre interazioni con i cani.
Quando avevo due o tre anni, facevamo un gioco con Boots, il nostro labrador. Boots si sdraiava e io mi sedevo a cavalcioni su di lui, afferrando il collare. A quel punto mio padre lo chiamava e Boots, che da giovane era veloce come un fulmine, in un istante scattava in piedi e si metteva a correre. Il mio compito, e lo scopo del gioco, consisteva nel rimanere aggrappato al suo collare e cavalcare sulla sua groppa. Non ci riuscivo mai. Era come se io fossi un set di piatti, posate e bicchieri sulla tavola apparecchiata e qualcuno mi strappasse la tovaglia da sotto. A volte la tecnica da mago canino di Boots era così precisa che mi ritrovavo, con lo sguardo confuso, seduto esattamente nel punto in cui lui un attimo prima se ne stava disteso. Altre volte Boots era un po’ meno preciso e io ruzzolavo a terra. Ma in quel gioco qualsiasi dolore fisico veniva trattato come la piccola seccatura che in effetti era e io mi rialzavo allegramente, supplicando di poterci riprovare ancora. Probabilmente oggi, nella nostra cultura cronicamente avversa al rischio e nevrotica al solo pensiero di fratture infantili, un gioco del genere non sarebbe possibile. Quasi certamente qualcuno telefonerebbe ai servizi sociali per l’infanzia, forse alla protezione animali, o magari a entrambi. Ma io so che detestai il giorno in cui mio padre mi disse che ero diventato troppo grosso e pesante per continuare quel gioco con Boots.
Se guardo al mio passato, mi rendo conto che in fatto di cani la mia famiglia, e di conseguenza io, non siamo del tutto normali. Spesso prendevamo alani dai canili pubblici. A volte erano animali adorabili, altre volte erano decisamente psicotici. Blue, un alano a cui con scarsa immaginazione era stato imposto – ma non da noi – quel nome a causa del suo colore, è un ottimo esempio a tal proposito. Blue aveva circa tre anni, quando i miei genitori lo salvarono. E non fu difficile capire perché si trovasse in un canile. Blue aveva un hobby: mordere in modo casuale e indiscriminato persone e altri animali. In realtà non è del tutto esatto: i morsi non erano affatto casuali o indiscriminati. Blue aveva – diciamo così – diverse idiosincrasie. Una era quella di non permettere a nessuno di uscire dalla stanza in cui si trovava lui. Se volevi andartene, doveva sempre esserci qualcuno che distraeva Blue. Naturalmente se questo qualcuno se ne fosse voluto andare, avrebbe avuto bisogno a propria volta di un’altra persona che distraesse l’alano. La grande ruota della vita di Blue girava così. Se ti dimenticavi di distrarlo adeguatamente prima di lasciare la stanza, il risultato era una cicatrice permanente nel posteriore. Chiedete a mio fratello Jon.
L’anomalia della mia famiglia si manifestava non solo nella disponibilità ad accettare le idiosincrasie di Blue, invece di spedirlo dal veterinario con un biglietto di sola andata, come avrebbe fatto qualsiasi famiglia normale, ma anche e soprattutto nel modo in cui consideravano questo aspetto abbastanza irritante della personalità dell’alano come fonte di grande ilarità, anzi, come un gioco piuttosto divertente. La maggior parte della gente probabilmente avrebbe pensato, a ragione, che Blue era un costante pericolo per gli arti e forse per la vita e che, tutto sommato, il mondo sarebbe stato migliore senza di lui. Ma ai miei familiari quel gioco piaceva. Credo che tutti loro abbiano ancora le cicatrici delle idiosincrasie di Blue, e non solo nel posteriore. Blue aveva anche altre idiosincrasie. Io fui l’unico a sfuggirgli, ma solo perché, quando lui entrò in scena, io ero già uscito di casa per frequentare l’università. In ogni caso le cicatrici erano viste non come motivo di compassione o preoccupazione, ma come occasioni di generali prese in giro e benevola derisione.
