Vi sono cimiteri solitari,
tombe piene d’ossa senza suono,
se il cuore passa da una galleria
buia, buia, buia,
come in un naufragio dentro di noi moriamo
come annegando nel cuore
come scivolando dalla pelle all’anima.
PABLO NERUDA, Residencia en la tierra
Tutti i fiori del futuro sono nei semi di oggi.
Antico proverbio cinese
Il ritorno che non ci sarà più
La mamma
più bella
del
mondo non c’era più
era via.
GIORGIO CAPRONI,
Il seme del piangere
Anima mia, leggera
va’ a Livorno, ti prego.
E con la candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancor viva tra i vivi.
GIORGIO CAPRONI,
Preghiera
Una volta, tanto e tanto tempo fa, in una foresta lontana nacque un cucciolo nella tana di mamma e papà tigre. E man mano che il tigrotto cresceva cominciò ad affezionarsi alla sua tana, così sicura e ben protetta da tutti i pericoli, dalle tempeste, dai temporali, dagli altri animali feroci e dalla minaccia dei cacciatori di tigri con i loro elefanti e fucili potenti che ferivano e uccidevano in un modo così strano, da lontano e non dopo un duro e furioso corpo a corpo da vicino, come facevano da sempre tutti gli animali della foresta, compresi mamma e papà tigre.
Ma di questa lotta per la vita il nostro cucciolo, appena arrivato al mondo, non aveva bisogno di preoccuparsi perché, come è sempre successo in tutti i tempi e per tutti gli animali viventi sulla terra, da che mondo è mondo, c’erano sempre la sua mamma e il suo papà che provvedevano a lui e a tutto quello che gli poteva servire per crescere e vivere nella foresta.
E così mamma tigre ogni giorno usciva dalla tana e andava a caccia per procurare il cibo per sé e per il suo cucciolo anche quando papà stava via per giorni e giorni a cacciare in territori lontani, e ogni sera il nostro tigrotto vedeva la sua mamma tornare sempre fedelmente alla tana col cibo che gli aveva procurato. E questo rito andò avanti per tanto tempo, sempre uguale, giorno dopo giorno e mese dopo mese, intanto che il cucciolo cresceva.
Qualche volta il cibo era abbondante, qualche volta era scarso, qualche altra volta la mamma tornava senza aver cacciato niente, ma di una cosa il tigrotto poteva essere sicuro: che lei sarebbe tornata puntualmente e fedelmente in ogni caso, con o senza cibo, per stare con lui, fargli compagnia, proteggerlo e riscaldarlo anche quando il cibo era poco o non c’era. E in ogni caso prima o poi sarebbe tornato papà con del cibo nuovo da lontani territori di caccia. La sua mamma era come il sole, che tornava puntualmente ogni giorno a rischiarare e a riscaldare la tana dopo il buio della notte, e di loro ci si poteva proprio fidare. La cosa che invece il nostro cucciolo non sapeva ancora era che quando si va a caccia nella foresta tante volte le cose possono andare bene, ma tante altre invece no.
Fu così che un bel giorno, proprio mentre papà era appena partito per un lontanissimo territorio, il tigrotto cominciò come al solito ad agitarsi nella tana in previsione del ritorno della mamma che era ormai uscita da parecchio tempo per andare a caccia.
“Adesso torna e mi porta come al solito del buon cibo!” pensava tra sé, pregustando già un buon pasto.
Ma il tempo continuò a passare e la mamma non tornava.
“Ho fame” si arrabbiava il cucciolo dentro di sé. “Perché non torna ancora? È proprio cattiva a lasciarmi qui da solo ad aspettare!” e si arrabbiava sempre di più con la sua mamma.
Ma per quanto lui ci pensasse e si arrabbiasse, la mamma non compariva proprio, anzi, sembrava svanita nel nulla.
Allora il cucciolo si mise ad aspettare vicino all’ingresso della tana, per poterla vedere mentre arrivava, ma neanche questo servì: era come se mamma tigre fosse svanita nel nulla. Alla fine il cucciolo si addormentò, sfinito dalla fame e dall’attesa, e le stelle che scivolavano silenziose sopra la sua tana percorrendo la volta del cielo per tutta la notte si intenerirono nel vederlo così spaurito e indifeso e lo protessero dalla vista degli altri animali feroci. Passò così il tempo e il nostro cucciolo era sempre fermo e addormentato all’ingresso della tana, ad aspettare fedelmente una mamma che era sempre fedelmente tornata.
Ma questa volta mamma tigre non tornò più.
Passò invece la notte e nel cielo cominciarono prima a brillare e poi a spegnersi le stelle, dopo averne attraversato tutto l’arco da un orizzonte all’altro, sparendo piano piano. E poi fu di nuovo il turno del giorno e si annunciarono le prime luci dell’alba, rosa e fedeli come sempre.
