Per la prima volta nella Storia si presenta dunque un paradosso difficile da comprendere, che suona più o meno così: manca il necessario e abbonda il superfluo.
MARCO LODOLI, Il rosso e il blu
La notorietà sostituisce la fama. Il noto miliardario, in un’automobile di una nota marca, va a spasso con una nota attrice. I settimanali notano l’avvenimento, parlano di matrimonio. Il noto miliardario e la nota attrice smentiscono. I settimanali pubblicano allora le loro biografie. E così di seguito. Si cercano nuovi miti.
ENNIO FLAIANO, Taccuino 1954, da Diario notturno
Como las cosas humanas no sean eternas, yendo siempre en declinación de sus principios hasta llegar a su último fin, especialmente las vidas de los hombres, y como la de don Quijote no tuviese privilegio del cielo para detener el curso de la suya, llegó a su fin y acabamiento cuando él menos lo pensaba.
MIGUEL DE CERVANTES, Don Chisciotte
La lancia taxi increspa l’acqua di piombo del Canal Grande con un muggito grave. Alberto, che da principio aveva deciso di sistemarsi in cabina, per non prendere freddo (è vestito con un abito scuro leggero comprato per l’occasione e con la supervisione di Ilaria), ha cambiato idea. È uscito all’aperto, a prua, e si è seduto sullo strapuntino dietro al conducente, per sedare gli accenni della claustrofobia e l’inquietudine leggera. Perché questa è Venezia. Una città ostile agli ansiosi. Venezia ce l’ha coi claustrofobici, coi colitici, coi paurosi in generale. Ti abbraccia delicatamente, col suo manto generatore di panico indefinito. Ti coglie, a poco a poco, la sensazione che potresti essere in pericolo, a Venezia. Ti rendi conto che potrebbe accaderti qualcosa, di reale o irreale, non importa, e che ci potrebbe essere sempre troppa acqua da attraversare fra te e la salvezza. Alberto ha avvertito questa sensazione, mentre stava seduto in cabina. Un inizio di panic attack. Il potenziale ritorno dei sintomi del suo male d’altri tempi. Per questo ha deciso di bloccare sul nascere il montare della paura, uscendo all’aperto, con la brezza umida che gli sbatte in faccia e respirando lentamente di diaframma. Non è niente. Tutto tranquillo. È soltanto questa strana e stupefacente città morta. Sono le sette della sera, ed è l’imbrunire, perché l’estate è finita e le giornate si sono accorciate.
Sulla scia di quella di Alberto, a una decina di metri di distanza, un’altra lancia naviga. Con una lenta accelerazione, comincia un sorpasso sulla sinistra. I motoscafi sono affiancati, i due conducenti si salutano con un cenno della mano. Coi capelli appena scompigliati dal vento, Alberto punta lo sguardo sulla barca accanto. Di fianco al conducente c’è un uomo imponente in completo beige. È alto quasi due metri e se ne sta in piedi, fiero come sfidasse qualcosa, con le mani in tasca e gli occhi fissi a prua. Sembra non accorgersi di avere un altro motoscafo vicino. Alberto lo osserva con più attenzione. Ha i capelli neri raccolti in una coda, e una brutta faccia da messicano, incorniciata da giganteschi baffi a manubrio. Lo riconosce. Il brutto ceffo è Danny Trejo*.
Alberto guarda meglio. Qualcuno sta uscendo dalla cabina, a poppa. Una bionda, molto alta e piuttosto robusta, in abito da sera nero. Tacchi a spillo, probabilmente. Alberto non riesce a vederli, dalla sua posizione sul motoscafo, ma li avrà sicuramente. Vertiginosi tacchi. Perché traballa incerta, come chi va in barca senza le scarpe adatte. Una vichinga. Stringe in mano una pochette scintillante, e sembra molto divertita. Oppure alticcia, come dopo un paio di Martini cocktail. Sbraita qualcosa, con poca eleganza, a qualcuno che è rimasto in cabina. Danny Trejo, a prua, continua a rimanere impassibile. Il qualcuno in cabina – adesso Alberto lo può vedere chiaramente perché è uscito all’aperto per godersi il tramonto e il panorama dei palazzi che scivolano via sul Canal Grande – è Quentin Tarantino. Con scaltrezza dà un pizzico sul culo alla vichinga e poi scoppia a ridere di gusto, a voce altissima. Tanto da catturare l’attenzione del tassista e di Danny Trejo che, per un attimo, si voltano a guardare cosa diavolo stia succedendo. Poi, tranquillizzati, tornano al loro scrutare, silenziosamente, avanti. Non è successo niente, non c’è motivo di agitarsi. “È solo un regista americano, già un po’ brillo, che fa il gagà con la svedese” penserà il conducente. Giochi da ricchi stronzi, vezzi di famosi. E intanto il motoscafo vip, muto come un caimano, ha terminato il suo sorpasso.
