Marco Simoncelli e Paolo Beltramo
DIOBÓ, CHE BELLO!
Ai nostri genitori che,
coi loro sacrifici, ci hanno
permesso di far parte,
ognuno a modo suo,
del meraviglioso mondo
delle corse.
Sono convinto che si possa raccontare una vita, anche se non è facile. È quello che ho tentato di fare insieme a Marco Simoncelli con la sua, di vita. Marco è ancora un ragazzo, ma ha vissuto molto e molto intensamente, ha percorso cammini comuni ma si è anche inerpicato su per sentieri audaci, impervi, insoliti, arrivando dove pochi giungono. È uno sportivo, è giovane, ma ha valori, solidità interiore e chiarezza morale da persona adulta. La sua forza probabilmente sta in questa straordinaria mistura di bontà e cattiveria, virtù e leggerezza, serietà e ironia. Parlare di lui, della sua storia è stato divertente, soprattutto perché Marco è un oratore allegro, naturale e spontaneo, assolutamente interessante e sincero. Quello che invece trovo difficile è dividere una vita in parti, in capitoli. A mio modo di vedere, la vita, qualsiasi vita, è un tutt’uno. Può scorrere a fasi, ma è comunque lo stesso alveo che la contiene. Che lo si chiami destino, scelta o qualunque altra cosa, resta un divenire, un cambiare, un continuo modificarsi senza però mai spezzare del tutto quell’unicità, quella continuità, quel filo. È questo il motivo che ci ha spinti, in linea di massima, a non spezzettare questa vita, cioè questo libro, in fasi, ma a legare un episodio all’altro per assonanza, o, al contrario, per dissonanza. Abbiamo cercato così una fluidità, una gradevolezza d’insieme senza curarci – almeno fino a un certo punto – dell’epoca, della collocazione e della coerenza temporale. L’obiettivo è stato quello di dare una visione d’insieme, di raccontare chi è Marco Simoncelli, uomo e campione, in modo che alla fine vi sembri di conoscerlo, e piuttosto bene. Abbiamo anche cercato di essere divertenti come lo è solitamente lui. Scherzando, raccontando, svelando, soprattutto dicendo sempre, e sottolineo sempre, la verità, il suo punto di vista. Senza nascondere nulla. Buona lettura.
P.B.
C’è un viottolo sinuoso, fasciato da una fila ininterrotta di alberelli, che da casa mia porta alla strada comunale. Saranno centoventi metri, ma io per anni l’ho visto, e interpretato, come se fosse il circuito più lungo e bello del mondo. Quelle poche curve infinite nel corso degli anni le ho percorse in tutti i modi e in tutti i sensi, mi ci sono fatto (più o meno) male in moto, in scooter, in bicicletta, in pattini, di sicuro anche a piedi… Il botto più clamoroso, l’incidente più “bello”, quello più spettacolare – a pensarci adesso, non a farlo – è stato il frontale con l’Opel Corsa di mia zia. Avevo in mano lo scooterone di mio papà, all’epoca – era il 2001 – un Majestic 250 che ovviamente, a quattordici anni, non potevo guidare, anche se glielo prendevo sempre per fare su e giù in cortile, lungo la stradina alberata dove non si vede quello che c’è dopo una curva, dovunque, anche se non uscivo in strada. Mia mamma mi aveva avvertito di stare attento, che la zia sarebbe venuta a portare su la nonna, ma a me che me ne fregava se poteva arrivare qualcuno? Ero reduce dal primo podio conquistato nella gara precedente del Trofeo Honda 125 al quale partecipavo dopo una vita in minimoto e alla sera di quel giovedì saremmo partiti per il Mugello per disputare un’altra gara. Insomma, ero molto motivato, gasato e andavo avanti e indietro a tutta velocità come un deficiente (tanto a quattordici anni, uno che testa può avere?) finché a un certo punto – sarò stato a ottanta all’ora – vedo spuntare da dietro una curva il bianco della macchina di mia zia: neanche il tempo di realizzare, che l’avevo già centrata in pieno. Una grandissima legnata e io, ovviamente, ero in maglietta, costume, ciabattine e basta. Niente casco, niente di niente. Insomma, diobò, tiro una musata storica e quando mi rialzo tutto rincoglionito la prima cosa che vedo è mia zia che non riesce a uscire dalla macchina: dal botto le avevo accorciato la fiancata e la portiera si era incastrata. Io invece mi ero aperto una gamba, rotto un dito del piede, ero completamente coperto di sangue, ma soprattutto avevo cacciato una smusata pazzesca: mi ero tagliato tutte le labbra, che si erano andate a incastrare nell’apparecchio per i denti. Mi hanno dato una quindicina di punti nella gamba, una ventina in bocca perché il labbro inferiore si era scollato ed era caduto giù. I denti mi ballavano tutti e in pratica è stato l’apparecchio che li ha tenuti insieme: difatti il dentista mi ha detto che forse qualcuno saremmo riusciti a salvarlo. Un macello: ero ridotto abbastanza male, insomma. Alla fine mia zia è uscita da sola dalla macchina e quando è arrivata mia mamma, che aveva sentito il botto ed era corsa lì, l’ho rassicurata, coperto di sangue come uno zombi, dicendo di non preoccuparsi, che andava tutto bene.
