L'olio di Lorenzo
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L'olio di Lorenzo

Una storia d'amore

  1. 108 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'olio di Lorenzo

Una storia d'amore

Informazioni su questo libro

Certe storie sembrano nate apposta per dimostrarci, per suggerirci, che anche quando tutto sembra perduto, se si lotta con tenacia e con amore, ce la si può fare. Che il male è invincibile solo finché non si riesce a sconfiggerlo. E che i miracoli succedono davvero. Augusto, italiano giramondo, funzionario della Banca Mondiale, era sposato con Michaela, americana dai capelli biondo-rossi. Il loro figlio Lorenzo cresceva bello e intelligente fra l'Africa e gli Stati Uniti, la vita era una cosa meravigliosa. A sei anni però Lorenzo inizia a mostrare degli strani sintomi: è aggressivo con gli altri bambini, non riesce a tenersi in equilibrio sulla bicicletta, non sente bene quando la madre gli legge le favole. La diagnosi dei medici non lascia scampo: "Adrenoleucodistrofia... un disordine neurologico... la progressione è molto rapida... non sopravvivono per più di due anni... mi dispiace, nessuna cura". Ma Augusto e Michaela non si rassegnano, non si arrendono. Decidono di sfidare la medicina ufficiale e il pensiero comune. Lui non sa niente di biologia, ma si inventa ricercatore. Contatta tutti gli esperti mondiali, passa i giorni e le notti in biblioteca a studiare. Poi l'illuminazione, la scoperta: un derivato dell'olio d'oliva in grado di bloccare la malattia del figlio, e di salvare tutti gli altri bambini a cui viene diagnosticata. I giornali di tutto il mondo parlano del miracolo dell'Olio di Lorenzo, e Hollywood gli dedica un grande film con Susan Sarandon e Nick Nolte. Adesso che Michaela è morta, che anche Lorenzo se n'è andato (più di vent'anni dopo la previsione dei medici), Augusto è tornato nella sua Italia e ha deciso di raccontare tutta la sua storia. Con la forza e l'incisività di cui è capace. Senza retorica, che lui non è il tipo, e in certi casi comunque non ce n'è bisogno.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804611080
eBook ISBN
9788852019210

2

Discesa all’inferno

Il mostro al lavoro
L’appartamento in cui avevamo trascorso il primo anno del nostro matrimonio, e che Michaela era riuscita ad affittare prima che partissimo per l’Africa, si trovava al quinto piano di un tranquillo edificio a Tunlow Road, una via ai margini del centralissimo quartiere di Georgetown. Non era grande, ma era pieno di luce e una delle finestre inquadrava la cattedrale della città. Dopo il nostro ritorno negli Stati Uniti, ci rendemmo presto conto che non era più adatto a noi e decidemmo di acquistare una casetta nel distretto di Chevy Chase nel Maryland: una tipica casa americana su due piani, con un piccolo giardino sul davanti. Il trasferimento dalle Comore a Washington aveva rappresentato un brusco cambiamento, soprattutto per Lorenzo, abituato a giocare all’aria aperta, davanti al mare. Da qualche tempo infatti era agitato, come se non volesse rassegnarsi al fatto che adesso la sua casa era Washington. Dal giorno del nostro rientro, ci aveva chiesto in un paio d’occasioni: «Ma quando torniamo a casa?».
Gli mancava il contatto con la natura, con gli animali. Per Lorenzo, quel mondo popolato di simpatici amici selvatici era diventato ormai familiare. Un giorno andammo al cinema a vedere Il libro della giungla. Uno degli animali protagonisti del cartone animato era l’orso Baloo che, attaccato da Shere Khan (la tigre acerrima nemica di Mowgli), cade a terra. I bambini nel cinema scoppiarono a piangere e Lorenzo, che conosceva la storia, si alzò in piedi gridando: «Baloo non è morto, sta facendo finta!».
E i bambini si calmarono.
