Silvio Muccino
Carla Vangelista
RIVOLUZIONE Nº 9
Romanzo
Prefazione di Roberto Vecchioni
“A volte abbiamo bisogno di un boato, di un’esplosione, di una casa che crolla per svegliarci. Ma basta anche fare un atto diverso dal solito. Qualcosa che si opponga al trantran dei nostri pensieri e ci liberi dalla paralisi” dice la nonna di Sofia che questa Rivoluzione N. 9, questo “inno alla gioia” se li porta dentro da anni e anni a dimostrare che due volte si sceglie nella vita, la prima per non morire, la seconda per vivere.
Ed è in fondo proprio questa nonna, sarta impeccabile, a scandire dal suo angolo di protagonista remota i tempi sentimentali di due diversi slalom tra disastri emotivi che sua nipote e uno sconosciuto ragazzo trent’anni dopo dovranno affrontare, perché proprio questa è la genialata di Rivoluzione N. 9, raccontare in forma di diario spasmodicamente sincero, l’instabilità, l’inadeguatezza, il disagio, la paura di affrontare il nulla, il buio di due adolescenti, una negli anni Sessanta, l’altro alle soglie del Duemila.
Lo schema era rischiosissimo: per realizzarlo gli autori si sarebbero potuti impantanare in una delle solite, squallide macchine del tempo, o accomunare i protagonisti in una sola voce narrante, quasi un deus ex machina che dirimesse le distanze e pasticciasse sociologia comparata per dimostrare (ahinoi) che i giovani sono uguali da sempre. E invece niente trucchi, niente inganni, tutto reale, tutto plausibile, una storia non interferisce con l’altra e soprattutto i due adolescenti non si assomigliano più di tanto.
E allora? Cosa ci stanno a fare nello stesso romanzo? Cos’hanno in comune? Hanno in comune una casa in cui hanno vissuto in periodi diversi e lontani, hanno in comune uno splendido dirimpettaio, maestro di sogni e dolore che da giovane ha insegnato alla ragazza l’attesa prima dell’élan vital e da vecchio al ragazzo la traduzione di una presunta pazzia in libertà, “il mio principio, la vostra fine”.
Noi, noi che leggiamo, sappiamo bene fin dal principio (la narrazione è un lungo flashback) che Sofia e Matteo alla fine si incontrano, proprio in virtù dell’unico legame che li unisce, ma rimuoviamo, strano miracolo, e nel leggere a capitoli alterni la vita ora dell’una (Sofia), ora dell’altro (Matteo), nel riconoscere tratti evidenti dei nostri malesseri giovanili nei loro è come se aspettassimo, non sappiamo bene come e in che forma, un loro faccia a faccia, di là delle parole o delle spiegazioni: è come se aspettassimo un lungo silenzioso abbraccio tra loro, quasi a riconoscersi in quei lupi buoni e selvaggi che, come racconta la nonna, erano gli uomini prima della civiltà.
Rivoluzione N. 9 non è un romanzo violento o provocatorio, non è neppure, Dio ce ne scampi, un prontuario di tecniche per la guerriglia o simili prelibatezze, perché la rivoluzione è interna, personale, della propria anima davanti all’assurdo del viver “civile”, al totemismo di oggetti, ruoli sociali, smanie per il successo, rumorose propagande di sé, esclusioni e derisioni se manchi il bersaglio o tradisci il modello comune: chi da giovane non ha avvertito quello “scoppio”, quella “deflagrazione” finisce frustrato e opprimente come la madre di Matteo, oppure fugge, tradisce, abbandona, come il padre di Sofia, stagliandosi contro scenari di farsa e miseria affettiva: chi non ha saputo cogliere a tempo debito l’inno alla gioia scambia per rivoluzione il suo tardivo annaspare alla ricerca del consenso mediatico (la madre), o si distrugge stralunando il proprio habitat affettivo in cambio di avventure infantili (il padre).
Il nodo, letterario ed esistenziale dei ragazzi degli ultimi decenni, dal giovane Holden a Jack Frusciante etc. è sempre lo stesso: “chi sono, chi non sono?” e non fanno eccezione nemmeno i protagonisti di questo romanzo. L’approccio più credibile per quel che loro credono sia la verità su se stessi, laddove la loro affettività non trova nidi ad accoglierla è il salto triplo dell’esperienza sessuale, nei maschi pura e semplice, nelle ragazze impegolata in implicazioni che fan capo all’amore o a qualcosa che ci assomigli.
