I
Silenzio di specchio, odore di cera ai pavimenti, fresca lindura di tendine di mussola alle finestre: da undici anni così, la casa della signora Léuca. Ma ora s’è fatta nelle stanze come una strana sordità.
Possibile che la signora Léuca abbia acconsentito che dopo undici anni di separazione il marito torni a convivere con lei?
Fa dispetto che la pendola grande della sala da pranzo faccia udire in questa sordità, così distintamente in tutte le stanze, il suo tic e tac lento e staccato, come se il tempo possa seguitare a scorrere ormai placido e uguale come prima.
Nel salottino (che ha l’impiantito sensibilissimo) fu jeri un tintinnare d’oggettini di vetro e d’argento, quasi che le gocciole dei candelabri dorati sulla mensola e i bicchierini della rosoliera sul tavolino da tè avessero brividi di paura e fremiti d’indignazione alla fine della visita dell’avvocato Aricò che la signora Léuca chiama con le amiche «grillo vecchio»; dopo aver perorato e perorato quell’avvocato se n’era andato, badando a ripetere fino all’ultimo:
– Eh, la vita... la vita...
E si stringeva nelle spallucce, socchiudendo i grossi occhi ovati nel visetto olivigno, e stirava penosamente il magro collo per spingere su e su, dall’angustia delle spalle così ristrette, la punta del piccolo mento aguzzo.
Credevano tutti quegli oggettini di vetro e d’argento che la signora Léuca, lì, alta e dritta, e così fresca, così bianca e rosea, con le piccole lenti in cima al naso affilato, di fronte a quel cosino verde e nero che si storceva tutto per licenziarsi ancora una volta ripetendo sulla soglia dell’uscio: – La vita... la vita... – dovesse almeno negar col capo o alzar la mano in segno di protesta. La vita? Eh già, proprio quella, la vita: una vergogna da non potersi nemmeno confessare; una miseria da compatire così, stringendo le spalle e socchiudendo gli occhi, o spingendo su su il mento come fosse anche un ben duro e amaro boccone da ingozzare. E che cos’era allora questa che da undici anni lei, la signora Léuca, viveva qua, in questa sua casa monda e schiva, con le discrete visite di tanto in tanto delle sue buone amiche del patronato di beneficenza e del dotto parroco di Sant’Agnese e di quel bravo signor Ildebrando l’organista?
Non era vita questa che si godeva qua nella santa pace inalterabile, qua in tanta lindura d’ordine, in questo silenzio, tra il tic e tac lento e staccato della pendola grande che batte le ore e le mezz’ore con un suono languido e blando entro la cassa di vetro?
II
Alla parrocchia di Sant’Agnese è corsa a dar l’allarme come una colomba spaventata la vecchia signorina Trecke del patronato di beneficenza.
– La signora Léuca, la signora Léuca, col marito...
Lo spavento è divenuto stupore e lo stupore s’è poi liquefatto in un sorriso vano della bianca bocca sdentata davanti al placido assentimento del capo con cui il parroco ha accolto la notizia già nota.
Lunga di gambe, corta di vita e con la schiena ad arco, ancora biondissima a sessantasei anni, la signorina Trecke, mezzo russa, mezzo tedesca, ma più russa forse che tedesca, convertita dalla buon’anima di suo cognato al cattolicesimo e zelantissima, ha conservato nel viso pallido e flaccido gli azzurrini occhi primaverili dei suoi diciott’anni, come due chiari laghi che tra la desolazione s’ostinino a riflettere i cieli innocenti e ridenti della sua giovinezza. Eppure molti nuvoloni tempestosi sono passati da allora a offuscarli tante volte. Ma persiste a fingere di non averne mai saputo nulla la signorina Trecke; e così, la sua bontà, che pure è vera, assume spesso apparenze d’ipocrisia. Non vuole che l’amarezza delle tristi esperienze insidii e corroda la saldezza della nuova fede, e preferisce manifestare la sua bontà come affatto ingenua e inesperta, vale a dire come proprio non è. E questo provoca tanta stizza in chi le vuol bene, perché non si capisce come lei non riconosca quanto più merito avrebbe della sua bontà se la manifestasse come superstite sperimentata e vittoriosa di tutte le tristezze della vita.
Liquefatta in quel sorriso vano, comincia a domandare con una compunta maraviglia se il signor Marco Léuca, marito della signora Léuca, è dunque veramente degno di perdono, cosa che lei non ha mai immaginato perché – saranno forse calunnie, dato che il signor parroco approva la riconciliazione – ma non ha tre figli, tre, tre femminucce, questo signor Léuca, con una... come si dice? sì, con un’altra donna? E allora come... che farà adesso? le abbandonerà per riconciliarsi con la moglie? Ah no? E che allora? Due case? Qua la moglie, e là quell’altra con le tre, sì, come si dice?, figliuole naturali?
– Ma no, ma no, – si prova a rassicurarla il parroco con la consueta placidità soffusa di mite aria protettrice.