Ah! il Mugello! Quella volta, poi, non ci siamo andati, ero messo troppo male. Sono rientrato un mese dopo a Vallelunga. All’epoca correvo nella squadra di Massimo Matteoni, un ex pilota, ottimo tecnico e talent scout dal carattere un po’ particolare: burbero, ruvido, ma sincero e buono. Quando sono arrivato in pista, appena mi ha visto, mi ha chiesto in dialetto come andava. Io ho risposto che, insomma, era dura, che facevo un po’ di fatica. E lui, sempre in romagnolo stretto: «Sa’ vot, dop es pass sot e treno!». Al primo turno di prove sono scivolato. Sono tornato ai box un po’ scosso e Matteoni, quando stavo per rientrare in pista per la sessione successiva, mi ha detto: «Te, Simunzell, va pien, nun fè dan, sno at tir è coll». A modo suo mi ha fatto capire che forse era meglio che stessi un po’ più attento, che mi dessi una calmata. Magari a leggerlo qui l’impressione è che Matteoni sia difficile da interpretare, ma se lo conosci e lo vedi, se cioè associ audio e immagini, tutto diventa più semplice: crede di avere sempre la stessa aria impassibile e un po’ da bullo tipo film americano, perennemente nascosto dietro il fumo delle sue sigarette, invece è espressivo da matti e non riesce a nascondere quasi niente delle sue emozioni e dei suoi stati d’animo. Comunque, di sicuro non quando è incazzato o preoccupato per te. Forse vuol sembrare un duro perché in realtà è buono come un pezzo di pane.
Quella là al Mugello è una delle poche corse che ho saltato nella mia vita. L’ultima in Qatar, quest’anno, per la frattura dello scafoide destro. Ho provato a correre, in realtà, sono andato a Losail, mi sono messo tuta, casco, stivali e guanti e sono salito sulla mia Gilera da Campione del Mondo, ho girato, provato, ma prima delle qualifiche ho capito che non ce l’avrei fatta a guidare come sarebbe servito per disputare un Gran Premio. In più avrei corso dei rischi inutili anche in previsione del GP del Giappone di quindici giorni dopo. Questa volta mi ero fatto male alla Cava, un posto dove vado insieme a Valentino Rossi ad allenarmi. La Cava è un luogo, ma è anche una filosofia, una “setta”, un gruppo, un modo di essere. Dietro il nome che descrive un luogo (cioè proprio una cava abbandonata o quasi) c’è dell’altro, molto altro. All’inizio della mia carriera mi ha aiutato tanto Roby della Starline, che conosceva Valentino Rossi perché lavorava con Aldo Drudi aiutandolo a verniciare i caschi del Doc. È stato lui che ha chiesto a Vale se potevo andare alla Cava anch’io.
La Cava è un’invenzione del papà di Valentino Rossi, Graziano che, quando correva e anche dopo, voleva migliorare il controllo della moto in condizioni estreme e per farlo ha ideato vari sistemi: già all’inizio degli anni Ottanta nei periodi fuori stagione andava in spiaggia a Pesaro con moto da enduro e una gomma slick (di quelle da pista, a battistrada liscio) per guidare in derapata sul bagnasciuga e così si allenava in condizioni estreme di aderenza. Insomma, Graziano è il “Guru” del “traverso”, della derapata sia in moto sia con qualsiasi altro mezzo si possa mettere in controsterzo. La storia della Cava è lunga, io ho cominciato a farne parte dopo molto tempo, nel 2001, appunto, e ho trovato un ambiente fantastico: ci si diverte come pazzi ad andare in moto insieme, poi quando si finisce si resta lì, a parlare della giornata e a cazzeggiare. C’è nell’aria un amore unico per la moto, chiunque ami questo mezzo sotto qualsiasi forma (cross, enduro, speedway, velocità, superbike, quello che volete) tra quelle persone si sente a casa. Lì facciamo delle bagarre, delle lotte dove diamo la vita come in una gara di Mondiale decisiva per il titolo. Anche perché quello, pur nella sua “clandestinità”, nel suo non essere riconosciuto da nessun ente o federazione, è un campionato: il “Campionato Mondiale Trasversale”.
