E le mamme chi le aiuta?
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E le mamme chi le aiuta?

Come la psicologia può venire in soccorso dei genitori (e dei loro figli)

  1. 324 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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E le mamme chi le aiuta?

Come la psicologia può venire in soccorso dei genitori (e dei loro figli)

Informazioni su questo libro

Essere genitori è una grandissima gioia ma comporta anche difficoltà, ansie, incertezze sul proprio ruolo educativo perché tanti sono i momenti in cui le tappe evolutive dei figli e i loro cambiamenti possono presentare dei problemi. Spesso si tratta di problemi non gravi, tipici delle diverse fasi di crescita, altre volte, invece, di malesseri più seri, che giungono a compromettere la serenità e l'equilibrio dell'intera famiglia.
Alba Marcoli, psicoterapeuta che da anni si occupa di infanzia, ha raccolto le proprie esperienze e quelle di alcuni colleghi che raccontano il lavoro svolto con le madri e i padri per risolvere i problemi dei figli. Attraverso l'analisi di storie vere, ci mostra come vengono affrontati dai terapeuti i momenti di crisi più comuni - la depressione post partum, i primi distacchi, la scolarizzazione, le paure per l'età adolescenziale e i conflitti con il corpo - e le difficoltà legate invece a condizioni specifiche, come l'adozione, la disabilità, la migrazione, la separazione dei genitori. Una raccolta di esperienze, di gioie e di dolori, che dimostra come a ogni bambino possa essere data la possibilità di divenire un individuo libero di essere se stesso, felice e creativo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804599500
eBook ISBN
9788852020919

Parte settima

CRESCERE INSIEME

Non camminare dietro di me; non posso condurre.
Non camminare davanti a me; non posso seguire.
Cammina accanto a me in modo che possiamo essere insieme.
Tradizione orale dei nativi americani