“Ecco, adesso torna il sole e arriverà anche la mia mamma!” pensò il cucciolo svegliandosi e ricominciò ad agitarsi nell’attesa. Il sole e la sua mamma per lui non potevano che esserci tutti e due: se arrivava uno certamente sarebbe arrivata anche l’altra.
E invece, aspetta e aspetta, il sole arrivò, si alzò anche lui nel cielo, percorse tutto l’arco della giornata fino a sera e poi piano piano cominciò a tramontare, ma di mamma tigre non c’era traccia. “Aspetterò ancora vicino all’ingresso della tana!” pensò allora il cucciolo e si accucciò di nuovo col musetto fra le zampe proprio all’entrata per poterla vedere subito al suo ritorno.
E così passarono i giorni, papà tigre era sempre lontano a procurare del buon cibo per tutti, ma mamma tigre non tornò più nella tana. Quello che il cucciolo non sapeva era che mentre tornava dal suo piccolo col cibo era stata uccisa da una delle pallottole che uscivano da quegli strani fucili che riuscivano ad ammazzare da lontano senza lottare. Ma il nostro tigrotto questo non poteva proprio saperlo: il suo mondo fino ad allora era sempre stato limitato alla sua tana.
E così passarono i minuti, le ore, i giorni e le notti, ma nessuno di loro portò più con sé il ritorno della mamma nella tana, nonostante il nostro cucciolo fosse sempre lì in attesa, sfinito, affamato e disperato. Finché un giorno, alla fine, non ebbe più neanche l’energia per disperarsi e si lasciò cadere fuori dell’ingresso della sua tana, mentre provava a vincere la paura di uscirne per continuare fuori la sua ricerca. “Neanche il mio papà tornerà più!” si diceva disperato.
Ma anche i tigrotti hanno prima o poi una stella che li aiuta. Fu così che mentre il nostro cucciolo se ne stava quasi morente davanti all’ingresso della sua tana, passò di lì per caso una vecchia tigre un po’ zoppa e acciaccata dagli anni e dalle ferite, che cercava un posto tranquillo dove vivere i suoi ultimi giorni.
E quando la vecchia tigre vide il cucciolo che si lasciava morire sfinito dalla paura, dalla fame e dalla disperazione, divise con lui la sua magra caccia della giornata e rimase a fargli un po’ compagnia.
Poi, quando la notte stava per calare sul mondo, lo riportò dentro alla tana e rimase con lui a scaldarlo un po’ per la notte, fino a quando tutte le stelle furono tramontate e la luce tornò di nuovo a illuminare il mondo.
E così la vecchia tigre restò con lui finché il papà ritornò dalla sua caccia lontana e poté occuparsi del suo cucciolo per tutto il tempo che gli servì a riprendersi. E quando si fu ripreso lo accompagnò fuori e cominciò a insegnargli le mosse della caccia, finché a poco a poco anche il nostro tigrotto non divenne grande, forte e buon cacciatore, accompagnato dal suo papà.
E infine anche lui arrivò col tempo a essere cresciuto, sicuro, capace di procurarsi il cibo e di procurarlo in futuro anche ai suoi piccoli, proprio come aveva imparato dal suo papà e dalla sua mamma, perché la vita potesse continuare nella foresta così come era sempre avvenuto dai tempi dei tempi, da quando era comparsa sulla Terra, tramandata fedelmente da tutti i genitori ai loro cuccioli.
E la sua mamma divenne col tempo un ricordo buono dentro di lui, che l’accompagnava sempre, di giorno e di notte, con il sole e con le stelle, con il sereno e con le tempeste, e che nessuno poteva più portargli via.
I tigrotti sarebbero continuati a nascere e a crescere nella foresta, nel concerto silenzioso della vita, sotto lo sguardo benevolo del sole, della luna e delle stelle, nel loro fedele e instancabile cammino lungo le strade del cielo, come è sempre avvenuto da quando il mondo esiste, dall’inizio degli inizi di tutti i cicli della vita.
Non chiedere mai per chi suona la campana.
Essa suona per te.
ERNEST HEMINGWAY, Per chi suona la
campana, da J. Donne
Capisco solo ora da adulta che quando ero piccola davanti a un grande dolore in casa nostra c’è stato troppo silenzio: io ne ho sofferto moltissimo. In particolare soffrivo nel vedere mia madre che soffriva.
Una mamma dopo un gruppo
Una bambina di cinque, sei anni, ripete spesso in modo quasi ossessivo lo stesso gioco con la mamma. Prima le va in braccio e poi le ordina: «Adesso chiudi gli occhi e fai finta di essere morta!». La mamma l’accontenta e finge un poco, ma la bambina non è mai soddisfatta: «No, no, non così. Devi farlo meglio, non devi proprio muoverti e non devi rispondere più!».