Baloo non era l’unico personaggio che Lorenzo amava di quel cartone animato. Era affezionato anche a Bagheera. Ricordo che coniai una frase che sarebbe tornata spesso nelle mie conversazioni con Michaela e Lorenzo: “Bagheera, la nera pantera”.
A settembre Michaela iniziò a notare che Lorenzo pronunciava male alcune parole. La cosa era strana, poiché fin da piccolissimo aveva sempre parlato con una dizione impeccabile. Gli amici ci consigliavano di lasciarlo tranquillo: “Il bambino si sta americanizzando” dicevano.
A novembre, dalla scuola ci fecero sapere che aveva dei problemi. Era distratto, non collaborava ed era aggressivo con gli altri bambini. Spesso interveniva in malo modo nei giochi dei compagni. Non era il Lorenzo che noi conoscevamo.
Usarono una parola che ci sorprese: è iperattivo. Michaela non era molto convinta della spiegazione, sebbene Lorenzino mostrasse sintomi compatibili con lo stress, episodi di dislessia e improvvisi scatti d’ira. Michaela ne discusse a lungo con la direttrice della scuola, ma non prese mai in seria considerazione quell’ipotesi.
Per il Natale del 1983, vivevamo ancora a Tunlow Road, venne a farci visita mio figlio Francesco. Fu lui a notare per la prima volta che Lorenzo faceva fatica a stare in equilibrio sulla bici. Lo sorvegliò per qualche giorno, pronto a sorreggerlo, e infatti uno di quei pomeriggi il suo fratellino cadde e si mise a piangere. Francesco lo prese in braccio per consolarlo. Ancora una volta non ci facemmo molto caso, poteva essere la normale instabilità di un bambino che sta imparando ad andare in bicicletta. Passò il Natale, e di tanto in tanto notavo qualche segnale che non riuscivo a interpretare. Una sera stavamo facendo un puzzle e Lorenzo stentava a collocare i tasselli nei posti giusti. Una settimana dopo cadde di nuovo, questa volta sul tappeto della sua stanza. Michaela decise di sottoporlo a una TAC, ma il risultato non mostrò alcuna anomalia.
Iscrivemmo Lorenzo in un nuovo istituto, che seguiva il metodo Montessori. Michaela chiese alle maestre di prestare particolare attenzione al bambino: dopo qualche giorno ci confermarono che Lorenzo aveva difficoltà nell’ascolto, come se il suo cervello facesse fatica a interpretare i suoni che gli arrivavano.
Per noi era difficile accettarlo: com’era possibile che prima dei cinque anni Lorenzo avesse imparato a parlare tre lingue, si fosse appassionato di musica e avesse sempre dimostrato un’attenzione spiccata verso ogni cosa, e improvvisamente non fosse più in grado di registrare quello che gli accadeva intorno? Decidemmo quindi di prenotare un esame dell’udito da un otorinolaringoiatra. Qualche giorno prima dell’appuntamento Lorenzo ebbe un attacco violento di vomito e diarrea. Michaela era perplessa: neanche alle Comore nostro figlio aveva mai avuto una crisi del genere.
Un giorno mentre gli stava leggendo una favola, lui la interruppe implorandola: «Per piacere mamma, parla più forte, non riesco a sentirti». Michaela mi telefonò in ufficio e io mi precipitai a casa. Consultammo un otorinolaringoiatra che sottopose Lorenzino a vari esami dell’udito. I test rivelarono un deficit dell’udito di 50 decibel, un calo consistente, ma la notizia principale non era quella: l’apparato uditivo esterno di Lorenzo non presentava alcun difetto. Dunque, ci dissero i medici, il problema poteva riguardare il cervello, che non era più in grado di trasmettere i giusti comandi all’udito. La strada era una sola: rivolgersi a un neurologo. Facemmo qualche ricerca, chiedemmo consigli e poi arrivammo a un nome.
Donald Fishman era uno dei neurologi più conosciuti di Washington. Aveva lo studio all’ottavo piano di un palazzo su Wisconsin Avenue, una delle principali vie della capitale. Mi colpirono subito il suo abbigliamento estremamente formale e la sua espressione severa. Non era un tipo di molte parole ma mi diede l’impressione di essere un medico scrupoloso. Ascoltò attentamente il nostro racconto e poi incrociò le mani su un libro aperto sopra la scrivania perfettamente in ordine.
