Vittorio Sereni, come ha sottolineato Pier Vincenzo Mengaldo,1 era un poeta estremamente consapevole: consapevole del ruolo della letteratura nella società e del profondo legame tra le proprie scelte espressive e il significato globale della propria poesia. Tale consapevolezza derivava in parte da un carattere evidentemente predisposto alla discussione di sé, in parte da una formazione legata a un ambiente culturale vivace e ricco di interferenze culturali, in parte infine da una vicenda biografica che lo ha costretto a lunghi momenti di forzata inattività , come gli anni trascorsi nella prigionia africana; anni che, per sua più volte ripetuta confessione, hanno segnato una netta cesura tra un prima e un poi e determinato di lì in avanti il suo carattere e i suoi scritti.
Tra questi due poli, della sicurezza e della capacità di una continua messa in discussione – come è delle persone certe del proprio ruolo nel mondo –, si muovono tutte le sue opere, che mostrano nello stesso tempo la estrema spontaneità di una dizione naturale e protetta (quella nativa disposizione alla liricità , che Sereni sentiva di avere in comune con Saba) e la volontà di superarne i limiti per una più incisiva e aperta compromissione e riflessione o meglio «comunione» con la realtà : non già «comunicazione», come precisa Sereni in Poesia per chi? (qui alle pp. 1119-25): una distinzione che fa il paio con l’altra spesso ricordata da Sereni fra «destinazione» e «destino» della poesia, e che la dice lunga sulla sua volontà di abolire un punto di vista privilegiato.
L’eterna perplessità di Sereni, il suo «mah» sempre ricordato e onnipresente nei suoi testi come nelle lettere e nelle conversazioni private, non è perciò il segno di una incertezza sui fondamenti della sua vita o della sua poesia, ma piuttosto di una ricerca di «inclusione» dei punti di vista degli altri, persone e persino natura e oggetti, fino alla voce dei morti, assunti come dati concreti e ineludibili, capaci ciascuno di portare un contributo alla costruzione del reale. Se è vero, d’altra parte, che lo iato fra i primi e i successivi testi di Sereni è profondissimo, vero è anche che l’evoluzione del suo linguaggio si muove in sintonia con il coevo movimento poetico della sua generazione, coi Luzi, Bertolucci e Caproni, sodali e amici, coi quali condivide in larga parte, pur negli esiti profondamente diversi delle singole pronunce, la propria riflessione sulla poesia: come è il caso soprattutto per quello che costituisce lo scarto più netto tra la prima fase di Frontiera e del Diario d’Algeria, e Gli strumenti umani.
Questo percorso, che può essere letto linearmente all’interno di una crescita interiore, e che sempre conserva il carattere della grazia e della naturalezza, non ha però avuto vita facile. L’assunto di base, la necessità cioè di una relazione fra l’io e il tempo storico in cui si trova a vivere, seppure senza mai portare a posizioni ideologicamente troppo connotate, né ad alzare la voce oltre un tono di piana e garbata discussione pubblica, e il senso di responsabilità in prima persona che ha caratterizzato la sua vita e la sua poesia (un esempio di coerenza così intimamente vissuto e così poco esibito di cui è difficile trovare l’uguale) hanno sempre provocato in lui un sentimento di insoddisfazione e di sfasamento, di irrequietezza interiore. Da qui derivano in modo diverso e progressivo fin dalle sue prime prove, quei tratti di rottura e di stonatura, quel presagio di un alter ego giudicante che interviene a scombinare la tentazione dell’idillio («Ma torneremo taciti a ogni approdo. / Non saremo che un suono / di volubili ore noi due / o forse brevi tonfi di remi / di malinconiche barche», Strada di Zenna: con citazione forse inconscia dell’Addio monti) e che, dapprima rilevabile solo nel lampeggiare di immagini di improvviso rabbuiamento, di incrinamenti che spezzano la naturalità apparentemente felice dell’impasto sonoro, ha poi preso lentamente corpo nei suoi versi, fino a incarnarsi in proiezioni, sdoppiamenti, dibattiti mentali agiti teatralmente. A partire dagli Strumenti umani tale cifra costituisce la peculiarità della poesia di Sereni («Teatro di parole» ipotizzava di intitolare la sua raccolta centrale, prendendo spunto da un’osservazione di Betocchi), fino a diventare in Stella variabile, spostato il baricentro, il luogo della pronuncia di una dimensione quasi essenzialmente negativa. Qui la voce, attutito l’agonismo degli Strumenti e preda di una realtà sgradevole di cui tuttavia il poeta si sente ancora responsabile, rinuncia a qualsiasi ambizione di un senso globale delle cose: da cui la dissonanza, la mancanza in fondo di una linea macrostrutturale chiaramente identificabile, la presenza di testi più narrativi e di altri più oracolari, l’emergere di tratti profondamente nichilisti alternati a effimeri risorgimenti, come lo stesso titolo Stella variabile esplicitamente suggerisce. (Ben diverso percorso quello di Montale, approdato negli ultimi versi al distacco satirico; come estraneo era del resto a Sereni, malgrado la profonda influenza che ebbe su di lui, il rifugio da questi cercato nella dimensione salvifica privata.)
Frontiera
La prima raccolta, Frontiera, esce presso le edizioni milanesi di «Corrente» nel 1941 come risultato di un’estrema selezione sulle poesie composte all’incirca dal 1935 (questa è in effetti la data stampata sul frontespizio: «1935-1940»), ulteriore scelta rispetto a un primo progetto di poesie giovanili conservato dattiloscritto nell’Archivio Sereni di Luino, su cui il poeta torna con tagli e aggiunte fino alle soglie della pubblicazione. In questa prima stampa la raccolta è costituita da ventisei liriche, suddivise in tre sezioni prive di intitolazione, rispettivamente di dieci, sette e nove testi così scanditi (e che facciamo seguire dalla data di composizione ricavabile ...