(Ci sono le catacombe a Sant’Agnese e anche la chiesa sotterranea, cupa e solenne; ma poi la casa parrocchiale è in mezzo a un verde così dolce e chiaro e con tanto aperto davanti e tanta aria e tanto sole; e si vede negli occhi limpidi del parroco e si sente nella calda voce di lui il bene che fanno, non pure al corpo, anche all’anima.)
– No, cara signorina Trecke. Niente due case, niente abbandono; e neppure una vera e propria riconciliazione: avremo, se Dio vorrà, un semplice amichevole riavvicinamento, qualche visitina di tanto in tanto, e basterà così. Per un po’ di conforto.
– A lui?
– Ma sì, a lui. Un po’ di sollievo alla colpa che pesa; il balsamo d’una buona parola al rimorso che punge. Non ha chiesto altro, e la nostra eccellente signora Léuca non avrebbe potuto del resto accordargli altro. Stia tranquilla.
Le posa come fossero cose, le parole, il signor parroco: cose pulite e levigate – là – là – là – bei vasetti di porcellana sul tavolino che gli sta davanti, ciascuno con un fiorellino di carta, di quelli con lo stelo di fil di ferro ricoperto di carta velina verde, che fanno un così grazioso effetto e costano poco. Ma bisognerebbe consigliare a quel bravo signor Ildebrando, l’organista che fa anche da segretario al signor parroco, di non approvarle tanto con quei melliflui sorrisi e quelle mossettine del capo. Se ne sente finir lo stomaco quella brava signorina Trecke.
Il signor Ildebrando non ha saputo mai perdonare ai suoi genitori, morti da tanto tempo, d’avergli imposto un nome così sonoro e compromettente, il più improprio di tutti i nomi che avrebbero potuto imporgli, non solo al suo corpicciuolo gracile, fievole, ma anche alla sua indole, al suo animo. Non ha mai potuto soffrire il signor Ildebrando quegli omacci sanguigni e prepotenti che han bisogno di far fracasso, gettar certe occhiatacce, prender certe pose con le mani sul petto: ci sono io, ci sono io; non ha mai voluto esserci per nulla, lui; ha cercato sempre di restare in ombra, tepido appena appena, insipido e scolorito. Gli pare che la signorina Trecke, così scolorita anche lei, dovrebbe far come lui, e invece, ecco che vuol mettersi in mezzo, immischiarsi in ciò che non la riguarda; ecco che, a proposito di quel signor Marco Léuca, domanda al signor parroco:
– E allora, potrei anche invitarlo a cena a casa mia?
Il parroco casca dalle nuvole:
– Ma no! Che c’entra lei, signorina Trecke?
E questa stiracchiando il vano sorriso della bocca bianca:
– Eh, se se ne deve aver pietà... Mia nipote dice di conoscerlo.
Il parroco la guarda severamente:
– Lei farebbe bene, cara signorina, a sorvegliare un po’ la sua nipote.
– Io? E come potrei, signor parroco? Non capisco proprio nulla io; e gliene sto dando ora stesso la prova. Proprio nulla, proprio nulla...
E così dicendo, apre le braccia e s’inchina per andar via, ancora con quel sorriso sulle labbra e gli occhi infantili velati di pena per quest’incorreggibile ignoranza che sempre, Dio mio, la affliggerà.
III
Tre giorni dopo, il signor Marco Léuca, accompagnato dall’avvocatino Aricò, fece la sua prima visita alla moglie.
Tutto arruffato, arrozzito, malandato, irto di commozione, fu, tra quella specchiante lindura di casa, per quei mobiletti gracili, nitidi del salottino, gelosi della loro castità, uno sbalordimento d’angosciosa trepidazione.
Cinque minuti senza poter parlare, ad arrangolare come una bestia ferita, con un tremore spaventoso di tutto il corpo. E che terrore poi, che balzo, che scompiglio, quando, non potendo parlare, quasi afferrato e costretto dalla disperazione, si buttò a terra sui ginocchi davanti alla moglie, su quell’impiantito sensibilissimo. La signora Léuca, che stentava ancora a riconoscerlo, così cangiato, così arrozzito e invecchiato dopo undici anni, avrebbe voluto accostarsi per sollevarlo da terra, ma non riusciva a vincere il ribrezzo e lo spavento, e si tirava indietro, invece, per non vederselo così davanti in ginocchio, e gemeva:
– Ma no... Dio, no!
Le toccò ripeterla più volte quest’esclamazione e fu quasi tentata di scapparsene di là a un certo punto, quando parve che lui e l’Aricò si volessero azzuffare. L’Aricò l’aveva investito irritatissimo gridandogli di non far scenate, d’alzarsi e star tranquillo e composto; e lui l’aveva respinto con una furiosa bracciata per mostrarsi a lei in tutta la sua disperazione e abiezione; voleva alzare la faccia disfatta da terra e guardarla, e non poteva; e restava lì, Dio, restava lì, certo con la vergogna, ora, del suo atto teatrale mancato, che pur avrebbe voluto sostenere fino all’ultimo perché vi era stato trascinato dalla foga d’un sentimento sincero, dalla speranza forse che lei se ne sarebbe lasciata commuovere, intenerire fino a posargli la mano sui capelli in atto di perdono, non per carezza.