«Consiglio di ricoverare Lorenzo al Children’s Hospital per una serie di esami approfonditi, se siete d’accordo.»
Eravamo d’accordo. Fishman aggiunse che non era il caso di allarmarsi, che bisognava fare un passo alla volta. Mentre diceva quelle parole, mi sarei aspettato un cambiamento nell’espressione del suo viso, ma Fishman ci guardava con lo stesso sguardo cupo.
Nei giorni seguenti accompagnò personalmente il ricovero di Lorenzo all’ospedale pediatrico e diede indicazioni precise sugli esami da effettuare.
Nel frattempo, anche noi cercavamo di capirci qualcosa. Pensai che il bambino poteva aver contratto una malattia tropicale nelle isole Comore. Mi rivolsi al mio amico Mario Alessi, il quale mi suggerì di interpellare un suo conoscente, uno dei direttori generali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in Svizzera, specializzato in malattie tropicali. Lo chiamai e gli descrissi i sintomi che mostrava Lorenzo; lui escluse categoricamente che si trattasse di una malattia di questo tipo.
Due giorni dopo, in clinica, Fishman fece la sua comparsa sulla soglia della stanza di Lorenzo e ci pregò di seguirlo nel suo studio: voleva parlarci.
Sono passati molti anni da allora, eppure ricordo nei minimi dettagli quella scena, come fosse accaduta ieri: la stanzetta piccola e senza finestre, la luce fioca, il ronzio del condizionatore, il volto di Fishman, che tradiva quello che ci avrebbe detto qualche istante dopo.
«Cercherò di essere chiaro e non perdermi in giri di parole. Le mie previsioni sono state purtroppo confermate. Vostro figlio Lorenzo è affetto da adrenoleucodistrofia, o ALD
«Cosa significa che le sue previsioni sono state purtroppo confermate?» domandai dando una rapida occhiata a Michaela.
«È così» rispose Fishman con un sospiro, abbassando le spalle come in segno di resa. «Quando l’altro giorno mi avete descritto i sintomi del piccolo Lorenzo ho pensato immediatamente potesse trattarsi di ALD. Questo non perché sia una malattia molto diffusa, al contrario, è rarissima. In tutti gli Stati Uniti i casi non raggiungono il migliaio.»
«E perché allora?»
«Proprio recentemente mi è capitato di leggere un articolo sulla sindrome e, dopo avervi incontrati, ho approfondito la questione. Non ho voluto dirvi niente al primo incontro perché, data la rarità della malattia, ho preferito prima concentrare le ricerche sulle altre possibilità. Ma avevo ragione: purtroppo si tratta proprio di ALD
Seguì un breve silenzio, dopo di che Fishman ci disse che per quella malattia non esistevano cure. Senza eccezioni.
«È irreversibile e, nella forma infantile, la progressione è molto rapida. Lorenzo smetterà di camminare, di parlare, di sentire, di mangiare normalmente... E poi, in due o tre anni al massimo, morirà.»
La cosa era talmente incredibile, che fu quasi come se non avesse parlato.
Gli chiedemmo ancora una volta se non c’era proprio nulla che potessimo fare: non era possibile che lì, in quella stanzetta anonima, con quel tono di voce monocorde, quell’uomo ci stesse comunicando la sentenza di morte del nostro tesoro, di Lorenzino, che un mese dopo avrebbe compiuto sei anni.
«Quello che vi consiglio di fare» concluse il dottore «è di portare a casa Lorenzo e dargli tutto il conforto e le cure migliori per il tempo che gli resta di vivere.»
Eravamo di fronte all’abisso, alla disperazione più assoluta, a qualcosa di talmente grande, di talmente impensabile che la mia prima reazione alle parole di Fishman e il sentimento che mi accompagnò nelle ore successive furono di totale incredulità.