XVII

L’esperienza della migrazione

L’importanza delle radici

Un popolo senza una storia è come il vento sulla prateria.
Tradizione orale Sioux
Uno dei molti gruppi che ho tenuto per tanti anni è stato quello di lavoratrici straniere organizzato dal Gruppo donne internazionali di Milano. Erano in genere persone che si riunivano il giovedì sera dalle sei alle nove in quanto libere dal lavoro di colf o di badanti svolto presso famiglie italiane. Ho sentito all’interno di quel gruppo, nel corso degli anni, le storie più incredibili: da chi proveniva da zone di guerra africane e aveva viaggiato per mesi con mezzi di fortuna durante la notte, nascondendosi nelle foreste di giorno per poter raggiungere l’Europa, a chi aveva lasciato al paese d’origine un lavoro qualificato però mal retribuito per poter provvedere meglio alle esigenze economiche familiari facendo un lavoro più umile in Italia. Ci siamo interrogate su che cosa avesse voluto dire per ognuna di loro questo sradicamento e sul senso di spaesamento, incertezza, paura che aveva caratterizzato il loro inserimento nella nostra società.
Ho solo l’imbarazzo della scelta nel ricordare alcuni spezzoni di storie particolarmente significative.
Io sono arrivata in Italia a 16 anni, portata da una famiglia che mi aveva promesso di farmi studiare nel tempo libero se mi fossi occupata della casa e dei bambini. L’ho fatto per alcuni anni ma la promessa non è stata mantenuta, anzi, sono stata molto male con loro. Non mi lasciavano neanche uscire di casa la domenica e mi ricattavano per il fatto che ero ancora clandestina, con la minaccia che mi avrebbero arrestata e rimandata al mio paese. Ma io avevo bisogno di lavorare perché con quei soldi mantenevo i miei sei fratelli minori che erano rimasti orfani dopo la morte di mia madre. Una domenica però non ce l’ho fatta più a rimanere chiusa in casa, sono andata in piazza Duomo e mi sono seduta sugli scalini, vicino a delle ragazze che parlavano una lingua che io capivo perché assomigliava allo spagnolo. Ho scoperto dopo che erano delle ragazze sarde che facevano le colf a Milano. Quando mi sono avvicinata e hanno sentito la mia storia mi hanno detto che avrebbero parlato con le suore che le ospitavano per vedere se potevano ospitare anche me e così abbiamo fatto. Una sera quando i miei padroni sono tornati io mi sono fatta trovare con la valigia pronta, gli ho consegnato le chiavi di casa e sono scappata via. Mi hanno persino inseguito in strada urlando che mi avrebbero arrestato, ma io questa volta ho vinto la paura. Le suore sono state molto disponibili con me, mi hanno dato un letto e mi hanno trovato una bravissima famiglia dove sono stata molto bene e ho potuto frequentare le scuole per diventare maestra d’asilo. Quando mi sono diplomata avrei potuto benissimo continuare a stare da loro perché stavo benissimo ed ero molto affezionata, ma loro mi hanno detto che era giusto che facessi il mio nuovo lavoro perché era per questo che ero venuta in Italia. E ora sono ormai trent’anni che sono qui, mi sono perfettamente inserita e mi occupo anche di aiutare le altre lavoratrici straniere.
Ho imparato tanto da questo gruppo, tantissimo, non solo sulle loro radici, ma anche sullo spaccato di società italiana che descrivevano dall’interno delle case.
Io lavoro come badante di un’anziana signora, ma sono molto dispiaciuta di vedere come vengono trattati i vecchi in Italia. La figlia della mia signora abita sopra di lei, ma la mattina non passa neanche a salutarla prima di uscire, per la fretta che ha di andare al lavoro. Allora è lei che si alza presto per mettersi dietro alla finestra per vedere sua figlia almeno quando esce dal portone e attraversa la strada per entrare in macchina. E quando invece scende a trovarla di solito non parla con lei, parla solo con me per dirmi che cosa devo fare e darmi tutte le istruzioni. A me spiace molto perché vedo che la signora ne soffre. La trattano come se non capisse più le cose, ma non è vero, capisce benissimo, solo che finge di non accorgersene. Che cos’altro potrebbe fare?