È un gruppo di gente ultracompetitiva: anche se per qualcuno di noi, come me, Rossi, Sanchini, De Rosa e Guareschi si tratta di allenamenti (sia alla Cava sia col cross) perché facciamo i piloti per mestiere. Insomma, sarà anche un allenamento, ma alla fine si deve disputare almeno una manche con relativa rivincita e “bella” finale. Naturalmente, chi spinge di più per dare vita a queste gare tiratissime siamo noi piloti professionisti. E per chi arriva dietro, oltre allo smacco della sconfitta (e vi giuro che è la cosa peggiore) ci sono un sacco di prese per il culo fino alla volta successiva. Il “Guru” della presa in giro è Sanchini, uno che è bravissimo a innescare la polemica, a toccare i tasti dolenti, manco fosse un giornalista di quelli del calcio che gridano sempre. Sanchini, però, ha anche molti pregi, il principale dei quali è fornire il servizio catering: porta sempre per tutti salame, pane, vino rosso e acqua frizzante (rigorosamente gelata e conservata in appositi contenitori termici). Quando prende paga nella prima manche, cerca sempre di spingerci ad assaggiare il suo rosso per poi poterci suonare nella rivincita: chiarisco, perché non si pensi che giriamo dopo aver bevuto, che si tratta di un sorso; saremmo comunque ben al di sotto dei limiti per litro di sangue ammessi dalla legge. Ma noi non ci caschiamo più, anche se si tratta di un dito di vino allungato con l’acqua minerale, un po’ come fanno i contadini d’estate per dissetarsi. La prima volta che ho girato alla Cava ero un disastro, non sapevo proprio come si faceva e, diobò, da Vale avrò preso 25 secondi al giro! All’inizio era molto divertente perché usavamo moto usate, vecchie, roba che la più costosa valeva, forse, duecento euro. Ce n’erano una ventina, andavi lì, ne prendevi una, giravi, poi la rimettevi al suo posto un tantino più usurata. Un po’ alla volta, però, si sono rotte tutte e allora abbiamo dovuto comprarci quelle buone da noi. È dal 2001-2002 che ci bazzico e sono un paio d’anni che ho imparato ad andare forte davvero, che vado più o meno come Vale e difatti facciamo delle gare tiratissime.
Ma quella volta della frattura allo scafoide Vale era abbastanza più in forma di me e ho intuito subito che per girare come lui avrei dovuto prendere qualche rischio, andare un po’ oltre il mio limite. Però niente, figurarsi se mollavo: d’altronde, per un pilota è naturale ragionare così. Come sempre anche quella volta abbiamo disputato delle manche. Per stargli dietro già nella prima mi sono steso: ho dato un grande striscione per terra, però non è successo niente, sono cose normali e difatti non mi sono fatto male. Mi sono rialzato e sono ripartito nella seconda manche ricevendo intimamente la conferma che quella volta di essere competitivi non se ne parlava. Però – come spesso accade a molti, non soltanto a me – anche se percepivo che stavo facendo una cazzata, sono andato avanti, ho insistito, e la cazzata l’ho fatta davvero. È andata così: sono uscito un po’ largo da una curva, la ruota posteriore ha puntato contro un mucchio di terra e la moto mi ha disarcionato lanciandomi in aria. Il problema è che sono atterrato male sulla mano destra. C’era un greppo e sono finito giù dal greppo. Quelli che sono arrivati dopo credo abbiano pensato che fossi morto perché hanno visto la moto in bilico sull’orlo del greppo, mentre io non c’ero più. Invece ero vivo e sono riuscito a rantolare fuori e niente, avevo capito abbastanza subito che mi ero rotto qualcosa. Quando ti rompi un osso, lo sai immediatamente se hai la mia esperienza. La sfiga è stata che si trattava dello scafoide, uno degli otto ossicini che formano il polso o carpo (da qui metacarpo) e per di più di quello destro. Per un pilota la frattura dello scafoide è una delle peggiori perché (se è a destra) ti fa male quando ruoti il polso per dare gas, quando apri la mano per frenare, quando devi controllare le sbacchettate dei manubri, quando devi appoggiarti in frenata. E poi di solito è una cosa lunga, tipo quaranta giorni. Con me, invece, hanno utilizzato una nuova tecnica che usa una vite a doppio passo che quando la giri avvicina i due pezzetti e li tiene lì attaccati in modo che si saldino più in fretta. La gara del Qatar l’ho però dovuta saltare lo stesso, ma era in calendario soltanto quindici giorni dopo la caduta e non potevo neanche pretendere tanto. Però posso dire di averci provato di brutto. Facevo una doppia terapia al giorno: una a Imola presso uno studio di fisioterapisti della Clinica Mobile, l’altra a Pesaro nella struttura che fa parte della palestra dove mi alleno. Poi ogni sera, prima di dormire, 45 minuti di magnetoterapia e creme, bendaggi, una grande attenzione a tutto. Più di così, davvero, non avrei potuto fare, perciò sono riuscito a essere abbastanza sereno anche quando ho dovuto vedere gli altri correre mentre io ero ai box e dovevo ingoiare quel boccone così amaro.