Il luogo, la location, come si dice a Milano e in tutta l’Italia che si ispira a Milano, verso cui è diretta la lancia di Alberto, è Palazzo Papadopoli. Mentre il sole sta ormai per tramontare definitivamente, il motoscafo rallenta e comincia ad accostare al piccolo molo di attracco. Durante la manovra di avvicinamento, Alberto sente arrivare un nuovo leggero moto d’ansia. Riflessi rossastri sull’acqua scura del canale, riflessi dorati che rimbalzano dai vetri delle finestre di quella dimora patrizia e si disperdono nell’infinito, danno alla visione connotati irreali. Due pinnacoli sul tetto sormontano la facciata. Due piccoli obelischi appuntiti che, a voler a tutti i costi vedere in ogni architettura un volto umano, si potrebbe insinuare che quel volto è quello di un diavolo cornuto. Alberto non ha visto altri palazzi, a Venezia, con quel tipo di guglie. Forse è la sindrome di Stendhal. Forse è lo sgomento irrazionale che prende di fronte alle grandi opere d’arte dell’antichità, alle architetture di tempi che si intuiscono esser stati splendidi e adesso passati per sempre. Opere significanti dell’uomo, che spaventano perché nascondono storie. Gli antichi palazzi mettono paura perché, guardandoli, ci spingono a immaginare. A immaginare chi ci ha vissuto, nella gioia e nel dolore. Gli antichi palazzi narrano e stimolano la narrativa. Noi, turisti, li osserviamo. E ci basta avvistare una colonnina neoclassica, o una guglia, o soltanto camminare sotto un arco o accanto a un affresco, per essere rapiti da forze oscure. Inevitabilmente, siamo costretti a indovinare la vita vissuta lì, da qualcun altro, o addirittura a inventarne una, anche soltanto plausibile. La vita fantasma. Palazzo Papadopoli, costruito nella seconda metà del XVI secolo su progetto del bergamasco Gian Giacomo dei Grigi, figlio del più noto architetto Guglielmo dei Grigi, ne ha contenute di vite, e di storie. Storie di aristocrazia, di lusso, di fasto, di potere. La facciata è disposta elegantemente su tre livelli ornati di monofore, serliane e balaustre. Attraverso il grande portale a tutto sesto del pianoterra, la bocca del diavolo cornuto, che donne e che uomini saranno passati, in tutto questo tempo! E verso quali convivi, segreti o no, si saranno diretti...
Alberto divide coi denti una pastiglia di Xanax e se la inghiotte senz’acqua.
Mentre cerca di scendere dalla lancia, si accorge che sul lungo pontile si è già formata una fila. Coppie, per lo più. Eleganti mariti di una certa età, eleganti mogli più giovani. In attesa dell’ingresso trionfale a palazzo. Dall’interno dell’arco d’entrata già balenano i lampi dei fotografi. Alberto si mette in coda, pazientemente, con la busta di carta pregiata contenente il suo invito tirata fuori dalla tasca della giacca e stretta in mano. Qualcuno comincia a salutarsi. «Che bello, anche tu qui?» «E certo, non si può mancare!» «Stai benissimo, era tanto che non ci si vedeva.» Alberto nota che si è formato dietro di lui un capannello di gente. Una specie di grumo nella coda. All’interno del grumo, perso nel vortice dei convenevoli, c’è Lapo Elkann. È vestito di celeste chiaro, tono su tono col colore dei begli occhi azzurri, e al suo fianco c’è la fidanzata. Mentre Lapo, incessantemente, si dà da fare nel suo lavoro di strette di mano, saluti affettuosi e pacche sulla spalla (queste ultime non permesse dai codici del galateo di una volta, ma divertenti anche in questi contesti, per il loro potere di sdrammatizzare e rendere più giovane e informale la situazione), la ragazza si limita a sorridere. La creatura è una gazzella tonica. E lei stessa se ne rende conto. È molto mora, alta, magra e con i seni gonfi e rotondi (così perfetti e sproporzionati rispetto al corpo che inducono sospetti di chirurgia plastica d’alto livello), come iconografia della Gran Fica d’Oggi comanda. Indossa, su un’abbronzatura così intensa da risultare fosforescente, un abitino bianco abbagliante tagliato al sedere e vertiginosamente aperto sulla schiena. Per un attimo riesce a intromettersi in una delle conversazioni di cortesia del fidanzato, tirando fuori una voce sottile da ragazzina viziata dei Parioli. Ha l’accento, vagamente romano, delle nuove annunciatrici Rai.
