Uno sprazzo di cielo azzurro sulla mia testa.
Senza nuvole.
Perfetto.
Proprio come il cielo nella vita reale, solo un po’ più azzurro e meno abbagliante.
Immagino che il cielo nella vita reale non sia davvero perfetto. Forse è proprio questo che lo rende perfetto.
Lo rendeva.
Strinsi forte gli occhi.
Presi tempo.
Non ero certo di essere pronto a vedere qualunque cosa ci fosse da vedere là fuori. Per forza il cielo sembrava più bello… con tutto quello che si diceva del paradiso.
Non che io dessi per scontato di essere finito in paradiso. A mio parere, mi ero sempre comportato in modo decente. Ma ne avevo viste abbastanza da sapere che il mio parere su qualsiasi cosa si era sempre rivelato più o meno sbagliato.
Avevo una mentalità aperta, almeno per gli standard di Gatlin. Voglio dire, avevo sentito varie teorie. Mi ero sorbito una buona dose di catechismo. E dopo l’incidente di mia madre, Marian mi aveva parlato di una lezione di buddismo che aveva preso alla Duke University, tenuta da un tizio chiamato Buddha Bob, secondo cui il paradiso era una lacrima dentro una lacrima dentro una lacrima, o qualcosa del genere. L’anno prima, mamma aveva cercato di farmi leggere l’Inferno di Dante, che Link mi aveva descritto come la storia di un edificio che prendeva fuoco, ma che si era rivelato essere il racconto del viaggio di un tale attraverso i nove cerchi dell’Inferno. Mi ricordavo soltanto la parte che mi aveva raccontato mia madre, sui mostri o i diavoli intrappolati in un blocco di ghiaccio. Credo che fosse il nono cerchio dell’Inferno, ma c’erano così tanti cerchi laggiù che dopo un po’ sembravano tutti uguali.
Con quello che avevo imparato sui mondi sotterranei, l’aldilà, gli universi paralleli e qualsiasi altra cosa ci fosse in quella specie di torta a tre strati che era il mondo magico, lo sprazzo di cielo azzurro mi andava più che bene. Mi sentii sollevato nel constatare che ad attendermi c’era qualcosa che ricordava uno di quei bigliettini d’auguri sdolcinati. Non che mi aspettassi cancelli dorati e schiere di putti angelici. Ma la vista del cielo azzurro era stata proprio una bella sorpresa.
Aprii di nuovo gli occhi. Ancora azzurro.
L’azzurro della Carolina.
Un’ape cicciona mi ronzò sopra la testa e salì su verso il cielo – finché non ci sbatté contro, come aveva fatto altre mille volte prima di quella.
Perché non era il cielo.
Era il soffitto.
E quello non era il paradiso.
Ero sdraiato sul mio vecchio letto di mogano nella mia ancor più vecchia stanza a Wate’s Landing.
Ero a casa.
Il che era impossibile.
Chiusi gli occhi e li riaprii.
Ancora a casa.
Era stato solo un sogno? Lo speravo ardentemente. Forse avevo sognato tutto, come ogni singolo giorno per i primi sei mesi dopo la morte di mia madre.
Ti prego, fa’ che sia stato un sogno.
Mi allungai verso il basso e rovistai tra la polvere sotto il letto. Sfiorai la pila familiare di libri e ne tirai fuori uno.
L’Odissea. Uno dei miei romanzi a fumetti preferiti, anche se ero abbastanza sicuro che la Mad Comics si fosse presa qualche libertà rispetto alla versione scritta da Omero.
Ebbi un attimo di esitazione, poi presi un altro libro. Sulla strada. La vista di Kerouac fu la prova inconfutabile, così mi girai su un fianco e vidi il riquadro sbiadito sulla parete, nel punto in cui, fino a qualche giorno prima – possibile che fosse passato così poco? – era stata appesa la cartina spiegazzata con i segni in pennarello verde intorno ai posti che avrei voluto visitare, tratti dai miei libri preferiti.
Era la mia stanza, non c’era dubbio.
