Ischia, anno 798 ab Urbe condita
(anno 45 dopo Cristo, inverno)
La grande villa sul promontorio era immersa nel sonno. Schiavi e ancelle si erano ritirati da tempo nei loro cubicoli, e nemmeno un lume rischiarava il quartiere dei vignaioli alle falde del colle.
Pithecusa, seppur bellissima, non era troppo popolata nemmeno d’estate, perché pochi erano i quiriti disposti a soggiornare su un’isola che già tante volte era stata squassata dal terremoto; in pieno inverno, poi, l’assenza dei villeggianti, che vi si recavano per le cure termali, ne faceva il luogo ideale per godere un po’ di tranquillità. Munito di una cassa di volumi nuovissimi, e intenzionato a restare a Pithecusa fino alle Calende di gennaio, Publio Aurelio si era imbarcato il giorno stesso in cui Elio Corvino, banchiere e marito dell’affascinante Camilla, aveva fatto ritorno nell’Urbe...
Quella notte, il patrizio era così assorto nella lettura da non accorgersi del passare del tempo; soltanto quando levò gli occhi verso la candela vide che quattro dei dodici chiodi, infissi nella cera per segnare le ore, erano già caduti nel vassoio.
Arrotolò allora il prezioso volumen di Aristarco di Samo, si alzò dal tavolo e uscì sulla terrazza.
La notte era fredda, ma limpida. Guardando verso oriente era possibile scorgere, dietro il bizzarro profilo di uno scoglio a forma di fungo, il faro di Heraclium e, più lontano, l’estrema propaggine dell’isola di Prochyta. A settentrione, invece, si apriva soltanto la piatta distesa delle acque, mentre la falce di luna sembrava l’arco di Artemide alla guida del suo carro argentato.
Naturalmente il senatore Stazio non credeva alle favole sugli Dei; anzi, proprio in quel momento si stava chiedendo se non avesse visto giusto Aristarco nel sostenere, secoli prima, che fosse il sole, non già la terra, il centro attorno a cui orbitavano tutti i pianeti. Comunque non erano le dispute astronomiche a preoccuparlo, adesso.
Publio Aurelio aveva raggiunto Pithecusa in cerca di quiete, ma l’agognata pace era durata solo un mattino, perché gli abitanti del piccolo porto di Heraclium, messi in fermento dall’importanza dell’ospite, avevano cominciato ad accalcarsi ogni giorno alla porta della villa, tanto che ormai l’arca di Aurelio rigurgitava di suppliche, al pari di quella custodita a Roma, nella domus sul Viminale.
Con la fama si erano moltiplicati pure i tentativi di furto: non soltanto mendicanti e vagabondi transitavano in permanenza attorno al muro di cinta, ma alcuni giorni prima erano stati rinvenuti, ai piedi del promontorio, i corpi sfracellati di due ragazzi giovanissimi, con le pupille dilatate e le membra contorte per la caduta. Si trattava certamente di ladruncoli giunti in barca fino alla dimora del patrizio, e precipitati dall’alto del costone mentre cercavano di introdursi in casa.
Da allora, tre guardie armate vigilavano ogni notte i possibili approdi, uniche vie d’accesso alla villa padronale, una volta sbarrato dall’interno il portone d’ingresso... Eppure il senatore non si sentiva sicuro: per un magistrato del suo rango, pugnale e veleno potevano celarsi ovunque e in qualsiasi momento, perciò occorreva star sempre all’erta.
Infatti, proprio mentre era in procinto di ritirarsi, Aurelio udì un fruscio sospetto e si acquattò nell’ombra per scrutare la scogliera. Non si era sbagliato: qualcuno, sfuggito alle maglie della sorveglianza, saliva sulle rocce sotto di lui, agile e silenzioso come un gatto.
Nemmeno per un attimo il patrizio pensò di dare l’allarme; il gusto per il mistero e l’avventura lo indussero invece a osservare di persona il profilo oscuro mentre si arrampicava al chiarore della luna, fin sotto l’ala occidentale, e penetrava con un balzo nella veranda.
Rapido, Aurelio si portò accanto al muro e attese che l’intruso avanzasse furtivo nella casa addormentata.
Lo seguì nel porticato, dentro l’esedra e il tablino, poi lungo tutti i corridoi, in attesa di coglierlo in fallo quando avesse tentato di rubare qualcosa. Lo sconosciuto, invece, percorse l’intera villa ignorando le preziose suppellettili che adornavano le stanze, andò dritto alla balconata di ponente e salì sul parapetto, come se avesse l’intenzione di calarsi nuovamente di sotto.
Fu allora che Aurelio scattò, afferrando le gambe del ladro prima che potesse saltare. Subito dopo, con una mossa fulminea, si portò alle sue spalle e gli torse un braccio. Udì un grido strozzato e strinse con più vigore, spingendo il suo prigioniero verso un grande candelabro di bronzo.
