Le onde solcate dal piroscafo saltavano all’indietro come trapezisti del circo. I riflessi dei lumini rossi delle scialuppe di salvataggio sembravano fuochi fatui del mare. Sul ponte del Principio, in rotta verso Buenos Aires, Diana non si era mai sentita tanto rifiutata dal mondo, del quale stava per scoprire la fine.
Con l’elemosina del giocatore si era pagata un biglietto di terza e un abito appena decente. Era partita per vendetta, ormai si considerava un’orfana, voleva che i suoi si vergognassero: la sua apparizione gli avrebbe guastato la festa. Non era giusto che fossero felici a spese sue. A questo pensava, ormai da tre settimane di navigazione, chiusa nel proprio disamore e senza rivolgere parola ad anima viva.
Il canto di alcuni ragazzi siciliani, seduti sul cassero con chitarra e mandolino, non riuscì a sedurla e a farle girare la testa: «Sugnu ’nnamuratu, pazzu e dispiratu / picchì ’a ma zzìta vasari ’un si fa...».
In quello stesso momento, alla Blanquita, Pablo si allacciò il mantello davanti alla porta chiusa della stanza di Olivia.
«Che cos’è questo segreto?» le chiese impaziente.
«Se te lo dico non è più un segreto!»
«Tesoro, apri, devo tornare in caserma. All’alba partiamo per Santa Fe.»
«Perché vi mandano a Santa Fe?»
«Per una sfilata militare. Mi apri?»
«Un momento ancora.»
Giù nell’atrio, a bocca aperta e testa insù, l’attendente contemplava i capi indios dipinti sulle volte, quasi temesse che gli scoccassero a sorpresa una freccia dal soffitto. Dalla porta d’ingresso s’intravedevano sotto la luna due cavalli sellati e bardati con le insegne dei Lanceros. Tio Pepe li stava spazzolando.
«Il mio attendente aspetta da un’ora!»
«Si chiama attendente, che attenda.»
Dopo qualche istante, Olivia aprì la porta di schianto. Lo scrutò in attesa di giudizio. Indossava un magnifico abito da sera in due pezzi, corpino e gonna, in faille di seta rosa antico con ricami di perline. «Pensi che possa andar bene per la nostra festa di fidanzamento?»
«Sembri un quadro impressionista. Ti ricordi l’illustrazione che vedemmo ieri? Ecco, la Donna con parasole di Monet.»
«Dimmi la verità. Sto bene?»
«Amore, tu di’ a Blanca e a tuo padre d’invitare tutta Buenos Aires. Il mondo deve sapere quale meraviglia mi sposerò presto.»
Lei gli gettò le braccia al collo. «Sicuro? Non lo dici solo per farmi un complimento?»
Pablo diede un passo indietro. La valutò con distacco da maestro, come fosse stato Monet in persona. «La verità assoluta?»
«Senza pietà.» Chiuse gli occhi in attesa della sentenza.
Le prese una mano. «Fai un giro di valzer...»
Girò su se stessa, esitante.
«Devo ammettere: un problema c’è.»
«Lo sapevo.» Riaprì gli occhi azzurri in attesa del colpo di grazia.
«Come farai a essere ancora più bella il giorno del matrimonio?»
«Cattivo, mi hai fatto paura!»
«Sei la donna del mio cuore.» La baciò. «Devo andare, tesoro. Il dovere prima di tutto.»
Quando i tacchi degli stivali rimbombarono per le scale, Olivia lo inseguì con la voce: «Mi raccomando! Sabato sera cerca di arrivare prima degli invitati!».
«Agli ordini!» gridò Pablo. «Muoviamoci!» ordinò all’attendente. Fece un cenno marziale per ordinare qualcosa anche a Tio Pepe ma non gli venne niente e si limitò a spostargli la pancia di lato: «Largo!».
Balzarono in sella come diavoli. Sul viale degli alberi ubriachi, dal polverone, sembrò che infuriasse una battaglia.
Una donna bassina e rotondetta, con un fazzoletto grigio legato sotto il mento e imbacuccata in un pastrano da uomo, scavalcò le gambe e la chitarra dei giovani emigranti che si erano addormentati dopo la serenata, sconfitti. Diana aveva trascorso tutta la notte alla balaustra parlando con l’oceano.
«Si vede il Sudamerica?»