E così nei due diari emergono notevoli differenze d’approccio giovanile a questa tempesta erotica ingressiva e trasgressiva: alle calzette corte, ai gridolini da fans, alle finte ritrosie delle ragazze anni Sessanta, va ricollegata una paura delle responsabilità, della censura parentale e morale in genere forte all’epoca così che l’espediente più liberatorio risulta la fantasia, non fare, ma immaginare (perfino dialoghi), col risultato evidente che questo tipo di repressione conduce inevitabilmente alla malinconia e alla ricerca del padre.
Diverso l’approccio negli anni Novanta: qui siamo ben oltre contestazioni storiche e lotte o schermaglie per la parità. Le ragazze di questi anni mostrano una spregiudicatezza oltre ogni limite; sono loro a prendere l’iniziativa e apparentemente sanno ben distinguere tra sesso e amore, ché ci dan dentro alla grande fingendo un’imperturbabilità che è una maschera tanto che se qualcuna tocca loro un ragazzo anche uno che non amano per niente diventano delle erinni. Gli autori spaziano in questi due microcosmi di adolescenti irrealizzati con grande fervore psicologico e nessuna descrizione (la nutella col padre, le pesanti offese tra fratelli) è casuale, ma meditata e rientra nel quadro dell’attesa che le favole chiamavano principe e la vita chiama scopata con amore.
Nei maschi dei due periodi non si notano sostanziali differenze, sono quasi tutti infoiati e scazzati, semmai si trascinano un po’ di quell’ansia da prestazione che il post Sessantotto ha germinato. In Matteo si accumulano pesi morali di ogni tipo, figli tutti quanti del continuo ricatto sentimentale della madre: depressione, vuoto, inappartenenza, sospetti di follia, nell’interminabile attesa di una fine che sia un principio.
Ma Matteo (e Sofia) conoscono la differenza tra sesso e amore, pur così piccoli, pur così giovani, nella loro assoluta inesperienza, tempestati (lui soprattutto, per non sfigurare) da stimoli naturali e fin prorompenti, sanno attraversare la dolcezza, riconoscere l’armonia d’un incontro, chi reale (la ragazza delle candele), chi ideale ma non meno vivo (Paul McCartney).
E allora Rivoluzione N. 9 non è solo uno spaccato sociologico rétro, uno dei tanti “come eravamo”, di cui non sentivamo nessun bisogno, ma è molto di più. Ci insegna che le rivoluzioni si fanno non per vivere da disperati contro tutto e tutti, non per sovvertire la norma e chiudere col mondo, da cinici e randagi, no. Ci insegna o suggerisce o prospetta che si deve cercare un’altra norma in cui vivere felici o provarci, almeno. Né Matteo né Sofia si perdono, come non si era persa la nonna, ma si liberano come gli aveva insegnato l’ineffabile Daniele: si fa una rivoluzione per imparare ad amare e stare con chi si ama, non con l’eroe di un momento, il bandito senza speranza, l’intoccabile, l’irraggiungibile, non con chi nega ma con chi afferma, chi ti viene a tirar giù dal “quadro svedese”, chi ti aspetta senza vederti per un’ora fuori da un cinema; si sta con chi è in sintonia, con il più semplice, forse anche il più scontato, ma il più vero.
Almeno io l’ho letta così, non me ne vogliano Carla e Silvio se mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo, perché in fondo è colpa loro.
Roberto Vecchioni
Hai molto dentro di te, perché non lo getti fuori? WALT WHITMAN
Lech Lechà. “Vai via, vai verso te stesso.” (Genesi 12,1)
Erano passati più di dieci anni dal giorno in cui se n’era andato, deciso a non voltarsi indietro, eppure, per un attimo, ebbe l’impressione che quel tempo non fosse mai trascorso.
Il cortile era caldo e assolato e il ragazzo cercò ristoro sulla panchina verde all’ombra di un grande castagno. Per terra, sul ghiaino, i segni delle ruote di biciclette e motorini, parcheggiati ordinatamente in fondo.
La città, immersa nell’afa di agosto, era deserta e silenziosa ma nel cortile echeggiava una canzone senza tempo di Mina, che proveniva dalla finestra aperta di un balcone al secondo piano.
Si passò una mano fra i capelli biondi, un po’ lunghi, si sfilò la giacca e si arrotolò le maniche della camicia, come per darsi un contegno prima di decidere. Aveva quasi trent’anni, un fisico vigoroso e un’aria indifesa e smarrita. Fissò le scarpe di vernice nera che gli stritolavano i piedi pensando che erano bruttissime. Poco più in là un brulicare di formiche attirò la sua attenzione: una di loro portava un seme enorme, molto più grande di lei. Ne osservò gli sforzi, sperando che i battiti del suo cuore rallentassero.
L’ultima volta che si era seduto su quella panchina era solo un adolescente ed era vestito nello stesso modo, sempre di nero, sempre con delle scomodissime scarpe di vernice lucida, sempre d’estate. Sempre per un funerale.