Quando lo stoppino della lucerna brillò, alla luce tremolante apparve un corpo raggomitolato su se stesso, incapace di resistere allo spasmo dell’arto innaturalmente ritorto.
Dalla massa informe della tunica bagnata spuntavano due polpacci torniti che scalciavano a vuoto, tentando invano di centrare gli stinchi del patrizio. Spazientito, Aurelio strappò l’involto di panni che copriva il capo del prigioniero e, afferrata brutalmente una ciocca di capelli, ne sollevò il viso verso il lucignolo.
«Numi Immortali, una donna!» esclamò, lasciandosi sfuggire la presa. Lei balzò all’indietro e corse lesta verso la balaustra.
«Ehi, niente scherzi!» la ammonì il patrizio, tagliandole la strada. «Ci sono decine di schiavi pronti a intervenire a un mio cenno!» rimarcò, trascinandola nella biblioteca. Poi, chiusa la porta a chiave, le liberò il polso e accese un’altra lucerna per osservarla a suo agio.
Si trattava di una ragazza giovane, sui vent’anni, di condizione indubbiamente umile: spalle curve in atteggiamento di difesa, era alquanto sgraziata, e la fronte su cui si appiccicavano i capelli fradici inalberava un paio di grosse sopracciglia nere, tanto folte da andare a unirsi in un’unica linea sopra la sella del naso aquilino. Gli occhi scurissimi lo fissavano con una rabbia sorda, mentre la bocca volitiva si apriva in una chiostra di denti candidi e regolari. Il corpo robusto esibiva un seno un po’ troppo prosperoso rispetto alla piccola statura, messo in evidenza dalla tunica bagnata che le si stava incollando addosso. La ragazza tremava dalla testa ai piedi.
«Che ci fai qui, a quest’ora di notte?» chiese Aurelio, cercando di assumere la sua aria più intimidatoria. «Devi essere una ladra da strapazzo, con qualche abilità nel nuoto, che campa di furtarelli nelle ville deserte!»
«Io non rubo niente!» protestò lei, con aria offesa.
«E allora cosa cercavi in casa mia?» incalzò il senatore, riflettendo rapidamente. Forse la donna stava dicendo la verità; in fondo, non si era nemmeno fermata davanti ai tanti oggetti di lusso che avrebbe potuto facilmente rivendere ai ricettatori della costa...
Constatando l’ostinato mutismo della prigioniera, il patrizio decise di tagliare corto: «Non ho tempo da perdere, spiegherai tutto alle guardie» e afferrò il tintinnabolo per chiamare a raccolta gli schiavi. «Intanto asciugati, stai gocciolando acqua salata sul mio marmo di Numidia!»
«Non ho fatto niente di male!» reclamò la ragazza con fare risentito.
«Entrare di notte nella residenza di un alto magistrato, e aggirarsi di soppiatto nei corridoi di casa sua, lo trovi legittimo? Credo che il giudice la penserà diversamente» ribatté burbero il senatore.
«Non mandarmi in tribunale, per carità!» lo pregò lei. Aurelio la guardò più attentamente e gli sfuggì un sorriso divertito: quella donnetta dava prova di un certo coraggio...
«Preferisci risolvere la nostra piccola questione alla maniera dei contadini che scoprono un ladro nell’orto?» sogghignò sarcastico. Da secoli, a proteggere i confini delle campagne, era preposto il Dio Priapo, un nanerottolo che nelle edicole di ogni crocicchio esibiva il suo enorme membro virile a monito dei malintenzionati. Per tradizione, infatti, il padrone della terra aveva il diritto di sottoporre alle sue voglie chiunque venisse scoperto senza ragione nella sua proprietà, fosse esso uomo, donna o bambino.
«Stai scherzando, vero? Uno come te...» si ritrasse la ragazza, arrossendo.
«Che ne sai tu di me?» la rimbeccò il patrizio, seccato.
«Sei il senatore, no? Tutti ti conoscono, qui. Quando offri un banchetto arruoli danzatrici e suonatori di cetra, e la gente del villaggio si raduna sulla spiaggia per ascoltare la musica col favore del vento. Vengono a renderti omaggio tutti i pezzi grossi dell’isola, senza contare le eleganti matrone che si fanno trasportare in lettiga... Tu non hai certo bisogno di una ragazzotta grassa e pelosa!»
«Grassa? Direi piuttosto piacevolmente in carne» valutò Aurelio, sforzandosi di soffocare il riso per mantenere inalterata la sua espressione severa.
«Però puzzo di pesce!» si sottrasse astutamente la ragazza.
«Farai prima il bagno» obiettò Aurelio, serafico.
«Sono cittadina romana e virgo intacta!» dichiarò infine la fanciulla, appellandosi alle leggi che la difendevano dallo stupro.