«Un’ombra» rispose la ragazza senza voltarsi. Indicò la grossa macchia scura all’orizzonte. «Forse chidd’i ddà l’Uruguay è.»
La donnetta alle sue spalle scherzò: «Uruguay, ahi ahi ahi, soldi pochi tanti guai».
Nessuna reazione.
«È grande?»
«Salite a vedere da voi. Paura del mare?»
«Dia’, non mi riconosci più perché non senti tintinnare le chiavi?»
Si girò di scatto, atterrita.
Suor Carmela agitò le mani intorno alla vita, dove un tempo il cordone squillante le cingeva i fianchi. «Non ti preoccupare. La badessa non c’è. La denunciai al vescovo quando vi mandò in manicomio.»
«Se la denunciavi prima era meglio.»
La suora salì e si appoggiò alla balaustra. «La tua famiglia ti è venuta a prendere alla Casa dei Matti? O sei scappata?»
«Scappata. Non faccio altro.»
«E Alice?»
Diana guardò le ultime stelle. «Scappata lassù.»
«Povera picciridda.» L’ex clavaria le passò un braccio intorno alle spalle. Lei si sottrasse al gesto affettuoso. «E tu? Senza le chiavi, senza la tonaca... Chi ci fai ccà?»
«Mi ni vaiu missionaria in Mato Grosso.»
Diana capì che moriva dallo spavento, ma Carmela si mostrò più interessata a lei e al suo destino che a se stessa. Si aprì in un sorriso: «To patri ’u mannàu ’u bigliettu, finalmente!».
Diana pensò a quanto sarebbe stato bello.
«Sì» mentì.
«Sì? Visto che non si dimenticò? Quante volte infilasti la mano nella buca delle lettere, ah? Puru cu mia. Ti ricordi?»
«All’ufficio postale era. Vestiti, bigliettu e picciuli. Ti pare che ma patri mi lassava accussì?» Sorrise malinconica. «Non poteva essere.»
«Eh no! I figghi sunnu ’a cosa cchiù priziusa di ’stu munnu!»
Casette rosse, basse, a mattoncini, tutte uguali. Era questa l’Argentina? Nel chiarore dell’alba, intrappolata sulla passerella dagli altri emigranti, controllati uno per uno dalla polizia portuale, Diana si guardò intorno sconcertata. Si era immaginata ville coloniali immerse in una lussureggiante foresta tropicale, invece Buenos Aires era un cantiere in eterna costruzione, un’immensa Palermo senza poesia.
Suor Carmela gesticolò dal cassero di prua, in punta di piedi nella folla. «Dia’? Se vuoi, t’accompagno. Tanto la nave riparte per il Brasile domani sera. Così ti aiuto a cercare la tua famiglia.»
«Grazie Carme’, li trovo da me. Mamma e papà mi hanno scritto che vivono in una bella fazenda fuori città.»
«Hai visto? I genitori non tradiscono mai!»
Diana le sorrise con disperanza. La fila si mosse.
Nel camerone dei controlli sanitari, i medici valutavano gli immigrati con la ruvida irriverenza di un veterinario davanti a un capo di bestiame. Poco ci mancava che li marchiassero a fuoco. I disabili e i malati contagiosi che non ottenevano il visto venivano dirottati sul Patria in partenza per Napoli. Quando giunse il suo turno, un medico le tappò il naso e le guardò in bocca come a un cavallo. Diana gli sferrò un calcio sugli stinchi. Rischiò di essere rispedita in Italia.
All’uscita della dogana, in plaza Libertad, mentre si stava incamminando verso una carrozza in sosta davanti a una gioielleria, le apparve un ufficiale così bello, fiero e nobile che il suo cuore si consolò. Il biondo tenente dei Lanceros a cavallo era il primo uomo che vedeva nel Nuovo Mondo. Incedeva verso un trialbero con occhi marziali, a passo da parata. Tre ufficiali lo accolsero cameratescamente sulla banchina. «Sempre ultimo» disse uno di questi. Lo guardarono con ammirazione. Lui rispose: «Gli ultimi saranno i primi». Sorrise e smontò.
Diana si convinse che l’affermazione biblica era destinata a lei. L’ultima, la reietta dal padre, sarebbe stata redenta dall’amore. Il tenente si girò per un oscuro richiamo. I loro sguardi non s’incrociarono ma lei si persuase che fossero destinati a incontrarsi, perché nulla accade per caso.
