La cruna dell'ago
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La cruna dell'ago

Con un contributo dell'autore

  1. 364 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La cruna dell'ago

Con un contributo dell'autore

Informazioni su questo libro

Con un contributo dell'autore. 1941. Mancano pochi mesi, e poi soltanto settimane, al D-Day. Gli Alleati hanno radunato una finta armata aerea e navale nell'East Anglia, in modo da dirottare l?attenzione dei tedeschi verso le spiagge di Calais e allontanarla dalla Normandia, dove è effettivamente previsto lo sbarco. L?inganno sembra funzionare. Ma basta che un agente nemico, uno soltanto, scopra la verità... Il suo nome in codice è " Die Nagel ", l'Ago, perché è inafferrabile e perché la sua arma preferita per uccidere è uno stiletto. È un agente scelto da Hitler e risponde direttamente al Führer. Un uomo di straordinaria intelligenza, che vive in incognito a Londra da parecchi anni senza che il servizio segreto inglese si sia mai accorto della sua esistenza. Una spia che adesso ha scoperto il vero luogo dello sbarco: se l'Ago riuscirà a raggiungere la Germania gli Alleati andranno incontro alla disfatta. Ma un ufficiale del servizio inglese di sicurezza e una giovane donna fuori dal comune faranno di tutto per impedirgli di portare con sé il suo segreto...

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804631477
eBook ISBN
9788852039713