È il momento. Un respiro profondo di diaframma e si varca l’ingresso. Calpestando il tappeto rosso, si notano i vasi di orchidee bianche sistemati ovunque. Una ragazza in uniforme da sera dell’organizzazione saluta Alberto con un gioviale: «Buonasera e benvenuto!», e gli prende l’invito di mano.
«Può accomodarsi sulla sinistra, dove troverà il giardino. Abbiamo preparato un piccolo aperitivo di accoglienza.»
«Intende l’arco a sinistra?»
«Esatto, proprio dopo i fotografi.» Giusto. Adesso li può vedere bene. Saranno una cinquantina, disposti su una gradinata allestita per l’occasione. Fronteggiano impavidi gli invitati che entrano alla festa. Scattano a ripetizione. Scattano e chiamano per nome i fotografandi, nella speranza di catturare uno sguardo in macchina. Alberto passa davanti alle forche caudine accecanti senza troppi problemi, non si ferma neppure un attimo per sfidare i fotografi, e testare quanto siano effettivamente bravi a riconoscerli tutti, i vip italiani e del mondo. Non finge di essere un famoso. No, passa a testa bassa senza fermarsi. Superato l’ostacolo, decide però di mettersi a osservare un po’ di passerella. È qui per questo, in fondo. Si posiziona all’ingresso del breve corridoio che porta all’esterno, verso il giardino; poi, senza che nessuno lo noti, incrocia le braccia e si appoggia a uno stipite. È calmo. L’ansia è fugata, con un po’ di autocontrollo, respirazione e minimo aiuto chimico. Si gode lo spettacolo. La maggior parte degli invitati che sfilano davanti ai fotografi, per posare sorridenti (quel sorriso impostato, simbolo di potere e di consapevolezza dell’appartenere a una razza lucente e superiore), gli è assolutamente sconosciuta. I primi sfilanti che Alberto riconosce sono ancora Lapo Elkann e fidanzata. La coppia fluorescente. “E ti pareva” pensa Alberto con un po’ di disprezzo. “Figuriamoci se dopo mezz’ora buona di false presentazioni all’ingresso si lasciavano scappare l’orgia dei flash.”
Fanno quel che devono fare, poi si defilano e un’altra coppia prende il loro posto. Alberto ha già visto il volto di lui da qualche parte, ma non riesce a ricordare chi sia. Forse un attore americano, di quelli nuovi, e di culto. Da Sundance Festival. Sembra una rockstar: ha i capelli castani, lunghi e incerati, gli occhi azzurri. La barba sembra di cinque giorni ma è, in qualche modo, curata. La giacca squamata di rettile riverbera la luce degli scatti delle macchine fotografiche e la respinge ai mittenti. Il maledetto senza nome posa davanti ai fotografi con una accompagnatrice. Per un attimo Alberto pensa che sia Jessica Alba, ma non è così. Non è nessuno, probabilmente. È soltanto la donna del maledetto, ed è il maledetto a essere famoso, a giudicare dal comportamento dei fotografi, che scattano e pronunciano in continuazione la parola “John”. John, con la sua giacca di pelle di serpente, l’aria stordita e il sorriso ebete dei belli, stringe a sé la compagna e lascia che la propria immagine venga consegnata all’immortalità. Sembra non rendersi conto che persino l’immortalità, oggi, può durar poco.