Io stavo già pensando alla mossa successiva, ancora prima di lasciare il perimetro dell’ospedale. Fermai un medico nel reparto di Fishman.
«Scusi» dissi «mi può dire dove potrei trovare notizie sulla adrenoleucodistrofia? Vorrei saperne di più...»
Il dottore mi guardò da sopra gli occhiali. «Può provare in una biblioteca medica. Ma guardi che si tratta di una malattia molto rara. Le consiglio di lasciar perdere.»
«Perché?»
«Sono testi scientifici molto difficili, dubito che riuscirà a capirne qualcosa...»
Anche Michaela era già entrata in azione: da un telefono a gettone stava chiamando la sua famiglia, gli amici. «Pregate» diceva loro «andate nelle vostre chiese e pregate.»
Qualche ora dopo si sarebbe attaccata al telefono anche a casa chiamando gli amici delle Comore, che erano quasi tutti musulmani: diceva loro di raggiungere le moschee e pregare, pregare per Lorenzo.
La sindrome di Achab
Hugo Moser era nato a Berna nel 1924. Suo padre era un ebreo commerciante di opere d’arte nella Berlino d’ante guerra. Per sfuggire ai nazisti la famiglia si era rifugiata prima in Olanda, poi era scappata in America dopo un viaggio rocambolesco attraverso l’Italia, la Spagna e infine Cuba. Parte della famiglia Moser non era riuscita a fuggire e morì nei campi hitleriani, mentre Hugo e i genitori si stabilirono a Baltimora. Hugo scelse la Medicina e durante gli studi partì volontario per la guerra di Corea, dove restò per due anni. Tornato negli USA, completò gli studi ad Harvard in Biochimica, specializzandosi nella chimica dei lipidi, vale a dire dei grassi, quindi si orientò verso la Neurologia, o meglio la Neurochimica, una branca ancora più specialistica. Durante gli anni universitari conobbe una giovane scienziata di nome Ann Boody, che sarebbe poi diventata sua moglie e sodale di studi. Lavorò presso il Massachusetts General Hospital e nel 1964 stabilì il suo quartier generale all’ospedale Joseph P. Kennedy di Baltimora, dedicandosi anche all’insegnamento presso la Johns Hopkins University. Nel 1976 divenne presidente del Kennedy Krieger Institute dove formò uno staff di specialisti e approfondì la ricerca sulle leucodistrofie, argomento di cui divenne uno dei maggiori esperti al mondo.
Proprio al Kennedy di Baltimora, nell’aprile del 1984, il professor Hugo Moser ricevette la mia telefonata. Prendemmo appuntamento e qualche giorno dopo ci mettemmo in viaggio. Fortunatamente l’ospedale distava solo un’ora da casa: da quando aveva cominciato a stare male, Lorenzo detestava i tragitti in macchina.
Dopo la sentenza di morte pronunciata dal dottor Fishman non solo eravamo alla ricerca di un secondo parere, ma volevamo una prova del nove, un termine di riscontro oggettivo di quanto il medico ci aveva annunciato.
Lo studio di Hugo Moser occupava una stanza all’ultimo piano del Kennedy Institute. Dalle sue finestre si scorgeva una vista magnifica sul porto della città. Lui esordì con un’espressione poco felice.
«Non trovate che sia una bella giornata?» Poi, notando l’espressione triste sul volto di Michaela, si corresse: «No davvero».
Moser era un uomo di bell’aspetto; nel suo inglese e nei suoi modi trasparivano i segni delle sue origini “vecchia Europa”, che gli conferivano un carisma particolare.
Ci confermò che l’adrenoleucodistrofia è una rarissima malattia del metabolismo, che conduce a una progressiva demielinizzazione del sistema nervoso centrale, vale a dire del cervello oppure del midollo spinale, e a una insufficienza delle ghiandole surrenali che può causare a sua volta crisi di grave entità.
Subito domandai: «Perché succede?».