La vecchia sveglia sul comodino accanto al letto sembrava ferma, ma tutto il resto era rimasto pressappoco lo stesso. Doveva essere una giornata calda, nonostante fosse gennaio. La luce che dalla finestra si riversava nella stanza aveva un che di innaturale: mi sembrava di essere finito in uno di quei pessimi storyboard disegnati da Link per i video musicali degli Holy Rollers. Ma a parte l’illuminazione da film, la stanza era esattamente come l’avevo lasciata. E, proprio come i libri sotto il letto, le scatole da scarpe che custodivano l’intera storia della mia vita erano ancora lì, impilate contro la parete. Tutto quello che avrebbe dovuto esserci, c’era, almeno così mi sembrava.
Tutto tranne Lena.
L? Ci sei?
Non riuscivo a sentirla. Non riuscivo a sentire niente.
Mi guardai le mani. Sembravano normali. Niente lividi. Guardai la maglietta bianca che avevo addosso. Niente sangue.
Niente buchi nei jeans o sulla pelle.
Andai in bagno e mi guardai nello specchio sopra il lavandino. Eccomi lì. Il solito, vecchio Ethan Wate.
Stavo ancora fissando la mia immagine riflessa, quando sentii un rumore che veniva dal piano di sotto.
— Amma?
Il cuore cominciò a battermi all’impazzata, il che era piuttosto curioso, visto che quando mi ero svegliato non ero nemmeno sicuro che stesse battendo. In ogni modo, sentivo i suoni familiari di casa mia provenire dalla cucina, al piano inferiore. Le assi di legno scricchiolavano sotto il peso di qualcuno che si spostava tra le credenze, i fornelli e il vecchio tavolo. I soliti vecchi passi di qualcuno indaffarato nelle solite vecchie faccende mattutine.
Sempre che fosse mattina.
L’aroma proveniente dalla vecchia padella sul fuoco si espandeva fino al piano di sopra.
— Amma? Non è pancetta, vero?
La voce era limpida e tranquilla. — Tesoro, credo che tu sappia cosa sto preparando. C’è soltanto una cosa che io sappia cucinare. Se si può definire cucinare.
Quella voce.
Era così familiare.
— Ethan? Quanto pensi di farmi aspettare ancora, prima che io possa abbracciarti? Sono rimasta quaggiù un bel po’, caro.
Non capivo le parole. Non distinguevo nulla, a parte la voce. L’avevo già sentita prima, non troppo tempo fa, ma mai come ora. Così forte e chiara e piena di vita, come se lei fosse al piano di sotto.
Il che era vero.
Le sue parole erano come musica. Spazzavano via tutta la tristezza e la confusione.
— Mamma? Mamma!
Mi precipitai giù per le scale, facendo tre gradini alla volta, prima che lei avesse il tempo di rispondere.
Eccola lì, a piedi nudi in cucina, con i capelli come me li ricordavo – metà su e metà giù. La camicetta bianca stropicciata – quella che mio padre definiva la sua “uniforme” – era ancora macchiata di vernice o inchiostro, dopo il suo ultimo progetto. Aveva i jeans arrotolati alle caviglie come sempre, che andasse di moda oppure no. A mia madre non era mai importato niente di certe stupidaggini. Con una mano reggeva la vecchia padella di ferro nero, piena di pomodori verdi, e nell’altra teneva un libro. Con ogni probabilità, aveva continuato a cucinare mentre leggeva, senza mai distogliere lo sguardo dalla lettura. Canticchiando il motivetto di una canzone senza rendersene conto e senza neanche sentirlo.
Mia madre era fatta così. E sembrava la stessa di sempre.
Forse ero io l’unico a essere cambiato.
Feci un passo avanti e lei si girò verso di me, lasciando cadere il libro. — Eccoti, tesoro mio.
Sentii una fitta al cuore. Nessun altro mi chiamava così; non lo avrebbero mai fatto e io non lo avrei permesso. Solo mia madre poteva. Poi lei mi strinse forte a sé e il mondo si piegò intorno a noi, mentre io seppellivo il viso tra le sue braccia. Respirai a fondo quel caldo profumo, il tepore di tutto quello che mia madre rappresentava per me.
— Mamma. Sei tornata.
