«È ancora arrabbiato?»
«Arrabbiato? È infuriato, ecco che cosa è.»
«A me ha detto che ci siamo venduti agli americani.»
«Non ci credo.»
«Vi dico che è così.»
«Ma non avevamo alternative.»
«Lui dice che le avevamo eccome.»
«E quali erano?»
«Dare tutto a lui.»
«Basta parlare di lavoro. Venite a divertirvi, almeno oggi» la voce di Anna si era intromessa con discrezione nel mezzo della conversazione tra Cova, Castellucci e De Amicis, che si erano appartati lontano dagli altri ospiti in un angolo del grande salone dove stavano aspettando l’arrivo del 1960.
Erano a Cortina, nella villa dell’amministratore delegato, e indossavano lo smoking per la festa elegante con la quale volevano lasciarsi alle spalle gli anni Cinquanta.
Da pochi anni, e in maniera quasi improvvisa, Cortina era diventata una delle località più alla moda del Paese. Le Olimpiadi del 1956 avevano cambiato in modo profondo il piccolo centro delle Dolomiti. Quello era stato il primo grande evento internazionale ospitato in Italia dalla fine della guerra. Le orchestre di Peppino di Capri e Fred Buscaglione si erano esibite nei grandi alberghi mentre i più importanti divi del cinema, da Sofia Loren a Raf Vallone, erano stati ospiti dei giochi. La fiaccola olimpica, benedetta dal papa, aveva attraversato la penisola, suscitando scene di entusiasmo degne del Giro d’Italia.
La televisione aveva mostrato al mondo quelle due settimane e, da allora, tutto era stato diverso.
Cova guardò i suoi ospiti: erano contenti di essere lì. Festeggiare l’ultimo dell’anno a Cortina non era da tutti. Ma loro lo avrebbero fatto in maniera discreta, con la sobrietà della buona borghesia.
Cova lanciò un sorriso alla moglie, con la silenziosa richiesta di altri pochi minuti.
«Pensate che anche Mattei stia festeggiando?» domandò agli altri.
«Macché, sarà chiuso nel suo ufficio o in qualche parte del mondo a studiare come fregare gli americani» rispose De Amicis.
«Ho incontrato, poco prima di Natale, uno dei suoi collaboratori, l’ingegner Ghellini» aggiunse Castellucci. «Gli ho domandato dove avrebbe trascorso le vacanze. Mi ha guardato come un marziano. Con Mattei, mi ha detto, non si fanno ferie: due o tre giorni a Ferragosto sono il massimo.»
«Insomma, qual è la sua proposta?»
«Affidare all’AGIP tutte le pompe di benzina, i bar e i punti di ristoro dell’autostrada. Questa è la sua proposta» rispose De Angelis.
«Possiamo accettarla?»
«Sul primo tratto no. Lo sai» intervenne Castellucci. «Sono tutti appalti concorsi già definiti. Sette sono andati all’Agip, ma tredici se li sono aggiudicati gli americani e gli inglesi. Le compagnie hanno fatto dei loro accordi come era previsto nel bando. La British Petroleum con la Motta e la Esso con la Pavesi. I ristoranti di Fiorenzuola e Cantagallo saranno pronti fra pochi mesi.»
page_no="203" In fondo, pensò Cova, l’accusa di Mattei non era del tutto infondata. In quei primi anni incoscienti del progetto erano andati avanti quasi alla cieca, senza calcolare le conseguenze della loro scelta. Avevano commesso un errore.
Lo Stato si allea con lo Stato, questo era il punto, e questo chiedeva Mattei.
Forse aveva ragione.
«Che possiamo fare?»
«C’è tutto il resto. Possiamo ancora intervenire sulla Firenze-Roma. Sono trecentottanta chilometri. Lì possiamo andare a un accordo in esclusiva con l’Agip» rispose Castellucci.
«E Pavesi e Motta, che fine fanno?»
«Pavesi non lo so, è legata a doppio filo con la Esso. È più americana degli americani. Anche il menu sarà americano e useranno il modello della Howard Johnson. Motta, invece, può sganciarsi. Mattei mi ha detto che parlerà direttamente con Ferrante, l’amministratore delegato. I due sono molto amici» concluse Castellucci.