Io lavoro come badante da una coppia di anziani a cui sono molto affezionata e da cui sto benissimo perché sono proprio due persone squisite. Sono una coppia senza figli e si occupano del mio bambino come se fosse un loro nipotino. Gli fanno persino fare i compiti con loro di pomeriggio. Quando ho fatto il corso per assistente geriatrica mi era stata offerta l’assunzione in un istituto e io ero molto tentata di andarci perché sarebbe stata una buona opportunità per me, così avrei potuto fare anche un mutuo per comperarmi un piccolo appartamento. Invece loro mi hanno convinta a restare e mi hanno addirittura regalato un appartamento per viverci con mio figlio. Me l’hanno persino fatto scegliere tra vari e io non capivo proprio perché volessero il mio parere a tutti i costi. Ho capito solo dopo che era per me e mio figlio! Non avrei mai pensato che nella vita mi sarebbe capitata una tale fortuna!
Al mio paese ci sono molte bellissime ragazze che vengono in Italia e finiscono per fare le prostitute. Il mio sogno sarebbe quello di fare la mediatrice culturale per liberarle. Sono tutte così giovani e spesso fanno proprio una brutta fine! Ma le più difficili da convincere sono quelle che si sono abituate al lusso e al consumismo. Una volta ho parlato con alcune di loro che vivono con molto agio in una grande villa, in provincia, mantenute da ricchi signori italiani del posto, ma mi sono scontrata sempre con la stessa risposta: «Anche a noi piacerebbe smettere di fare questa vita, ma poi chi ce li dà i venti milioni al mese che guadagniamo qui?». [È una riflessione di parecchi anni fa, quando c’erano ancora le lire.]
Al mio paese si fa una grande festa quando una ragazza compie 16 anni perché diventa adulta. Ce l’ho ancora in bocca il sapore del brodo di gallina che mia madre mi ha preparato. Era un lusso eccezionale per noi. Non ho mai più assaggiato un brodo così buono in tutta la mia vita!
Mia nonna ci raccontava delle storie meravigliose sulle erbe con cui ci faceva la minestra. A noi sembrava di essere dei gran privilegiati a poterla mangiare; in realtà lei lo faceva per consolarci perché non aveva altro da darci, ma noi eravamo felici e ci sembrava un gran lusso!
Ho sentito descrivere infiniti atti di cura da parte di nonni e genitori verso i bambini anche nelle situazioni più difficili. Sono diventati il bagaglio affettivo che ognuna di loro si è portata dietro nella migrazione e che conserva con cura. Ecco il racconto, che ho già riportato in un altro libro, di una donna colombiana:
Quando sono partita per l’Europa mio padre mi ha regalato il suo oggetto più prezioso. Era un sasso di quelli che si trovano nelle miniere di smeraldi dove lui aveva lavorato. Se lo smeraldo c’è, è solo lì dentro che può essere trovato, ma per saperlo bisogna aprire il sasso perché non tutti lo contengono. Mio padre l’aveva conservato con cura ancora chiuso: era il sogno della sua vita. Però quando io sono partita se ne è privato e l’ha regalato a me come suo ricordo. Io ormai sono in Italia da venticinque anni e lo conservo con la sua stessa cura. Neanche io l’ho mai aperto e lo passerò a mia figlia ancora intatto: spero che anche lei non l’aprirà mai. Quel sasso è il sogno della vita di mio padre e un sogno vale molto di più dell’eventuale smeraldo che dovesse contenere!
Ha scritto Carlotta, 8 anni:1
Crescere insieme pur essendo diversi, è bello. Un giorno in giardino ho visto una bambina che se ne stava tutta sola, mentre gli altri giocavano; le sono andata vicino e le ho chiesto: «Perché sei qui tutta sola?». Lei mi ha risposto: «Nessuno vuole giocare con me». Allora io le ho proposto di unirsi a me. Abbiamo giocato al gioco che voleva lei e dopo a quello che volevo io. Un giorno le ho chiesto come mai aveva il velo sulla testa. Lei mi ha risposto: «È la mia tradizione. E tu perché non lo porti?». «Perché la mia tradizione non lo vuole.» Da allora siamo diventate grandi amiche. Stando insieme a quella bambina ho imparato che anche se abbiamo tradizioni diverse si può essere grandi amici e imparare gli uni dagli altri.
L’intervento che segue è a cura di Ida Finzi, psicologa e psicoterapeuta, che ha avuto una lunghissima e appassionata esperienza istituzionale nei servizi pubblici di Milano, in particolare nei consultori, e che si occupa attualmente di sostegno alla genitorialità delle famiglie immigrate.