Il mio atteggiamento nei confronti della vita mi ha sicuramente aiutato anche in questo frangente. Credo che si debba essere sì coscienziosi in quello che si fa, ma anche che sia giusto non prendersi troppo sul serio, che si debba trovare una via di mezzo. Quando riesci a essere di buon umore, quando ridi e sei sereno le cose ti riescono anche meglio. Mi sono rotto lo scafoide, ho dovuto saltare una gara, è chiaro che mi tirava il culo, però alla fine se sei nella merda devi trovare il modo di venirne fuori, devi cercare di essere positivo, magari devi riuscire anche a riderci sopra. Non dico di ridere su tutte le cose che ti capitano, se no sei un deficiente, però, nella dose giusta, secondo me fa bene vedere le cose dal loro lato positivo e divertente.
Come credo tutte le mamme, o quasi, anche la mia, Rossella, all’inizio non era precisamente contenta che suo figlio corresse in minimoto. Ma una volta, dopo un sacco di inviti, è finalmente venuta a vedere una mia gara e da lì in poi ha cambiato idea. Aveva visto la mia passione, la mia gioia, cose che contavano più del fatto che io andassi anche forte (era chiaro che fossi nato per quello, che fosse il mio mestiere…) e aveva capito, si era trovata d’accordo col babbo. E cioè che ai ragazzini di dieci, dodici, quattordici anni non si possono togliere gli obiettivi, non si deve impedire di inseguire i propri sogni. Il che, credo, è anche un buon antidoto contro i molti rischi dell’adolescenza, della gioventù. Una specie di assicurazione contro i pericoli di questo mondo, come la droga.
A me correre piaceva da matti. Tutto è cominciato un giorno che abbiamo fatto una gita a Offida, vicino ad Ascoli Piceno, il paese d’origine dei miei nonni materni, e al ritorno ci siamo fermati alla pista di Cattolica, dove abbiamo deciso di provare. Ma io ero già gasatissimo con le moto, mi piacevano da matti, facevo finta che la bici avesse il motore. Insomma, non è stato il babbo a forzarmi, lui mi ha semplicemente portato, aiutato.
Il babbo e la mamma hanno due caratteri che definirei opposti. Paolo è un tipo che si può dire focoso, uno che si scalda in fretta, che ogni tanto rimane accelerato. Diciamo che ha il minimo un po’ alto. Rossella, invece, è più pacata, riflessiva. Insomma, anche se pensano la stessa cosa hanno spesso due modi opposti di dirla. Credo che così si bilancino perfettamente: uno accelera, l’altra tira il freno, quindi alla fine vanno alla giusta velocità. A vederli da fuori sembra sia il babbo quello che decide tutto, che conta di più, invece dev’essere sempre d’accordo anche mia mamma, altrimenti non se ne fa niente.
Oggi non è più come un po’ di anni fa. Allora poteva anche succedere che gli sponsor venissero a cercarti, ora, indipendentemente dalla crisi, un po’ meno. Quando ho cominciato io, per esempio, andavamo in giro io e il babbo e sembrava che chiedessimo l’elemosina, che implorassimo aiuto. Mio padre diceva: «C’è ’sto ragazzino che va bene, comincia adesso…», cose così e per uno che ti dava una mano, ce n’erano dieci che ti mandavano a quel paese. A quei tempi il babbo consegnava il gelato di sua produzione ai bar, uno dei quali era l’Angolo Bar di Ospedaletto, un paese vicino alla Repubblica di San Marino. Il proprietario, Anselmo, ha preso a cuore la mia situazione e ha cominciato a sua volta a rompere le balle a tutti i suoi clienti e fornitori. È lui che ci ha fatto conoscere il primo dei nostri sponsor, Mario Pascucci, quello del caffè, che ha cominciato ad aiutarmi nell’anno del Trofeo Honda e continua a farlo ancora oggi. Queste due persone sono state fondamentali. Anselmo ci ha messo in contatto con mille persone, pensate che è andato addirittura a tampinare un suo amico che non vedeva da trent’anni e che aveva un’azienda in Toscana. Un’altra grossa mano ce l’ha data Salvatore Schiesaro della Mecome, un’azienda di robotica della zona. Mi ha aiutato finché ha potuto e quando le cose hanno cominciato ad andargli meno bene, ci ha presentato un sacco di altre persone, una catena di conoscenze che mi ha permesso di arrivare fino a oggi. Adesso, ovviamente, qualcuno mi cerca, ma insomma, è facile dire che uno è maschio dopo che gli hai visto i maroni, mentre invece credere in un ragazzino che viene dalle minimoto presuppone bontà d’animo e fiducia non comuni. Ma forse la ...