«È un difetto del metabolismo nel processo di ossidazione degli acidi grassi a lunga catena, chiamati anche, dalla loro sigla inglese, VLCFA. Cosa sono? Sono acidi fondamentali alla nostra vita e presenti in molti cibi (grassi animali o vegetali); in quanto lipidi, sono insolubili: la mancata ossidazione provoca il loro accumulo nel sangue e nei tessuti. Questo accumulo è il nostro killer. E chi è la vittima? La vittima è la mielina; vale a dire la guaina protettiva del sistema nervoso. Se tu distruggi la mielina lasci il sistema nervoso scoperto, il che equivale alla sua progressiva distruzione.»
«Va bene» dissi, però pensai: “Non abbiamo ancora fatto la domanda più importante”. «Come si prende questa malattia?»
Moser esitò un istante, e posò il suo sguardo prima su di me quindi su Michaela.
«Dalla madre» disse.
Noi restammo in silenzio, straniti. Moser proseguì senza lasciarci tempo di dire nulla. «Nella maggioranza dei casi, l’ALD è trasmessa attraverso il cromosoma X materno ai figli maschi. La madre e le figlie femmine non si ammalano, ciò significa che sono portatrici sane. I figli maschi, invece (che hanno un solo cromosoma X), ereditano il gene guasto e sviluppano la malattia.»
«Ma allora...» disse Michaela incredula, con un filo di voce. «Allora viene da me?»
Moser assentì leggermente, aggiungendo: «E a sua volta, forse, da sua madre, e da sua nonna...».
«Ma come facciamo a sapere se è realmente ALD?» domandai.
«Basta fare un esame del sangue.»
In un paio di giorni gli esiti erano pronti. Come previsto da Moser, il mio era negativo, mentre quello di Michaela risultò positivo. In quel momento eravamo a casa, nella nostra stanza, e lei cadde in uno stato di prostrazione terribile: era inconsolabile.
«Michaelina, cara, non potevi saperlo... Non è colpa tua» continuavo a ripeterle. Ma lei faceva avanti e indietro piangendo disperatamente.
«Tu mi hai dato un figlio perfetto e io te l’ho inguaiato» ripeteva affranta. Nel corso del tempo avrei scoperto che al dolore per la malattia dei figli, nelle madri dei bimbi colpiti da ALD si aggiunge il dramma di un senso di colpa irrazionale che le accompagna per tutta la vita. Michaela soffrì inoltre una sorta d’isolamento rispetto alla famiglia: la sorella maggiore Kenise aveva avuto due figlie, nessuna delle due portatrice. Deirdre, la minore, era senza figli, ma ebbe un ruolo importante nella nostra battaglia.
Hugo Moser ci aveva confermato inoltre che non esisteva alcuna cura: l’unica terapia, da lui stesso messa a punto, era una dieta con un basso tenore di acidi grassi, in modo da ridurre il loro livello nel sangue e nei tessuti. Cominciammo a somministrare la dieta a Lorenzo e a mandare campioni del suo sangue al Kennedy Institute dove Ann Moser, la moglie del professore, specializzata nell’analisi degli acidi grassi, li controllava.
Una volta a settimana preparavamo il cibo di Lorenzo in un pentolone. Si trattava di un minestrone con patate, finocchi, rape e altri ingredienti che non contenevano i VLCFA.Spesso mangiava anche una mela sbucciata e ridotta a mousse. Michaela cercava di usare solo ingredienti di prima qualità. Lorenzino odiava quella dieta, soprattutto il fatto che mancasse di carne rossa, e io cercavo di rincuorarlo. «Quando la bubù sarà passata» promettevo «ti farò una bella bistecca come piace a te, anche un bue intero.»
Avevo una gran voglia di cucinare a Lorenzo i suoi spaghetti preferiti, pomodoro, basilico e parmigiano, per tirargli su il morale, ma Moser era stato molto chiaro: l’olio d’oliva conteneva altissimi tassi di acidi ed era severamente vietato.
Ann Moser aveva...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L’olio di lorenzo
  3. Questo libro
  4. Prologo
  5. Il bambino che giocava con i leoni
  6. Discesa all’inferno
  7. Capitani coraggiosi
  8. Epilogo
  9. Inserto fotografico
  10. Copyright