Le tre stazioni
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Le tre stazioni

  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le tre stazioni

Informazioni su questo libro

Maya ha solo quindici anni e tutto ciò che possiede è una borsa contenente la sua bambina appena nata quando, in viaggio nella notte su un treno diretto a Mosca, in una carrozza squallida e fatiscente, subisce un tentativo di stupro da parte di un soldato ubriaco. Scampata alla violenza grazie all'intervento di un'anziana donna, la ragazza accetta dalla sua soccorritrice una tazza di tè e piomba subito in un sonno profondo. Al suo risveglio il treno, giunto ormai a destinazione, è deserto: la vecchia, il suo bagaglio e, soprattutto, sua figlia non ci sono più.
Nel frattempo alla stazione d'arrivo in piazza Komsomol'skaja - un luogo popolato da malavitosi, prostitute, piccoli mendicanti e drogati, ribattezzato dai moscoviti "Tre Stazioni" - viene ritrovato il cadavere di una giovane donna. Quello che ha tutta l'aria del decesso per overdose di una prostituta non inganna l'ispettore Arkady Renko, giunto sulla scena del crimine insieme al collega Victor Orlov. Nonostante stia attraversando un momento molto difficile della sua carriera e sia stato sospeso dal servizio effettivo, Renko non rinuncia a indagare su questo nuovo caso, che lo porterà dai bassifondi più degradati della città al lusso sfrenato degli ambienti frequentati dai ricchi e potenti. C'è forse un collegamento tra questa misteriosa morte e la sparizione della neonata sul treno?
Con Le Tre Stazioni Martin Cruz Smith continua il viaggio iniziato trent'anni fa con Gorky Park - ambientato nell'ultimo periodo dell'Unione Sovietica - tratteggiando un affresco realistico e inquietante della Russia contemporanea e della corruzione dilagante che avvelena il paese a tutti i livelli. Arkady Renko, antieroe per eccellenza già protagonista di molti bestseller dell'autore americano, si muove in un universo criminoso popolato di burocrati senza scrupoli e oligarchi spietati, al servizio di un ideale di giustizia tanto scomodo quanto necessario.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804607014
eBook ISBN
9788852018343

1

La notte estiva avvolgeva ogni cosa. I villaggi, i campi con i raccolti pronti per la mietitura e le chiese abbandonate scorrevano via rapidi, mescolandosi con i sogni di Maya.
Nonostante cercasse di restare sveglia, a volte le palpebre si abbassavano e Maya sognava i passeggeri in prima classe che dormivano al sicuro nei loro scompartimenti.
In classe economica gli scompartimenti non esistevano. C’era una sorta di vagone dormitorio con qualche lampada accesa, dove tutti condividevano il russare degli altri, il rumore soffocato di chi faceva sesso, gli odori corporali e le liti familiari. Alcuni passeggeri erano sul treno da giorni e la fatica di vivere in promiscuità aveva lasciato il segno. Un’interminabile partita a carte fra gli uomini che lavoravano sulle piattaforme petrolifere si era trasformata da semplice passatempo in un pretesto per rancori e scambi di accuse. Una zingara passava di cuccetta in cuccetta sussurrando per vendere i suoi scialli. Alcuni studenti universitari che avevano scelto di viaggiare al risparmio erano persi nel regno dei lettori MP3, mentre un prete si puliva la barba per eliminare le briciole di torta che vi erano rimaste impigliate. Un soldato ubriaco vagava su e giù lungo il corridoio, ma la gran parte dei viaggiatori aveva lo stesso aspetto inerte di un cavolo bollito.
Eppure Maya preferiva la cordialità rozza della classe economica alle comodità della prima. Lì si sentiva a suo agio. Aveva quindici anni, una figuretta scarna vestita con un paio di jeans strappati e un giubbotto di pelle che aveva assunto la consistenza del cartone, i capelli tinti di un rosso sgargiante. In una borsa di tela era contenuto tutto quello che possedeva, in un’altra era nascosta sua figlia, una bambina di tre settimane avvolta stretta in una coperta e cullata dal dondolio del treno. L’ultima cosa di cui Maya aveva bisogno era di essere intrappolata in uno scompartimento sotto gli occhi di gente con la puzza sotto il naso. E comunque non avrebbe potuto permettersi di viaggiare in prima classe.