«Bene, manderò una lettera a Mattei dichiarandomi d’accordo. Meglio scrivere che incontrarlo, quell’uomo, se non vuoi essere travolto» disse Cova.
La moglie trovò un modo elegante per dire che era tempo di finirla con il lavoro e di unirsi agli altri ospiti: mancava poco più di un’ora alla mezzanotte.
«C’è Jane Russell in televisione. Non venite a vederla?»
La Rai aveva fatto un’eccezione. Dopo il telegiornale delle undici non avrebbe chiuso i programmi con il solito “Signori e signore, buonanotte”, ma trasmesso una “Festa di fine anno” in Eurovisione, dalla Bussola di Viareggio, che sarebbe andata avanti addirittura fino a mezzanotte e trenta.
Insieme all’orchestra di Buscaglione c’era lei, la donna il cui film era stato proibito per cinque anni dalla commissione di censura, la donna del covone di paglia che da una fotografia aveva guardato diritto negli occhi migliaia di soldati americani durante l’ultimo conflitto.
page_no="204" «Sei bellissima!» La frase urlata a gran voce scatenò commenti eccitati e qualche lungo fischio di ammirazione.
Invece che al cantiere di Citerna sembrava di stare nella piazza del paese, quando passava la moglie del farmacista.
La mensa era addobbata a festa: sui tavoli erano state collocate le bottiglie di Asti Cinzano insieme alle confezioni azzurre dei panettoni Alemagna, mentre dal soffitto scendevano delle lunghe strisce di carta con la scritta “Viva il 1960”. Le sedie che circondavano il televisore erano tutte occupate e i tanti rimasti in piedi spingevano come una folla indisciplinata per guadagnare la prima fila.
La sala era piena di uomini e di fumo. Quella notte nel cantiere non si sarebbe lavorato in galleria: così avevano deciso le squadre.
Giovanni e Gaetano si trovavano tra i fortunati che erano riusciti a sedersi, e si sforzavano di seguire la diretta da Viareggio, ma il clamore della sala riduceva lo spettacolo a un irreale acquario silenzioso. Uno degli operai provò ad alzare l’audio girando quasi al massimo la manopola, ma l’impasto sonoro tra il chiasso della festa e le canzoni della televisione risultò intollerabile.
«Non si capisce una parola. Andiamo fuori a fumare una sigaretta?» propose Gaetano.
«D’accordo» rispose l’altro, «prendiamo i cappotti, farà freddo sul piazzale.»
Quando uscirono, il silenzio della montagna quasi li aggredì.
Non c’era un rumore, un suono, un fruscio a guastare l’aria, non un alito di vento ad agitare la cima degli alberi. Tutto era fermo, immobile sotto la luce chiara del cantiere. Un mondo senza strada, senza uomini, senza tempo li circondava, un mondo taciturno che non aveva bisogno di baccano per vivere.
«Non gliene frega niente del 1960 all’Appennino» commentò Gaetano.
page_no="205" «E perché dovrebbe?» rispose Giovanni. «Non ha nessun motivo per nascondere dietro una festa gli anni che corrono. La montagna non ha mica paura di morire. La paura è un privilegio degli uomini» concluse accendendo una Nazionale.
Gaetano notò il gesto quasi improvviso con il quale lo aveva fatto, per poi proteggerla nell’incavo della mano a nascondere la brace.
«Perché la tieni così?» domandò incuriosito, ma anche per il desiderio di allontanare l’atmosfera cupa che era calata su di loro dopo il commento di Nigro.
«È la prima cosa che ti insegnavano in Russia» rispose Giovanni, continuando a tenere la sigaretta nascosta. «Si fumava così per evitare di diventare un bersaglio.»
Lanciò uno sguardo verso l’oscurità come per assicurarsi che non ci fossero nemici nascosti. «Anche lì le notti erano silenziose come questa, e se un rumore le rompeva, una specie di clang soffocato, seguito da un suono metallico e da un tonfo, non era una buona cosa. Era il segnale che qualcuno non era stato attento, che il cecchino aveva individuato la sua vittima.»