Essere genitori nella migrazione: un compito particolare
di Ida Finzi
Tutti i bambini della Terra saranno i benvenuti ai nostri focolari.
Tradizione orale Seneca (nativi americani)
Khaled è nato in Marocco, in un piccolo paese ai margini del deserto. Suo padre non c’era al momento della sua nascita, perché già da diversi anni era emigrato in Italia; stava preparando una casa e il ricongiungimento per la moglie e per il piccolo che stava per arrivare. Quando lui ha compiuto otto mesi sono partiti, mamma e neonato, per venire a vivere tutti insieme.
Intorno alla nascita di Khaled si sono attivate, come sempre accade al paese, le nonne, le sorelle e le cognate. Kadija, la mamma, non è stata lasciata sola; ha ricevuto cure e consigli dalla famiglia allargata. La nonna paterna ha deciso il nome del bambino (il nonno è morto parecchi anni fa), osservando le regole familiari; Kadija è stata a casa per i quaranta giorni prescritti; il latte è venuto regolarmente, e ora che il piccolo è un po’ cresciuto Kadija è pronta a partire.
L’arrivo in Italia è molto frastornante: è gennaio, fa freddo, è buio e piove sempre, la casa è piccolissima e uscire è difficile, c’è traffico e la mamma non si sa orientare. Deve aspettare che Mahmud torni dal lavoro e l’accompagni: lui del resto non è contento che escano da soli.
Kadija indossa l’abito tradizionale e le sembra che tutti per strada la guardino in un modo strano. Ci sono persone che vanno di fretta, rumore, odori sconosciuti; non sempre si riescono a trovare le cose giuste per cucinare. Meno male che c’è da occuparsi tutto il giorno di Khaled, altrimenti la tristezza e la solitudine assalirebbero il cuore di Kadija. Lei è stata educata a essere una buona moglie e sa che deve seguire il marito, lui sa come muoversi in questo paese perché ci vive da tanto tempo. Ma lei non si aspettava un posto così brutto, e poi le cose costano molto care e soprattutto è sempre sola, non c’è nessuno con cui parlare, nessuno capisce la sua lingua e lei non sa leggere che cosa c’è scritto sui muri e nei negozi.
Questo racconto si potrebbe ripetere, con poche variazioni, per molte donne e molte famiglie che vengono a vivere da noi per cercare di dare ai loro figli delle opportunità di vita migliori.
Ci sono donne che partono sole, specie dai paesi latinoamericani, lasciando i figli alle madri e alle sorelle, pensando che presto potranno tornare a prenderli e portarli con sé, e poi magari passano cinque o sei anni perché le condizioni di vita sono molto più difficili del previsto, i viaggi troppo costosi e le procedure di ricongiungimento lunghe e complicate.
Altre partoriscono qui e mandano i bambini al paese perché non trovano soluzioni che rendano compatibili il lavoro e il loro accudimento. Anche con questi bambini la separazione è dolorosa e il ricongiungimento difficile. Altre infine riescono a vivere con il marito e i figli in Italia, ma devono sacrificare i legami con le famiglie d’origine rimaste al paese.
La storia dei bambini che crescono da noi non è sempre uguale; alcuni vanno benissimo, perfettamente bilingui, attenti e curiosi, imparano a transitare fra i due mondi e fanno della loro esperienza un arricchimento senza conflitti. Per fortuna questa è la maggioranza.
Per Khaled non è andata così.
Quando è entrato alla scuola materna ha sofferto molto della separazione dalla mamma, e anche lei è stata molto triste. Poi, pian piano, si è isolato e ha smesso di comunicare, persino con la madre. Le insegnanti di seconda elementare, quando lo segnalano agli psicologi, dicono che il bambino non parla né italiano, né arabo, né berbero, anzi non capisce quando la mamma gli parla e caso mai sa un po’ di italiano che parla con il padre quando torna a casa la sera. Naturalmente ci sono grosse difficoltà per imparare e per comunicare con i compagni, anche se tutti hanno l’impressione che si tratti di un bambino intelligente. Il suo pensiero sembra bloccato, ma gli occhi sono vivissimi. Le maestre sono consapevoli che questo bambino non rientra nelle valutazioni alle quali sono abituate.