Dopotutto un treno non era altro che un appartamento in condivisione su rotaie, qualcosa a cui era ampiamente abituata. Quasi tutti gli uomini si erano tolti gli abiti e indossavano pantaloni della tuta, maglietta e pantofole. Maya guardava con apprensione quelli che non si erano spogliati, poiché le maniche potevano coprire dei tatuaggi, un segno distintivo di chi era stato incaricato di riportarla indietro. Tanto per stare tranquilla, aveva scelto una cuccetta vuota. Durante il viaggio non aveva rivolto la parola agli altri passeggeri e nessuno si era accorto che a bordo del treno c’era una neonata.
A Maya piaceva inventarsi storie sulla gente che incontrava, ma ora la sua immaginazione era interamente catturata dalla bambina, al tempo stesso un’estranea e una parte di sé. Sua figlia era la persona più misteriosa con cui avesse avuto a che fare. Sapeva solo che era una creatura perfetta, luminosa, priva di difetti.
La piccola si mosse e Maya la portò fino alla piattaforma libera alla fine del convoglio, una zona aperta al vento e allo sferragliare del treno, per allattarla e concedersi una sigaretta. Erano ormai sette mesi che aveva smesso di drogarsi.
La luna piena splendeva nel cielo e lungo i binari si stendeva un mare di campi di grano costellati di serbatoi d’acqua dove spiccava la sagoma di una mietitrice abbandonata. Mancavano sei ore per arrivare a Mosca. Sua figlia la guardava con aria solenne. Maya la fissò a sua volta, così ipnotizzata che non si accorse dell’arrivo del soldato finché la porta scorrevole si chiuse alle sue spalle e l’uomo le disse che il fumo fa male ai bambini. La voce la fece sobbalzare riportandola di colpo alla realtà.
Il soldato le tolse la sigaretta dalle labbra e la lanciò fuori dal finestrino.
Maya staccò la bambina dal seno e si coprì.
Il soldato disse che la bambina era d’intralcio e le chiese di metterla per terra. Lei resistette, anche se lui le aveva già infilato la mano sotto il giubbotto stringendole il seno al punto di farne uscire il latte. Con voce roca le spiegò che cos’altro voleva da lei, ma prima doveva mettere giù la bambina, altrimenti l’avrebbe fatta volare fuori dal treno.
Maya impiegò un secondo a elaborare il senso delle sue parole. Anche se si fosse messa a urlare, chi l’avrebbe sentita? E, se avesse reagito, lui si sarebbe davvero liberato di sua figlia come di un pacco sgradito? Davanti agli occhi le passò l’immagine fugace della piccola coperta di foglie, così nascosta che nessuno l’avrebbe mai trovata. Sapeva solo che era tutta colpa sua. Chi era lei per aver avuto in dono una creatura così perfetta?
Prima che avesse il tempo di deporre la bambina, però, la porta si aprì di nuovo per lasciar passare una figura massiccia vestita di grigio, che afferrò saldamente il soldato per i capelli appoggiandogli un coltello alla gola. Era la babuška che era stata investita dalle briciole del prete.
La donna anziana annunciò al soldato che la prossima volta che si fossero incontrati l’avrebbe conciato per le feste e, per dimostrargli che non scherzava, gli mollò una vigorosa pedata, tanto che l’uomo batté rapidamente in ritirata.
Quando Maya tornò alla sua cuccetta con la bambina, la donna le portò del tè che aveva preso dal samovar e rimase a guardarle con aria protettiva. Si chiamava Helena Ivanova, le disse, ma su quella linea ferroviaria era nota a tutti come zia Lena.
Maya, che era esausta, si concesse finalmente di abbandonarsi a un sonno greve, sprofondando lungo una china oscura che le prometteva l’oblio.
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Quando Maya aprì gli occhi, la luce del sole aveva invaso la carrozza. Il treno era fermo e il rumore dominante era quello delle mosche che svolazzavano nell’aria calda. Aveva l’impressione che il seno stesse per scoppiarle. Guardò l’orologio: erano le sette e cinque. L’arrivo era previsto alle sei e mezzo. Di zia Lena non c’era traccia ed entrambe le borse erano sparite.
Maya si alzò e si avviò barcollando lungo il corridoio. Non c’era nessuno: né i chiassosi lavoratori delle piattaforme petrolifere, né gli studenti universitari, né la zingara, né il prete. Tutti scomparsi. Anche zia Lena se n’era andata. Lei era l’unica persona rimasta.