Dio mio, ma poteva far questo la signora Léuca? Avrebbe dovuto capirlo, che non poteva. Commiserazione, sì, compatimento può aver per lui, carità, come per tutti quei disgraziati che al pari di lui sentono la vita come una fame che insudicia e non si sazia mai.
– La vita!
Così, ecco, come lui l’ha scritta in faccia, con una violenza che comincia a rilassarsi sguajatamente. Che brutto segno, quel labbro inferiore che gli pende bestialmente e quelle borse nere intorno agli occhi torbidi e addogliati. Ma verrà qui ora, di tanto in tanto – ecco, sì, come dice l’avvocato – per respirare un po’ di pace, per ristoro dello spirito, ora che i capelli si son fatti grigi – lei li ha già tutti bianchi – e risentire la dolcezza della casa, benché...
– Benché?
– La dolcezza della casa, lei dice, avvocato?
La signora Léuca sa bene che non ha più nessuna dolcezza la sua casa; solo una gran quiete. Ma quella quiete poi... No, non dice che le pesi; dice anzi che n’è contenta, la signora Léuca: legge, lavora per sé e per i poveri, va in questua con le amiche del patronato di beneficenza, va in chiesa, esce anche spesso per compere o per andare dalla sarta (ché ancora le piace vestir bene), va quando deve dall’avvocato Aricò che ha cura dei suoi affari, e insomma non sta in ozio un momento. È contenta così, certo, poiché Dio non volle che fosse contenta altrimenti, che la sua vita cioè avesse altri più intimi affetti. Ma c’è pur questo silenzio che a volte, tra un punto e l’altro della maglietta di lana per una bimba povera del quartiere, o tra un rigo e l’altro del libro che sta leggendo, pare sprofondi tutt’a un tratto nel tempo senza fine e vi renda vani, o piuttosto, sconsolati ogni pensiero, ogni opera. Gli occhi si fissano su un oggetto della stanza e, per quanto lì da tanto tempo e familiare, quell’oggetto è come se non l’abbiano mai veduto, o come se tutt’a un tratto si sia votato d’ogni senso. E sorge un rimpianto: no, di nulla più ormai, ma di quello che non ha avuto, che non ha potuto avere; e una certa pena anche, non pena più veramente, un certo senso di disgusto che si fa quasi stizza dentro, per l’inganno che il suo stesso cuore un tempo le fece, di potere esser lieta, anzi felice, sposando un uomo che... – un uomo, insomma. Non sa più nemmeno disprezzarlo, ormai, la signora Léuca.
– La vita...
Pare che debba esser così. Questo, ecco, il disgusto. Non come il suo cuore, da giovinetta, la sognò; ma questa miseria che (forse è peccato dirlo) ad accostarcisi, pare debba proprio insudiciare; da compiangere fors’anche, certo anzi da compiangere, perché ogni piacere è poi pagato a prezzo di lagrime e di sangue. Ma non è facile.
Per rispondere al signor parroco che le ha domandato: – Ma chi le ha detto, in nome di Dio, che la carità debba esser facile? – lei s’è lasciata persuadere a ricevere il marito di tanto in tanto, per una breve visita, ora che il disprezzo di prima s’è cangiato in questa commiserazione, che non è propriamente per lui soltanto, ma per tutti quei disgraziati che sentono la vita come lui.
Ha riconosciuto la signora Léuca che molte delle opere di carità a cui attende sono anche un modo per lei di passare il tempo; fa, è vero, più di quanto potrebbe; si stanca a salire e scendere tante scale e vince spesso con la volontà la stanchezza degli occhi e delle mani nel lavorare per i poveri fino a tarda notte; dà poi in beneficenza gran parte delle sue rendite, privandosi di cose che per lei non sarebbero al tutto superflue; ma un vero e proprio sacrifizio non può dire che l’abbia mai fatto, come sarebbe vincere quel disgusto, quel certo orrore che nasce dalla propria carne al pensiero d’un contatto insoffribile, o rischiar di rompere quell’armonia di vita raccolta in tanta lindura d’ordine. Ha paura che non potrà mai farlo. Nascono pure in lei gli stessi sentimenti che in tutti gli altri; ma mentre gli altri vi s’abbandonano cecamente, lei, appena sorti, li avverte e, se buoni, li accompagna come s’accompagna un bambino per mano. Ha troppo attento lo spirito; ha troppo vissuto in silenzio. La vita le si è quasi diradata fino al punto che le relazioni tra lei e le cose più consuete non hanno più talvolta nessuna certezza, e le avviene allora di scoprire di quelle cose tutt’a un tratto aspetti nuovi e strani che la turbano, come se d’improvviso e per un attimo lei penetrasse in un’altra insospettata realtà che le cose abbiano per sé, nascosta, oltre quella che comunemente ...