Ed esattamente come allora, non sapeva cosa avrebbe fatto. Non sapeva se avrebbe trovato il coraggio di tornare in quell’appartamento pieno di sconosciuti dal quale si diffondeva la voce di Mina o se avrebbe scelto di andarsene, di nuovo, senza voltarsi.
Pochi minuti prima si era spinto fino al pianerottolo. La porta era socchiusa. Insieme alla musica gli erano arrivate delle voci, qualche risata forzata e improvvisamente si era sentito ridicolo nel suo abito da becchino. Aveva aperto timidamente la porta per dare una sbirciatina. Una ragazza vestita di viola che stava frugando tra un cumulo di borsette ammassate sul tavolo all’ingresso l’aveva guardato e poi gli aveva gettato le braccia al collo, un po’ teatralmente, e gli aveva detto sorridendo: «Niente lacrime, né commemorazioni. Lui avrebbe voluto così». Aveva ripreso a frugare borbottando: «Possibile che nessuno abbia una sigaretta in questa casa?».
Lui si era guardato intorno, aveva osservato il salotto affollato e aveva avuto la certezza di non conoscere nessuno. Aveva girato i tacchi e si era precipitato fuori dall’appartamento, con il cuore che gli andava a mille, per rifugiarsi su quella panchina tanto familiare.
Vide che la formica era arrivata a destinazione e le sue compagne le stavano correndo incontro per aiutarla con il bottino. Il ragazzo alzò gli occhi da terra e guardò ancora una volta il balcone. Provò come una vertigine.
Si scosse, respirò a fondo. Ma era difficile resistere. Si lasciò vincere dalle sensazioni. Fece vagare lo sguardo verso il portone della palazzina A. E poi su quello accanto. Palazzina B. E poi su quello accanto ancora, come attratto da una forza irresistibile, alla quale, in fondo, non voleva ribellarsi. La palazzina C. Lentamente scalò con lo sguardo la facciata. Fino al terzo piano. Fino a un balcone spoglio, con tre vasetti vuoti aggrappati alla balaustra e una finestra con le persiane leggermente scrostate, chiuse. Sentì il respiro che si fermava. E, risucchiato dal passato, si rivide esattamente per quello che era stato: un ragazzo solo.
Allora prese la sua decisione e si alzò, con le sue scarpe nere troppo strette. Con il suo dolore e il suo abito scuro. Girò le spalle ai tre portoni spalancati come bocche avide, a quel balcone, ai ricordi e decise di scappare.
Ma era troppo tardi. Un uomo anziano e tarchiato veniva nella sua direzione, prima spedito poi via via più esitante, con un’espressione di dubbio e sorpresa sul viso. Quando fu a pochi passi le sue labbra si distesero in un sorriso incerto. «Ma lei... tu... sei Matteo, vero?»
Matteo guardò l’uomo in camicia bianca e pantaloni scuri, con i capelli bianchi cortissimi e il viso rubizzo. Esitò un momento, senza riuscire a collocare il vecchio con precisione.
«Difficile riconoscermi dopo tutto questo tempo, eh?» sorrise l’uomo, poi l’abbracciò.
Matteo si lasciò avvolgere in quella stretta un po’ sudata. Balbettò qualche frase educata. Finse di riconoscerlo.
«Sei venuto per il signor Daniele, vero? A me sembrano tutti pazzi» disse il vecchio indicando in alto. «Mai visto un funerale così allegro. Ma forse è vero. È così che avrebbe voluto lui.» Gli si appannarono gli occhi e disse che fare il portiere di quel condominio non era più come una volta.
Allora Matteo ricordò che si chiamava Nicola e tinse quei capelli argentei di castano, aggiunse un paio di baffi a quel viso invecchiato e tutto tornò al suo posto.
«Pare che fosse malato da un po’, ma non so molto altro. Io sono il portiere e a me arrivano solo voci, nessuno mi dice niente di preciso» si lamentò. Scosse la testa. «Povero signor Misiti. Povero signor Daniele, aveva appena superato i settant’anni.»
Matteo guardò Nicola che estraeva un fazzoletto di tasca e se lo passava veloce sugli occhi. Distolse lo sguardo per non venire contagiato e parlò in fretta, prima che il portiere lo assalisse con le inevitabili domande di rito. I suoi occhi salirono di nuovo al balcone disadorno, quello del terzo piano, palazzina C, lo indicò e chiese: «Chi ci abita adesso?».
Nicola sorrise con gli occhi ancora lucidi. «Buffo. Sei la seconda persona che mi fa questa domanda oggi.» Poi disse che era vuoto da quasi un anno, ma per forza, con la ...