Scese e si fece strada tra la folla mattutina che stava salendo su un convoglio fermo sul binario accanto, attirando gli sguardi dei passeggeri. Un facchino le urtò uno stinco con il carrello. I controllori al cancello non avevano visto nessuno che assomigliasse a zia Lena, tanto meno avevano notato la bambina. Che domanda assurda da parte di una ragazza dall’aspetto così ridicolo.
I viaggiatori sulla banchina stavano scambiando gli ultimi saluti con chi li aveva accompagnati e la gente si accalcava intorno alle edicole e ai negozi che vendevano sigarette, CD e pizza al taglio. Un’infinità di persone affollava la sala d’aspetto; alcune erano dirette nelle lande desolate della Siberia, altre fino alla costa del Pacifico, altre ancora da nessuna parte.
Ma la bambina era sparita.
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2

Victor Orlov era in piedi in una cabina doccia, con il capo chino e gli occhi chiusi, mentre un inserviente bardato con una mascherina da chirurgo, occhiali di protezione, grembiule di gomma e guanti di lattice gli versava del disinfettante sulla testa. Il liquido, colandogli dal naso e dalla barba di quattro giorni, scorreva lungo l’addome scavato e il sedere nudo, fino a formare una pozzanghera ai suoi piedi. Victor sembrava una scimmia bagnata e tremante, con quel corpo cosparso di chiazze pelose, i lividi scuri e le unghie dei piedi spesse come artigli.
L’infermiere della centrale si era guadagnato il soprannome di “Cigno” per la lunghezza del suo collo. In passato aveva fatto il borseggiatore e l’informatore per la polizia ed era orgoglioso di essersi conquistato una posizione di responsabilità con prospettive di carriera.
«Ho telefonato appena è arrivato il sergente Orlov. “Contatta l’investigatore Renko” mi sono detto. “Sicuramente vorrà essere informato.”»
«Hai fatto bene» replicò Arkady.
La candela accesa emanava un lieve sentore di fiori marci.
«Si fa quel che si può. Allora, che cosa assume il nostro amico Victor, a parte l’alcol? Eroina, metadone, antigelo?»
«No, lui è della vecchia scuola. Si limita all’alcol.»
«Bene, il disinfettante ucciderà i pidocchi, i batteri, i microbi, i funghi e le spore. Fin qui tutto bene. Purtroppo non posso fare niente per l’organismo. La pressione sanguigna è piuttosto bassa, ma era prevedibile. Le pupille sono dilatate, nonostante non ci siano segni di trauma cranico. Ora si sta riprendendo. Gli ho dato del Valium per calmarlo e gli ho fatto un’iniezione di vitamina B1, però dobbiamo tenerlo in osservazione.»
«In una cella per gli ubriaconi?»
«Noi preferiamo chiamarlo “centro di recupero della sobrietà”.»
«Se è in grado di camminare, non se ne parla» disse Arkady mostrando un sacchetto di plastica con un cambio di abiti.
L’inserviente srotolò una manichetta per l’acqua e aprì il rubinetto al massimo indirizzando il getto verso Victor, che fece un passo indietro. Poi prese a girargli attorno investendolo da ogni parte.
Era difficile venire arrestati per ubriachezza. Anche perché non era così semplice distinguere la vera sbornia da una bevuta fra amici, tanto per dirne una, oppure da un eccesso di allegria o di tristezza, dai festeggiamenti per Ognissanti o per la giornata della donna, o dal bisogno di farsi un pisolino. E tuttavia le conseguenze potevano essere pesanti. La multa era poca cosa, ma sia la famiglia sia i colleghi sarebbero stati informati. Nel caso di Victor, sarebbe stato contattato il suo comandante, che aveva già minacciato di degradarlo. Non solo: i recidivi venivano condannati a passare due settimane in prigione, che per un poliziotto non era il posto più sicuro.
L’orologio digitale a parete scattò sulle 24.00.
Già mezzanotte. Victor era in ritardo di quattro ore sull’inizio del suo turno.
Arkady andò a prendere i vestiti dell’amico nella zona poco illuminata destinata al ricovero degli ubriachi, muovendosi fra i letti in cui giacevano uomini sedati fra lenzuola impregnate di urina. Le gambe dei letti erano state segate per evitare che cadendo si facessero male. Gli uomini erano immobili, tranne uno che, agitandosi sotto le cinghie che lo trattenevano, prese a sussurrargli ossessivamente: «Io sono Dio. Dio è merda. Io sono merda. Io sono Dio».