PARTE TERZA

13

Faber si appoggiò contro un albero, tremando, e vomitò.
Poi rifletté se doveva sotterrare i cinque cadaveri.
Ci sarebbe voluta da una mezz’ora a un’ora, calcolò, a seconda di quanto bene avesse nascosto i corpi. E durante quel tempo avrebbe potuto essere sorpreso e catturato.
Doveva soppesare quel rischio, considerando le ore preziose che avrebbe guadagnato ritardando la scoperta dei cadaveri. L’assenza dei cinque uomini sarebbe stata notata molto presto: le ricerche sarebbero già state in corso alle nove del mattino. Se i cinque, com’era probabile, formavano una pattuglia regolare, il loro percorso era senz’altro conosciuto. Come prima cosa, sarebbe stata mandata una staffetta a perlustrare la strada. Se i corpi fossero rimasti dov’erano, l’uomo li avrebbe visti e avrebbe lanciato l’allarme. Altrimenti sarebbe tornato indietro a fare rapporto e avrebbero organizzato una battuta in grande stile, agenti investigativi e poliziotti avrebbero rastrellato ogni cespuglio. In questo caso, potevano metterci anche tutto il giorno a scoprire i cadaveri. A quell’ora Faber sarebbe stato a Londra. Era importante per lui essere lontano di lì prima che gli altri sapessero di dare la caccia a un assassino. Decise di rischiare quell’ora in più.
Ritornò a nuoto attraverso il canale con l’anziano capitano riverso sulle spalle. Lo lasciò cadere senza cerimonie dietro un cespuglio. Recuperò i due corpi dal pozzetto della barca e li ammucchiò sopra il capitano. Poi aggiunse Watson e il caporale al mucchio.
Non aveva neppure una vanga, e gli occorreva una grossa fossa. Trovò un tratto di terreno sgombro pochi metri più in là nel bosco. C’era un lieve avvallamento, che faceva al caso suo. Prese un tegame dalla piccola cambusa della barca e cominciò a scavare.
Per poco più di mezzo metro incontrò solo terriccio misto a foglie secche; e il lavoro fu facile. Poi, più sotto, s’imbatté nell’argilla e scavare divenne estremamente difficile. Dopo mezz’ora di fatica la fossa non era più profonda di un metro. Sarebbe dovuto bastare.
Trasportò i corpi uno alla volta alla fossa e li buttò dentro. Poi si tolse gli abiti macchiati di sangue e infangati e li gettò sopra. Coprì la buca con la terra smossa e uno strato di fogliame strappato dai cespugli degli alberi vicini. Sarebbe dovuto bastare per la prima perlustrazione superficiale.
Con un piede ricoprì di terra il punto dove era gocciolato il sangue di Watson. C’era sangue anche nella barca dov’era caduto il soldato che aveva infilzato. Faber trovò uno straccio e pulì il ponte.
Poi indossò abiti puliti, alzò le vele e partì.
Non pescò né osservò gli uccelli: non era più il momento di aggiungere pennellate piacevoli alla sua finzione. Aumentò invece la velatura, mettendo più distanza possibile tra sé e la fossa. Doveva lasciare il canale e trovare prima possibile un mezzo di trasporto più veloce. Rifletté, mentre navigava, sul pro e il contro di prendere un treno o rubare una macchina. Un’auto era più veloce, ammesso di riuscire a trovarne una da rubare; il furto però sarebbe stato scoperto presto, anche se non fosse stato collegato subito con la sparizione della pattuglia della riserva. Per trovare una stazione ferroviaria probabilmente ci sarebbe voluto più tempo, ma sembrava la via più sicura: se stava attento, avrebbe potuto evitare i sospetti per quasi tutto il giorno.
Si chiese cosa fare della barca. L’ideale sarebbe stato affondarla, ma così rischiava di essere visto. Se la lasciava in un porto da qualche parte, o semplicemente ormeggiata sul bordo del canale, la polizia l’avrebbe facilmente ricollegata con le uccisioni; e sarebbe stata un’indicazione di dove stava andando.
Rimandò la decisione.
Per sua sfortuna, non sapeva con certezza dove si trovasse. La cartina dei canali navigabili inglesi gli indicava ogni ponte, porto e chiusa; ma non segnalava le linee ferroviarie. Calcolò che era a un’ora o due di cammino da una mezza dozzina di paesi; ma un paese non necessariamente aveva una stazione.
Alla fine la sorte risolse i due problemi in una volta: il canale passava sotto un ponte ferroviario.
Prese la bussola, il rullino della macchina fotografica, il portafoglio e lo stiletto. Tutto il resto lo avrebbe mandato a fondo con la barca. La banchina da entrambi i lati era riparata da alberi, e non c’erano strade vicino. Ammainò le vele, disalberò e mise l’albero disteso sul ponte. Poi tolse il tappo del cocchiume dalla chiglia e saltò sulla riva tenendo in mano la corda.
Riempiendosi a poco a poco d’acqua, la barca fu trascinata dalla corrente sotto il ponte. Faber tirò la fune per trattenere il battello sotto l’arcata di mattoni mentre affondava. La poppa andò sotto per prima, seguì la prua, e alla fine l’acqua del canale si richiuse sopra il tetto della cabina. Ci furono un po’ di bolle, poi più nulla. La sagoma della barca rimaneva nascosta a un’occhiata casuale dall’ombra del ponte. Faber gettò in acqua anche la fune.
La ferrovia correva da nordest a sudovest. Faber si arrampicò sulla massicciata e s’incamminò verso sudovest in direzione di Londra. Era un binario unico a doppio senso, probabilmente una linea secondaria di campagna. Dovevano passarci pochi treni, ma si sarebbero fermati a tutte le stazioni.
Il sole diventò più forte mentre camminava, e lo sforzo lo fece sudare. Quando aveva sotterrato gli abiti neri macchiati di sangue si era infilato una giacca a doppio petto e pantaloni di pesante flanella. Ora si tolse la giacca e se la gettò sulle spalle.
Dopo quaranta minuti sentì lo sbuffare di un treno lontano e si nascose in un cespuglio accanto alla ferrovia. Una vecchia locomotiva a vapore gli passò vicino lentamente, in direzione nordovest, sbuffando grandi nuvole di fumo e trascinando un treno merci carico di carbone. Se ne fosse arrivato uno dalla parte opposta, avrebbe potuto saltarci su. Era il caso? Gli avrebbe risparmiato una lunga camminata. D’altra parte si sarebbe vistosamente sporcato, e gli sarebbe stato difficile scendere senza essere notato. No, era più sicuro camminare.