La pazzia, naturalmente, è una caratteristica di famiglia ed era forse troppo aspettarsi che io ne fossi esente. Qualche anno fa, in un paesino francese, mi trovai impegnato in un gioco quotidiano con una femmina di Dogo argentino che abitava vicino a casa mia. Il dogo è un cane bianco grande e possente, un po’ la versione sovradimensionata del pit bull, e in Gran Bretagna è stato messo al bando dalla legge sulle razze canine pericolose. Ogni volta che mi vedeva, la cucciola di dogo si fiondava eccitata contro la recinzione del suo giardino e si drizzava sulle zampe posteriori perché la accarezzassi. Crescendo, continuò a comportarsi nello stesso modo. Ma a un certo punto evidentemente decise che, tutto sommato, poteva essere una buona idea anche quella di mordermi. Per mia fortuna, i dogo sono grandi e grossi, ma non veloci. E neppure particolarmente intelligenti: potevo quasi vedere le rotelle che le giravano dentro la testa mentre valutava le possibilità e le conseguenze di un eventuale morso. E così tutti i giorni ripetevamo lo stesso gioco. Io passavo davanti al giardino, lei correva alla recinzione, io le davo qualche colpetto sulla testa e lei si godeva le coccole per alcuni secondi, annusandomi la mano e scodinzolando allegramente. Ma poi all’improvviso irrigidiva il corpo e contraeva la bocca. E poi scattava all’attacco. Se devo essere sincero, credo che i suoi fossero tentativi poco convinti. Io le piacevo abbastanza, ma lei si sentiva obbligata a mordermi a causa dei soggetti con cui mi accompagnavo (come vedremo, aveva buone ragioni per trovare poco simpatiche le mie frequentazioni, in particolare una di esse). Io ritraevo la mano con tempismo perfetto, lei richiudeva le fauci a vuoto e io la salutavo con un à plus tard, augurandole miglior fortuna per l’indomani. Non mi piace pensare che la stavo tormentando. Era solo un gioco e io ero davvero curioso di vedere quanto tempo ci sarebbe voluto prima che smettesse di cercare di mordermi. Non smise mai.
Comunque sia, non ho mai avuto paura dei cani. E questa confidenza si è estesa con naturalezza anche ai lupi. Salutai Yukon come avrei salutato un alano mai visto prima: in modo rilassato e amichevole, ma rispettando comunque le consuete regole. Yukon risultò non assomigliare affatto a Blue e neppure alla mia amica dogo. Era un lupo di buon carattere, fiducioso e amichevole. Ma i fraintendimenti possono verificarsi anche con gli animali migliori. La ragione più tipica per cui un cane morde – e sospetto che lo stesso valga per i lupi – è l’avere perso di vista la mano di chi gli si avvicina. Le persone allungano la mano oltre il muso del cane per dargli un colpetto nella zona posteriore della testa o sul collo. Perdendo di vista la mano, il cane si innervosisce, sospetta un possibile attacco e, di conseguenza, morde. È un morso dovuto alla paura, il tipo di morso più comune. Così permisi a Yukon di annusarmi la mano e gli feci qualche coccola sulla parte anteriore del collo e sul petto, finché non si abituò alla mia presenza. Andammo subito d’amore e d’accordo.
La madre di Brenin si chiamava Sitka, come un particolare tipo di abete rosso, credo. Era alta come Yukon, ma più slanciata e non certo così massiccia. Con il corpo lungo e snello, aveva più l’aria del lupo, perlomeno stando alle foto di lupi che avevo visto. Esistono numerose sottospecie di lupi. Sitka, mi venne detto, era un lupo della tundra dell’Alaska. Yukon, invece, era un lupo della valle del Mackenzie, nel Nordovest del Canada. Le loro diverse caratteristiche fisiche riflettevano l’appartenenza alle rispettive sottospecie.