Lavorando con la famiglia, con l’aiuto di una mediatrice linguistico-culturale, possiamo ricostruire la storia della migrazione, della sofferenza della mamma per la solitudine e la difficoltà di inserimento in Italia, della sensibilità del bimbo verso gli stati emotivi della madre e della difficoltà a impegnarsi nel mondo di accoglienza per paura di lasciarla sola. Pian piano, con molto aiuto, Khaled ha cominciato a imparare a scuola e la mamma ha imparato a uscire qualche volta da sola o per accompagnarlo.
Se non entriamo in un contatto diretto con le persone che vengono da altri paesi, ma soprattutto se non riflettiamo con molta attenzione intorno alle emozioni che si attivano nei diversi momenti della vita dei singoli e delle famiglie, non possiamo identificarci con le loro difficoltà e i loro bisogni.
Prima di tutto occorre un esercizio che nessuno ci ha insegnato: il «decentramento culturale». Dobbiamo cioè renderci conto che i nostri parametri di riferimento sono culturalmente determinati, sono cioè all’interno dei valori, delle abitudini, dei giudizi e delle spiegazioni che ci mette a disposizione la nostra cultura di appartenenza. In altri paesi la cultura di appartenenza è diversa e fornisce altri parametri. I gruppi sociali si sviluppano all’interno di processi di condivisione culturale. Quando si emigra si produce una rottura nell’appartenenza culturale e si vive una situazione di estraneità che spesso è molto più forte e dolorosa di quanto ci si potesse immaginare prima del viaggio.
La metafora dell’involucro culturale rende bene l’idea di una membrana protettiva che al tempo stesso costituisce l’ambiente nel quale ci si struttura e si dà senso agli eventi, e il limite all’interno del quale i significati e le rappresentazioni possono essere condivisi con gli altri che si muovono all’interno del medesimo ambito.
Tutti facciamo riferimento a un involucro culturale, ma non ne siamo consapevoli perché è al suo interno che costruiamo la nostra identità e la condivisione con gli altri del nostro mondo di rappresentazioni. È solo quando l’involucro si lacera, perché cambiamo paese o perché veniamo in contatto con persone diverse da noi, che ci rendiamo conto della nostra posizione e del sentimento di alterità che il diverso suscita in noi.
Le persone migranti, in qualsiasi condizione avvenga la loro migrazione, vivono il trauma della rottura del loro involucro culturale. Come Kadija, si sentono in un luogo freddo perché non amichevole, non familiare, non accogliente, non rassicurante, nel quale non solo la lingua, ma anche i gesti e i significati dei comportamenti sono incomprensibili, dove le persone sono estranee e poco accoglienti, hanno modi di fare diversi e fanno sentire la solitudine e l’anonimato. Ognuno pensa per sé e gli sguardi sono indifferenti, nessuno capisce quali siano i bisogni o le difficoltà nelle quali ci si muove; le educatrici vogliono cose incomprensibili e la scuola ancora di più.
A Kadija sembrava che le maestre si facessero rispettare poco dai bambini, che non fossero severe come al suo paese. Lei peraltro era andata a scuola pochi anni e aveva molto rispetto dei suoi insegnanti, anzi, ne aveva paura. Quando li incontrava abbassava lo sguardo. Qui è tutto diverso. Lei non va a parlare con le maestre, tanto non capirebbe nulla. Ci va qualche volta il marito, che capisce l’italiano molto più di lei, ma anche lui non sa che cosa fare con il bambino, cerca di fargli svolgere i compiti ma lui non riesce, non ne ha voglia o non è capace.
Anche Marc e Aida non vanno mai a parlare con gli insegnanti dei loro figli perché non capiscono abbast...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. E Le Mamme Chi Le Aiuta?
  3. Ringraziamenti
  4. Il perché di questo libro
  5. I custodi dei fiori (Inizio)
  6. Parte prima. L’ALLEANZA CON I GENITORI
  7. Parte seconda. GIOIE E FATICHE DEL DIVENTARE GENITORE
  8. Parte terza. AIUTARE I BAMBINI A VIVERE LE PROPRIE EMOZIONI
  9. Parte quarta. AFFRONTARE I PROBLEMI DI NORMALE E STRAORDINARIA QUOTIDIANITÀ
  10. Parte quinta. AFFRONTARE I PROBLEMI LEGATI AI CONFLITTI
  11. Parte sesta. NON AVER PAURA DELLA PSICOLOGIA
  12. Parte settima. CRESCERE INSIEME
  13. I custodi dei fiori (Fine)
  14. Note
  15. Bibliografia
  16. Note biografiche
  17. Dello stesso autore
  18. Copyright