La ferrovia correva dritta come una freccia attraverso la piatta campagna. Faber passò davanti a un contadino, che arava un campo con un trattore. Non c’era modo di evitare che lo vedesse. Ma il contadino agitò solo una mano senza smettere di lavorare. Era troppo lontano per vedere bene in faccia Faber.
Aveva camminato per quasi quindici chilometri quando più avanti scorse una stazione. Era lontana un po’ meno di un chilometro, e tutto quello che poté vedere fu il rialzo dei marciapiedi e alcuni segnali. Lasciò la ferrovia e tagliò attraverso i campi, tenendosi vicino ai filari di alberi, finché non incontrò una strada.
In pochi minuti entrò in paese. Non c’era niente che gli indicasse il nome del luogo. Ora che la minaccia dell’invasione era un ricordo, segnali stradali e indicazioni di paesi venivano rimessi al loro posto, ma quel villaggio non ne aveva ancora trovato il tempo.
C’erano un ufficio postale, un negozio di granaglie, e un pub chiamato “Il Toro”. Una donna con la carrozzina gli diede un amichevole “buongiorno!” mentre lui oltrepassava il monumento ai caduti di guerra. La piccola stazione si crogiolava sonnolenta nel sole di primavera. Faber entrò. Gli orari erano segnati su un tabellone. Faber vi si fermò davanti. Da dietro lo sportellino della biglietteria una voce disse: «Non mi baserei su quello, se fossi in lei. È la più grossa invenzione romanzesca dopo la Saga dei Forsyte».
Faber sapeva già che il tabellone sarebbe stato inattendibile, ma aveva bisogno di stabilire se i treni andavano a Londra. Ci andavano. Disse: «Ha idea a che ora parte il prossimo treno per Liverpool Street?».
L’impiegato fece una risata ironica. «A qualche ora della giornata, se è fortunato.»
«Comunque prendo un biglietto. Solo andata, prego.»
«Cinque scellini e quattro penny. Dicono che i treni in Italia arrivano in orario» fece l’impiegato.
«Non più» osservò Faber. «Comunque, preferisco avere treni cattivi e i nostri politici.»
L’uomo gli lanciò un’occhiata nervosa. «Oh, certo ha ragione. Vuole aspettare al “Toro”? Sentirà arrivare il treno… Altrimenti la manderò a chiamare.»
Faber non voleva che altra gente lo vedesse. «No, grazie, butterei via solo dei soldi.» Prese il biglietto e andò sul marciapiedi.
L’impiegato lo seguì qualche minuto più tardi; si sedette sulla panchina accanto a lui al sole. Chiese: «Ha fretta?».
Faber scosse la testa. «Ho già chiuso per oggi. Mi sono alzato tardi, ho litigato con il capo, e il camion che mi dava un passaggio ha avuto un guasto.»
«Capita.» L’impiegato guardò l’orologio. «È passato in orario questa mattina, e quello che va deve anche venire in orario, dicono. Forse sarà fortunato.» Rientrò nel suo ufficio.
Faber fu fortunato. Il treno arrivò venti minuti più tardi. Era affollato di contadini, famiglie, uomini d’affari e soldati. Faber trovò uno spazio libero sul pavimento vicino a un finestrino. Mentre il treno si muoveva pesantemente, raccolse un giornale abbandonato vecchio di due giorni; prese in prestito un lapis, e cominciò a fare le parole crociate. Era orgoglioso della sua abilità nel risolvere i cruciverba in inglese: era la prova del fuoco della sua padronanza della lingua straniera.
Dopo un po’ il movimento del treno lo cullò in un sonno profondo, e sognò.
Era un sogno familiare, il sogno del suo arrivo a Londra.
Era passato dalla Francia con un passaporto belga in cui si diceva che era Jan van Gelder, un rappresentante della Philips (il che avrebbe spiegato la radio nella valigia se la dogana gliela avesse aperta). Il suo inglese allora era buono ma non scioltissimo. Alla dogana non aveva avuto noie: era un alleato. Aveva preso il treno per Londra. In quei giorni c’era abbondanza di sedili liberi nelle carrozze, e si poteva mangiare. Faber aveva pranzato con roast-beef e budino dello Yorkshire. Era stato piacevole. Aveva parlato con uno studente di storia di Cardiff della situazione politica europea. Il sogno era come la realtà finché il treno non si fermava alla stazione di Waterloo. Poi diventava un incubo.
I guai cominciavano alla barriera dei biglietti. Come tutti i sogni, anche questo aveva una propria bizzarra illogicità. Il documento che gli veniva contestato non era il passaporto falso, ma il biglietto ferroviario perfettamente in regola. Il bigliettaio diceva: «Questo è un biglietto dell’Abwehr».
«No, non è vero» ribatteva Faber, parlando con un accento tedesco ridicolmente marcato. Che cosa era successo alle sue raffinate consonanti inglesi? Non volevano venire. «L’ho… a Dover gekauft.» Dannazione, gli era scappato.
Ma il bigliettaio, che si era trasformato in un poliziotto londinese con tanto di elmetto, sembrava ignorare l’improvviso lapsus in tedesco. Sorrideva educatamente e diceva: «Preferirei controllare la sua Klamotte, signore».
La stazione era piena di gente. Faber pensava che se avesse potuto mischiarsi alla folla sarebbe riuscito a scappare. Allora lasciava cadere la valigia con la radio e si dava alla fuga, facendosi largo a spintoni attraverso la folla. All’improvviso si accorgeva di avere lasciato i pantaloni sul treno, e che c’erano delle svastiche sui calzini. Avrebbe dovuto comprare dei pantaloni nel primo negozio, prima che la gente notasse l’uomo che correva senza pantaloni con calze naziste… Poi qualcuno fra la folla diceva: «Ho già visto la sua faccia» e gli faceva lo sgambetto, e lui cadeva con un tonfo finendo sul pavimento del vagone fer...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La cruna dell’Ago
  4. Prefazione
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. PARTE QUARTA
  9. PARTE QUINTA
  10. PARTE SESTA
  11. EPILOGO
  12. Copyright