Sitka era troppo occupata con i sei orsacchiotti che le scorrazzavano tra le zampe per dedicarmi molta attenzione. «Orsacchiotti» è il termine migliore che mi viene in mente per descrivere quelle sei creature: rotonde, morbide, pelose e prive di spigoli. Alcuni erano grigi e altri marroni, tre erano maschi e tre femmine. La mia intenzione originaria era quella di dare solo un’occhiata ai cuccioli e poi tornarmene a casa e riflettere attentamente e razionalmente sulla domanda se fossi davvero pronto ad assumermi la responsabilità di un lupo, e così via. Ma non appena vidi i cuccioli, capii subito che me ne sarei portato a casa uno. Quel giorno stesso. Anzi, mi sembrò di non essere abbastanza veloce a estrarre dalla tasca il libretto degli assegni. E quando l’allevatore mi informò che non accettava assegni, mi sembrò di non guidare abbastanza in fretta verso il più vicino bancomat per procurarmi i contanti.
Scegliere il cucciolo fu più facile di quanto avessi pensato. La cosa fondamentale era che volevo un maschio. Ce n’erano tre. Il più grosso dei maschi – in realtà il più grosso dell’intera cucciolata – era grigio e, intuivo, sarebbe diventato la copia esatta del padre. Sapevo abbastanza di cani da rendermi conto che sarebbe stato un animale problematico. Senza paura, energico, dominante sui fratelli e sulle sorelle, era chiaramente destinato a diventare il maschio alfa e avrebbe richiesto un supplemento di impegno e di controllo. Ripensai a Blue e, visto che quello sarebbe stato il mio primo lupo, decisi che la prudenza doveva superare il coraggio. Scelsi quindi il secondo cucciolo più grosso. Era marrone e il suo colore mi faceva pensare a un piccolo leone. Di conseguenza lo chiamai Brenin, che in gallese significa «re». Senza dubbio si sarebbe sentito mortificato, se avesse saputo che gli era stato dato un nome da felino.
Ma non aveva proprio niente del felino. Sembrava piuttosto uno di quei cuccioli di grizzly che si vedono su Discovery Channel mentre seguono la madre in giro per il Denali National Park in Alaska. All’età di sei settimane Brenin era marrone con una spruzzata di nero, ma con la pancia chiara, una pennellata color crema che partiva dalla punta della coda e arrivava fin sotto il muso. E, come un orsacchiotto, era massiccio: grosse zampe, grossa ossatura degli arti e grossa testa. Gli occhi erano di un giallo molto scuro, quasi color miele, una caratteristica che non cambiò mai. Non direi che fosse «socievole», almeno non nel senso in cui lo sono i cuccioli di cane. E non era, neppure con uno sforzo di immaginazione, entusiasta, esuberante o ansioso di piacere. Il suo tratto comportamentale dominante era invece il sospetto, anche questa una caratteristica che non sarebbe mai cambiata: tranne che nei miei confronti.
È strano. Ricordo tutti questi particolari su Brenin, Yukon e Sitka. Ricordo di avere sollevato Brenin all’altezza del mio viso e di averlo guardato in quei suoi occhi gialli. Ricordo la sensazione fisica che mi diede, con la sua soffice pelliccia di cucciolo, mentre lo tenevo tra le mani. Vedo ancora chiaramente Yukon che, ritto sugli arti posteriori, mi fissa, lasciando dondolare le grandi zampe dalla sommità della porta della stalla. Vedo i fratelli e le sorelle di Brenin che scorrazzano nel recinto, ruzzolano l’uno sull’altro e si rialzano allegri. Dell’uomo che mi ha venduto Brenin, invece, non riesco a ricordare praticamente nulla. Era già iniziato un processo che si sarebbe accentuato con il trascorrere degli anni: stavo cominciando a far passare in secondo piano gli esseri umani. Un lupo assume il controllo della tua vita in un modo che un cane raramente riesce a fare. E a poco a poco la compagnia degli uomini diventa sempre meno importante. Ricordo i dettagli di Brenin, dei suoi genitori e dei suoi fratelli: che aspetto avevano, che sensazione fisica davano, che cosa facevano, i versi che emettevano. Riesco perfino a ricordare il loro odore. I minimi particolari, in tutta la loro vivacità, complessità e ricchezza, sono ancor oggi chiari nella mia mente come lo erano allora. Del proprietario dei lupi, invece, ricordo solo i tratti generici, l’essenziale. Rammento la sua storia – almeno credo –, ma non ricordo l’uomo.