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«Come vede, non ci facciamo mancare niente» commentò il Cigno. Quando Arkady tornò al tavolo, l’infermiere gli consegnò la carta d’identità, le chiavi, il cellulare e la pistola di Victor.
Lo asciugarono e lo vestirono, cercando di impedirgli di spogliarsi di nuovo.
«Non l’avete registrato, vero?» chiese Arkady per sicurezza.
«E chi l’ha mai visto?»
Arkady lasciò cinquanta dollari sul tavolo e guidò Victor verso l’uscita.
«Io sono Dio!» disse la voce proveniente dal letto.
“Dio è sbronzo” pensò Arkady.
Arkady si mise al volante della Lada di Victor perché la sua Zhiguli era dal meccanico in attesa di una nuova scatola del cambio, e comunque a Victor era stata ritirata la patente per guida in stato di ubriachezza. Anche se era stato lavato e indossava abiti puliti, l’odore di vodka che si diffondeva dal suo corpo era come il calore emanato da una stufa. Arkady abbassò il finestrino per far entrare l’aria fresca. Le notti si erano già accorciate. Niente a che vedere con le notti bianche di San Pietroburgo, ma erano abbastanza brevi da disturbare il sonno ed esasperare i rapporti. La radio della polizia emetteva un gracchiare costante.
Arkady porse a Victor il walkie-talkie. «Avanti, chiama la Petrovka. Di’ che sei in servizio.» “Petrovka” era la forma abbreviata per definire il quartier generale della milizia, che si trovava nell’omonima via.
«Chi se ne frega. Tanto ormai sono fottuto.»
Poi si riprese quel tanto che bastava per mettersi in contatto con il coordinamento. Per fortuna quella sera nel suo distretto tutto era filato liscio. Niente omicidi, stupri o aggressioni.
«Un branco di donnette. Hai preso la mia pistola?»
«Sì. Non vogliamo certo che finisca nelle mani sbagliate.»
Arkady aveva l’impressione che Victor stesse per addormentarsi; invece a un tratto il detective borbottò: «La vita sarebbe meravigliosa senza vodka, ma visto che il mondo è una schifezza la gente non può farne a meno. La vodka è nel nostro DNA, tutto qui. Il fatto è che i russi sono dei perfezionisti. È la nostra maledizione. Questo spiega i grandi giocatori di scacchi e le star della danza, e trasforma tutti gli altri in ubriaconi invidiosi. La domanda non è perché non bevo meno, bensì perché non bevo di più».
«Accomodati pure.»
«È quello che volevo dire. Grazie.»
Le altre auto, mostri di produzione straniera, ruggivano alle loro spalle. Di lì a poco, tuttavia, smisero di tallonarli. Il tubo di scappamento e la marmitta della Lada penzolavano quasi a livello della strada, provocando ogni tanto un ventaglio di scintille che invitava chi stava dietro a mantenersi a distanza di sicurezza.
Arkady pensò che se la Lada era un relitto anche i suoi due passeggeri non erano da meno. Si guardò per un attimo nello specchietto retrovisore. Chi era l’estraneo dai capelli grigi che occupava il suo letto, indossava i suoi abiti e si sedeva alla sua scrivania nell’ufficio del pubblico ministero?
«Ho letto su un giornale la storia di due delfini che hanno cercato di far annegare un uomo in Grecia o da quelle parti. Si sente sempre parlare di che animali nobili siano i delfini, di come vengano spesso in aiuto dell’uomo. Questa volta è successo l’opposto: lo stavano spingendo al largo. Ho cominciato a chiedermi perché se la fossero presa con quel povero bastardo ed è saltato fuori che era russo, ovviamente, e anche leggermente sbronzo. Perché a noi capita sempre il contrario di quello che succede agli altri? Chissà, forse i delfini lo avevano già salvato una decina di volte, ma c’è un limite a tutto. Cosa ne pensi?»
«Forse dovremmo prenderne atto una volta per tutte» commentò Arkady.
«Che cosa vuoi dire?»
«Che la Russia funziona al rove...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le tre stazioni
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. 11
  14. 12
  15. 13
  16. 14
  17. 15
  18. 16
  19. 17
  20. 18
  21. 19
  22. 20
  23. 21
  24. 22
  25. 23
  26. 24
  27. 25
  28. 26
  29. 27
  30. 28
  31. 29
  32. 30
  33. 31
  34. 32
  35. 33
  36. 34
  37. 35
  38. 36
  39. Ringraziamenti
  40. Copyright