La donna del maledetto abbraccia il proprio uomo, felice. Poi, per un attimo, distoglie lo sguardo dal fidanzato e dai fotografi. Gira la testa di lato. Ha riconosciuto qualcuno. «Ciao, Paola! Ci vediamo fra poco!» strilla giuliva. Allora Alberto capisce che è italiana. John e l’italiana. Un’italiana di vent’anni, alta, anoressica, abbronzata, che Cavalli ha vestito da moderna cowgirl. Minigonna, bracciali di cuoio, texani. Dopo il momentaneo cortocircuito del saluto a Paola, la ragazza torna con più convinzione ad abbracciare il proprio uomo. Perché l’abbraccio è l’atto più caldo e sincero fra esseri umani che si sentano innamorati, amici, o semplicemente cari. Eppure c’è qualcosa che non va. Ad Alberto il viso della cowgirl pare scollegato: non segue l’abbraccio, non è rivolto a John. È il viso di una bambina truccata con la bocca contratta in una smorfia copiata da quella delle modelle in croce sulle affissioni di Milano zona Moscova e su ogni immagine stampata o digitale dell’Editoria della Bellezza. In quel momento, è il viso senza amore di un mondo mercificato. Il mondo cambia, e non esistono più le puttane di una volta.
Il giardino del Palazzo Papadopoli è un quadrato ampio. Due lati del quadrato sono costituiti dalle pareti esterne del palazzo, che ha infatti pianta a L. Ci sono larghi tavoli rotondi, bianchi, sparsi sul prato qua e là. C’è poca illuminazione, e questo non aiuta certo il lavoro di Alberto. Dietro un grande tavolo ricoperto da una tovaglia bianca immacolata, un signore che riempie i bicchieri di champagne. Altri signori in uniforme girano lenti, ma senza fermarsi un momento, per tutta l’area del cocktail. Portano vassoi d’argento con bicchieri di cristallo e microscopici appetizer. Gamberetti rossi di Sicilia crudi, mozzarelline fiordilatte di Barletta panate e fritte, tartine di bottarga di muggine di Cabras, cubetti di Pecorino di Pienza, Castelmagno, Ragusano stagionato. Il cortile comincia a diventare affollato, adesso. Gli invitati, così aveva detto Carlo Antonelli, dovrebbero essere un centinaio. «Ma saranno sicuramente parecchi di più, con tutti i soliti imbucati. Sai, queste cose vanno così.» Alberto annuncia a se stesso che è il momento di cominciare a bere. Ha bisogno di sciogliersi un po’. Si fa riempire dal signore al tavolo con tovaglia bianca una flûte di spumante francese rosé. Lo tracanna quasi tutto d’un fiato, cercando di non farsi notare per non essere giudicato inelegante. Poi appoggia il bicchiere vuoto dentro un enorme vaso di fiori tropicali, e comincia a girare a caso all’interno del perimetro del giardino, fra la folla scura. Cerca di intercettare un nuovo cameriere con vassoio. Vuole berne subito un altro.
Un gruppetto si è riunito accanto a una magnolia rigogliosa in un angolo del cortile. C’è un tecnico che punta un faro, un altro con la videocamera e una ragazza col microfono. La minitroupe di TvModa sta cominciando a intervistare i presenti. Tra loro Francesco Bianconi, il cantante dei Baustelle, è ombroso e un po’ a disagio. Alberto ha sempre considerato lui e la sua band un po’ troppo snob. Ma crede anche, al contrario di Susi, che gli ultimi due dischi siano belli. La ragazza fa la domanda di rito.
«Che cosa ci fa Francesco Bianconi, leader del gruppo alternative del momento, al primo grande evento di gala della Mostra del Cinema?»
«Be’, alternative che vuol dire, innanzitutto? Va bene, ok. Credo che mi abbiano invitato perché i Baustelle hanno scritto la colonna sonora del film di Giuseppe Piccioni Giulia non esce la sera, l’anno scorso. Per questo, credo. Sì. Sono molto onorato dell’invito, anche se conosco poca gente qui, e non è proprio il mio ambiente ideale...»
“Bugiardo” pensò Alberto, che già lo aveva incontrato a Milano in occasione di altri eventi, e la notte, in giro, per bar come si suol dire “di tendenza”.
«Sono molto contento di essere qui, perché mi piace il cinema...»
«Certo...»
«... e poi, devo confessare che l’occasione di vedere Quentin Tarantino in carne e ossa non capita tutti i giorni...»
«Anche questo è vero... qual è il tuo film preferito di Tarantino?»
«Mah... non saprei... dunque, vediamo...»
Bianconi risponde un po’ troppo lentamente. L’intervistatrice, al contrario, spara parole a raffica.
«Ti aiuto io: preferisci il Tarantino pulp di Pulp Fiction, Le ...