Si era trasferito in Alabama dall’Alaska, portando con sé una coppia di lupi da riproduzione. Tuttavia è contro la legge – non so bene se statale o federale – acquistare, vendere o possedere lupi purosangue. È permesso acquistare, vendere e possedere incroci lupo-cane e per legge la più alta percentuale di lupo consentita, rispetto al cane, è il 96 per cento. L’allevatore mi assicurò che a tutti gli effetti erano lupi, non incroci lupo-cane. Dato che fino a poche ore prima non avevo neppure avuto idea di poter possedere un lupo-cane, in realtà non me ne importava. Gli diedi i cinquecento dollari che avevo prelevato al bancomat, in pratica quasi svuotando il mio conto corrente, e portai Brenin a casa quel pomeriggio stesso. Dopodiché lui e io cominciammo a definire i termini del nostro rapporto.
Dopo l’iniziale impeto distruttivo, che durò circa quindici minuti, Brenin cadde in una profonda depressione. Si rintanò sotto la mia scrivania e si rifiutò di uscire e di mangiare. La cosa durò un paio di giorni. Pensai che si sentisse distrutto dalla perdita dei fratelli e delle sorelle. Mi dispiaceva tantissimo per lui e mi sentivo molto in colpa. Avrei voluto potergli comprare un fratello o una sorella perché gli tenesse compagnia, ma semplicemente non avevo i soldi. Nel giro di due o tre giorni, comunque, l’umore di Brenin cominciò a migliorare. E fu allora che la prima regola del nostro reciproco accordo divenne chiara, anzi molto chiara. La regola era che Brenin non doveva mai, in nessuna circostanza e per nessuna ragione, essere lasciato da solo in casa. Qualunque deroga a questa regola comportava conseguenze terribili per la casa e per il suo contenuto. Il destino toccato alle tende e ai tubi dell’aria condizionata era solo un modesto assaggio delle reali capacità di Brenin al riguardo. Le suddette conseguenze includevano la distruzione di tutto il mobilio e dei tappeti, per i quali, in particolare, era prevista anche l’opzione dell’insozzamento. Ho imparato che i lupi si annoiano molto, molto in fretta: trenta secondi da soli in genere sono fin troppi. Quando si annoiava, Brenin masticava cose o ci faceva la pipì sopra, oppure le masticava e poi ci faceva la pipì sopra. Molto raramente, arrivava perfino a fare la pipì sugli oggetti per poi masticarli, ma credo che questo succedesse perché, in preda all’eccitazione, non si ricordava più a che punto era arrivato nella sequenza delle operazioni. In ogni caso la conclusione era che, ovunque io andassi, Brenin doveva venire con me.
Naturalmente la regola del «dove vai tu, vengo anch’io», quando l’«io» in questione è un lupo, preclude quasi tutte le attività remunerative. Questa è solo una delle tante ragioni per non diventare mai proprietari di un lupo. Io però ero fortunato. Tanto per cominciare, facevo il professore universitario e non dovevo comunque presentarmi al lavoro molto spesso. Inoltre Brenin arrivò durante la pausa estiva universitaria di tre mesi, per cui in realtà al lavoro non dovevo andarci per niente. Ebbi quindi tutto il tempo per rendermi adeguatamente conto della grandissima passione di Brenin per la distruzione e per prepararlo a venire al lavoro con me, vist...