«Qui non c’è nessun pericolo.»
«Sei proprio sicuro Gaetano?»
«Non capisco...»
«Quello che voglio dire è che il pericolo non è il cecchino» provò a spiegare Giovanni. «Sei tu il pericolo. Tu, se sbagli quello che gli altri si aspettano che tu faccia e per cui ti hanno dato la loro fiducia. Questo è il vero pericolo, non il cecchino. Lui fa solo il suo mestiere.»
De Angelis si fece attento: Giovanni aveva scelto quella notte per liberarsi di un dolore profondo, duro come le rocce che stavano scavando.
«Tu quell’errore lo hai fatto» disse a bassa voce.
«Sì.»
«Che cosa hai fatto?»
«Non posso dirlo.»
page_no="206" «Per questo sei venuto in montagna?»
«Sì.»
«Ma qui c’è solo un lavoro da completare.»
«Non è così, lo sai anche tu. Stai mentendo, me ne accorgo dagli occhi bassi, non stanno dritti come quando sei venuto a dirmi che le cose andavano bene. Anche per te, non è stato solo il lavoro a portarti su questa cima. Perché sei qui?»
«Perché non potevo fare altrimenti» rispose.
«Neanche io» disse Giovanni con un mezzo sorriso.
«Dobbiamo finirla in fretta questa strada» tagliò corto Gaetano.
«Sì, dobbiamo finirla in fretta.»
Accesero un’altra sigaretta e guardarono il fumo confondersi con il fiato gelato. Poi rivolsero lo sguardo verso la finestra dell’edificio dove altri uomini erano felici.
La festa continuava. Sui tavoli i resti del cibo si confondevano con i coriandoli e le stelle filanti. Le donne si scrollavano di dosso i residui di quella pioggia colorata, mentre gli uomini cercavano di colpire le loro scollature.
L’orchestra era impegnata in una pallida imitazione del successo del momento.
Arrivederci, questo sarà l’addio,
ma non pensiamoci.
Con una stretta di mano,
da buoni amici sinceri.
Lo pensava anche Nevio, seduto da solo al tavolo di un ristorante di Roma, dove stava salutando il 1959. Gli altri si erano improvvisamente dispersi, chi a salutare amici, chi trascinato dalle note di Marino Barreto jr.
Nevio guardava i coriandoli che erano finiti nel suo bicchiere di vino. Erano quattro, quattro come gli anni che erano passati da quando si era presentato in via Po. Erano stati belli e indimenticabili quegli anni: gli uffici angusti della prima sede provvisoria, dove anche il suo tavolo da disegno faceva fatica a entrare, gli scontri con l’ANAS, il pranzo con il grassone, l’elicottero che sorvolava l’America. Ricordava ogni cosa, anche la più piccola.
Era stato bello, ma era passato, tutto passato nel momento in cui l’autostrada aveva cominciato a essere vera.
I primi progetti, utilizzati all’inizio per spiegare la follia che avevano in mente, non erano più solo suoi. Erano nelle mani di decine di architetti che li stavano applicando negli svincoli, nelle piazzole di emergenza, nelle curve di ogni singolo lotto.
Ma Nevio non era triste. Nessuno poteva togliergli il merito di quei primi progetti, nessuno poteva sottrargli il privilegio di essere stato il primo. Il primo a vedere le cose, a riportarle sui lucidi, a renderle concrete e a vederle muovere i primi passi.
Il primo a vedere non solo una semplice strada, ma un’amica degli uomini e delle loro automobili. Prima di Cova, prima di tutti.
L’autostrada sarebbe stata anche sua, per sempre.
Era tra quei cinque italiani che un giorno di settembre erano andati in America.
Pensò a Nigro. Era scomparso dopo una telefonata in cui gli era sembrato felice. Poi, più nulla. Aveva provato a cercarlo, rivolgendosi prima a Jelmoni e dopo allo stesso Cova. Ne era uscita una storia confusa, come se i due avessero una certa ritrosia a raccontare di un patto che riguardava solo loro, e un’ancor più vaga indicazione su dove fosse Giovanni.
A...