— Uno di noi lo è. — Sospirò.
Fu allora che capii. Lei era lì in cucina e anch’io, il che poteva significare soltanto una delle due cose: o lei era tornata in vita, oppure…
Io non lo ero.
Le si riempirono gli occhi di qualcosa – lacrime, amore, compassione – e prima che me ne accorgessi, mi abbracciò di nuovo.
Mia madre capiva sempre tutto.
— Lo so, tesoro mio. Lo so.
Nascosi il viso nell’incavo della sua spalla, il mio vecchio nascondiglio.
Lei mi diede un bacio sulla testa. — Cosa ti è successo? Non era così che doveva andare. — Si tirò indietro, in modo da riuscire a guardarmi in faccia. — Non doveva finire così.
— Lo so.
— D’altra parte, non è che ci sia un modo giusto per interrompere la vita di qualcuno, non trovi? — Mi diede un pizzicotto affettuoso sul mento e mi sorrise, guardandomi negli occhi.
Avevo memorizzato tutto. Quel sorriso, il suo viso. Ogni cosa. Non mi era rimasto altro durante la sua assenza.
Avevo sempre saputo che era viva da qualche parte, in qualche modo. Aveva salvato Macon e mi aveva inviato le canzoni che mi avevano guidato attraverso ogni assurdo capitolo della mia vita con i Maghi. Lei c’era sempre stata, sempre, proprio come quando era viva.
Durò soltanto un attimo, ma desiderai che restasse così il più a lungo possibile.
Non so come arrivammo al tavolo della cucina. Non ricordo nulla, tranne l’intenso calore delle sue braccia. Eppure eccomi lì, seduto sulla mia solita sedia, come se quegli ultimi anni non fossero mai esistiti. C’erano libri ovunque e, a giudicare da quello che vedevo, mia madre era a buon punto nella lettura della maggior parte dei testi, come al solito. Un calzino, probabilmente appena uscito dalla lavatrice, era infilato nella Divina Commedia. Un tovagliolo spuntava dall’Iliade e, come se non bastasse, una forchetta faceva da segnalibro in un volume di mitologia greca. Il tavolo della cucina era ricoperto dei suoi adorati libri, una pila più alta dell’altra. Ebbi come l’impressione di essere tornato nella biblioteca con Marian.
I pomodori sfrigolavano in padella e io respirai a fondo l’odore di mia madre: carta ingiallita e olio bruciato, pomodori freschi e vecchi scatoloni, il tutto amalgamato da una spolveratina di pepe di Cayenna. Non c’era da stupirsi che le biblioteche mi mettessero tanto appetito.
Mia madre fece scivolare un piatto di porcellana blu e bianco sul tavolo, in mezzo a noi. C’era un dragone in rilievo disegnato sopra. Sorrisi, perché era sempre stato il suo preferito. Mise i pomodori bollenti su della carta assorbente e cosparse il piatto di pepe.
— Ecco qua. Dacci dentro.
Affondai la forchetta nella fetta più vicina a me. — Sai, non mangio uno di questi da quando tu… dall’incidente. — Il pomodoro scottava talmente tanto che mi ustionai la lingua. Guardai mia madre. — Siamo… questo è…?
Mi restituì uno sguardo perplesso, non capiva.
Mi feci coraggio. — Be’. Il paradiso?
Si mise a ridere e intanto versò del tè freddo in due grossi bicchieri – il tè era l’unica altra cosa che mia madre sapesse preparare. — No, non è il paradiso, EW. Non esattamente.
Dovevo aver assunto uno sguardo preoccupato, come se pensassi che fossimo finiti in qualche modo dalla parte opposta. Ma non poteva essere vero neanche quello, perché – per quanto sdolcinato potesse suonare – essere di nuovo con mia madre per me era il paradiso, che l’universo mi desse ragione o no. Ma del resto, negli ultimi tempi io e l’universo non andavamo più molto d’accordo.
Mia madre mi accarezzò la guancia e sorrise, scuotendo la testa. — No, questo non è nessuno di quei luoghi per l’“eterno riposo”, se è quello che intendi.
— Allora perché siamo qui?
— Non ne sono sicu...