Salì in carrozza: «Sapete dov’è la Blanquita?».
«Sicuro, lo sanno tutti!» rispose il cocchiere. «La Blanquita è la più bella fazenda del Río de la Plata. È subito fuori città.» Si avvitò i mustacchi grigi: «Conoscevate don Manuel?».
Lei si guardò intorno imbarazzata: «Sì, certo» rispose per non fare brutta figura.
Blanca dormiva da sola nel letto matrimoniale, la testa reclinata accanto alla spalliera: un prato autunnale dov’erano caduti i fiori degli alberi ubriachi.
Olivia, poche stanze più in là, si agitava nel sonno, presaga. Sognava lei e Diana da bambine, le corse a perdifiato sulla collina di Isola delle Femmine. Un’ombra triste le attendeva sull’uscio di casa, aveva il viso bianco da Pierrot e il vestito a fiori infangato: la mamma.
La carrozza imboccò il viottolo che costeggiava il muro di cinta. A Diana ricordò un’illustrazione della muraglia cinese, non finiva mai.
D’improvviso balzò in piedi: «Fermatevi, per favore!». Aveva intravisto laggiù, in un campo verde oro, un uomo con la vanga in pugno.
Il cocchiere ammansì i cavalli, tirò le redini. «Il cancello è poco più avanti. Non volete che vi accompagni dentro?»
Gli rivolse un timido cenno negativo. Pagò la corsa con gli ultimi soldi del dandy giocatore che aveva cambiato sulla nave.
Quello non fece in tempo a contarli: «Señorita, il resto!».
Era sparita.
Michele aveva deciso di spargere la terra siciliana sulla terra di Blanca prima d’imbarcarsi per l’Italia. Se a Palermo avesse appreso della morte della figlia, come temeva, non avrebbe più avuto cuore di celebrare il rito promesso.
Sfilò la catenina d’oro e aprì il sacchetto di cuoio. Stava per rovesciarne il contenuto nella zolla appena spaccata, quando una voce alle spalle lo fece trasalire: «Ci sei riuscito a conquistare il tuo piccolo ettaro di cielo, papà».
Nel silenzio irreale che seguì quest’affermazione, pronunciata con rimprovero, Michele torse il busto lentamente, quasi temesse di trovarsi di fronte alla nera signora armata di falce.
Diana, con il borsone ai piedi, lo fissava nell’identica posa del giorno in cui lo aveva sentito giurare che non avrebbe avuto pace finché la sua famiglia non sarebbe stata felice nel Nuovo Mondo.
«Bambina mia, amore!» Pazzo di gioia, si slanciò verso di lei. La figlia lo fermò con un cenno perentorio della mano aperta.
«Non ti muovere. O sparisco per sempre.»
«Picciridda, chiddìci?»
«Picchì ’un mi vòi cchiù? Rispondi.»
Michele fece un passo avanti. Lei uno indietro. Di nuovo la mano gli intimò di non muoversi. «Rispondi.»
«Ma che fai? Papà non pensa ad altro che a te.» Spalancò le braccia nel vento fresco del mattino. «Vieni, Dia’, corri!»
Lei non si mosse. «Avevi detto che mi avresti mandato il biglietto subito. E mi hai lasciata a Palermo sola, più di otto mesi.»
«Ce lo tornarono indietro perché la zia non c’era più. Stavo per prendere una nave e venirti a cercare, t’u giuru!» Estrasse il biglietto di prima classe da una tasca. «Fra pochi giorni partivo. E guarda! Lo tengo sempre addosso per paura di perderlo.»
Diana scrutò la prova nelle mani del padre, lo guardò negli occhi a saggiarne la sincerità, fissò di nuovo il biglietto, incerta.
«Non mi fare morire. Vieni!»
Si gettò nelle sue braccia con irruenza infantile, lo baciò sulle guance, sulla fronte, sul petto, mentre lui piangeva e rideva con gli occhi rivolti al cielo, a Caterina che gli aveva fatto la grazia.
Diana gli aprì il pugno chiuso.
«’U vòi fari cu mia?» le propose il padre. Lei annuì.
Michele versò religiosamente la loro terra nelle sue mani.
Insieme la mischiarono con le zolle della pampa e sotterrarono il sacchetto di cuoio.
Dopo qualche minuto...