Alla fine, dopo ripetuti tentativi, la mamma esegue alla perfezione tutta la scena: ha gli occhi chiusi, non reagisce, non si muove e non risponde più. La bambina prova ripetutamente e sempre più in ansia a farla rispondere, ma la mamma questa volta non reagisce proprio: è come se fosse morta per davvero. A quel punto la bambina scoppia in un pianto disperato, inconsolabile e irrefrenabile, finché la mamma, finalmente, apre gli occhi e si rianima per consolarla e abbracciarla.
Intorno ai cinque, sei anni i bambini si confrontano in genere col tema della morte e fanno spesso domande al riguardo. Ma perché questa bambina ha scelto, quasi in modo ossessivo, di ripetere sempre lo stesso gioco con la mamma? E perché il gioco deve finire immancabilmente con un pianto disperato e irrefrenabile? È solo quando sarà adulta che, lavorando insieme sulla sua storia familiare, scopriremo che c’era davvero una mamma morta per cui piangere: la nonna materna, morta di parto quando la figlia non aveva ancora due anni. Una morte su cui la figlia non aveva potuto evidentemente piangere e fare un lutto. A distanza di tanti anni, dopo essere diventata a propria volta madre, la sua bambina ha potuto riportare alla luce attraverso un gioco ossessivo il suo antico bisogno infantile di piangere e di essere confortata per la perdita di una mamma che all’improvviso chiude gli occhi, tace, non si muove e non risponde più, e da quel giorno è sparita nel nulla e non è mai più tornata.
Il silenzio, lo strazio, la disperazione, il senso di abbandono e il dolore senza parole che una bambina di neanche due anni può avere provato in quella circostanza e che era rimasto sepolto chissà dove dentro di lei ha potuto finalmente essere rappresentato anni dopo nel gioco ossessivo della sua bambina, con un pianto disperato e irrefrenabile che, infine, ha potuto essere accolto e confortato da una mamma viva.
Con quel gioco empatico e raffinato la bambina ha potuto forse curare il dolore antico e lontano della madre, rappresentando con la scena del gioco quella inespressa del suo dramma infantile, ma ha anche contemporaneamente curato la sua parte che soffriva per la vecchia sofferenza della sua mamma, restituendole la vita e il calore e facendosi confortare da lei.
Un vero e proprio atto terapeutico avvenuto spontaneamente attraverso un gioco ossessivo che la bambina ha potuto fare perché la sua mamma glielo ha permesso. (Dovremmo ricordarci del valore terapeutico del gioco per un bambino rispetto a qualsiasi “scheda di apprendimento“, oggi così di moda, che spesso crea giovani adulti iperstimolati intellettualmente e fragili come neonati emotivamente, perché hanno giocato troppo poco con gli altri bambini in gruppi spontanei per poter imparare a vivere in maniera autonoma!)
Dice Anne Schützenberger:
Quando si concede a una persona la possibilità di esprimersi e quando la si aiuta a parlare, la si fa disegnare, la si lascia rappresentare le scene in psicodramma (attraverso brevi “vignette”), si riesce a porre termine, a “chiudere” un trauma e un lutto, attraverso un atto simbolico, ultimando così i compiti che erano rimasti irrisolti. Talvolta, quando si viene “ascoltati e capiti” da una persona comprensiva, da uno psicoterapeuta contenitivo, i sintomi scompaiono – i propri sintomi, ma anche quelli dei propri figli.9
«Nell’ospedale dove lavoravo tanti anni fa una volta è stata ricoverata una bambina che stava malissimo perché la sua mamma era morta e nessuno le aveva detto niente. Il neuropsichiatra infantile che l’aveva vista disse che forse aveva desiderato il ricovero in ospedale perché voleva andare nel posto dove era morta la sua mamma. Era arrabbiatissima perché non le avevano fatto vedere la mamma per l’ultima volta e lei non l’aveva potuta salutare.»
Salutare per l’ultima volta è importante per poter elaborare un lutto. Anche i figli sopravvissuti delle vittime dei campi di sterminio nazisti hanno sempre iniziato i loro racconti sui genitori dicendo: “Non li ho neanche potuti salutare”, tanto che alla fine questa frase è diventata il titolo di un famoso libro di testimonianze.
Ma non sempre si riesce a salutare e a far salutare una persona cara che si è persa.
Confortare una persona in lutto è in assoluto uno dei terreni più difficili per ognuno di noi, perché ci si confronta con un evento ineluttabile e irreversibile dell’esistenza. La morte ci strappa qualcuno che non tornerà e non incontreremo mai più per tutto il resto dei nostri giorni: non rivedremo più il suo viso, non sentiremo più la sua voce, non ascolteremo più il rumore dei suoi passi e tutto ciò che di noto e familiare portava con sé. «Non tornerà mai più, mai più a casa! Non entrerà mai più da quella porta!» singhiozzava disperata una ragazza che piangeva il papà morto all’impro...