«Nelle prigioni locali non lo rimarresti a lungo: i carcerieri usano prendere il loro piacere con ogni nuova detenuta» le fece rilevare il senatore. Lei si morse le labbra, guardandosi attorno come una belva in gabbia.
«Ce l’hai un nome, almeno?» chiese Aurelio, un po’ rabbonito.
«Mi chiamo Melissa e faccio la pescatrice di spugne.»
«Raccogliendole nelle piscine delle ville private? Sarà meglio che trovi una spiegazione migliore, ragazza mia, se vuoi cavartela.»
«Sono entrata solo perché avevo bisogno di attraversare la tua proprietà per salire sulla parte opposta del promontorio. Purtroppo non c’è altro modo di arrivarci, da quando hai costruito la villa» si giustificò Melissa, mentre armeggiava per asciugarsi con la coperta, sperando invano che il patrizio si voltasse.
Che cosa poteva esserci di tanto interessante sull’altro lato del promontorio? si chiedeva intanto Aurelio. Forse anche i due giovani ritrovati ai piedi della scogliera erano diretti lassù... «Che ci andavi a fare?» domandò.
«A riprendere un oggetto nascosto sul costone roccioso.»
«Non raccontare frottole! Sono anni che questo terreno mi appartiene, e durante i lavori di costruzione è sempre stato ben sorvegliato. Nessuno avrebbe potuto entrarci.»
«Il fatto risale a molto tempo fa. Io e Leucio avevamo tredici anni, allora, e Cirno nemmeno dieci.»
«Immagino che si tratti dei due ragazzi precipitati sulle rocce. Ma insomma, che cosa state cercando esattamente?»
«Se te lo dicessi, tradirei un segreto.
«Lo scoprirò ugualmente, a costo di far radere al suolo tutta la collina» la intimorì il senatore.
«Si tratta di qualcosa che trovammo mentre andavamo a raccogliere i mitili sugli scogli, per venderli a Foca, il proprietario della caupona di Heraclium. Eravamo in sei: io, Zena, Leucio, Pilade, Attilio e il piccolo Cirno. Un giorno ci capitò di scorgere un banco di ostriche appese alla roccia e subito ci demmo da fare per staccarle dal loro appiglio. Foca le avrebbe pagate assai meglio dei mitili. Una volta portate su, però, le ostriche ci facevano gola, così decidemmo di mangiarcene qualcuna. Rimanemmo di sasso nel vedere che dentro alla prima c’era una perla, grossa come un chicco d’uva! Aprimmo subito anche le altre, che erano tutte vuote, e le divorammo crude, all’istante. Soltanto dopo esserci ingozzati fino a scoppiare, pensammo alla perla. Eravamo dei bambini; se ci fossimo azzardati a mostrarla in giro ce l’avrebbero portata via, quindi pensammo di nasconderla e tornare a riprenderla in seguito. Fu Pilade, il più agile di noi tutti, a salire sul costone per metterla in un anfratto della roccia, dove nessuno sarebbe andato a curiosare. Poi, tuttavia, arrivasti tu e pensasti bene di recintare il terreno...»
«Impedendovi di recuperare il vostro tesoro» terminò il senatore.
«Decidemmo così di aspettare che i muratori finissero l’edificio: la perla era al sicuro e in qualche anno saremmo stati adulti, pronti per dividerci il ricavato. Nel frattempo, però, Pilade si trasferì a Baia, al seguito di un ricco provinciale su cui aveva fatto colpo. A dire il vero, nessuno di noi lo rimpianse, perché senza di lui aumentava il nostro guadagno: eravamo rimasti in cinque, e tutti ben determinati a riprendere la perla.»
«Come mai proprio adesso?»
«In tua assenza, la sorveglianza è strettissima, mentre avevamo notato che quando sei in villa, tu non vuoi troppa gente attorno. Vedendoti giungere qui in pieno inverno, abbiamo pensato di cogliere l’occasione al volo. La sorte stabilì che fossero Leucio e Cirno a provare per primi, e sai com’è finita. Eppure si trattava di esperti rocciatori, abituati ad arrampicarsi sugli scogli fin da piccoli...»
Aurelio rammentò all’improvviso le pupille dilatate dei cadaveri, e corrugò la fronte, sospettoso.
«Io ho deciso di venire sola, e a nuoto, per evitare le guardie che avevi messo agli ormeggi.»
«Non temevi l’acqua gelida?»
«Ci sono abituata.»
«Il prossimo a provarci sarebbe stato Attilio?»
«No, Zena. Attilio si è slogato una caviglia durante un incidente in barca, l’anno scorso. È guarito bene, ma non può più affrontare una scalata.»
Aurelio annuì, riservandosi di far controllare l’informazione dal fido segretario Castore.
«Comunque, se mi permetterai di salire lassù, non ti daremo più alcun disturbo» insistette Melissa. «Vedi, è assolutamente necessario che sia io a recuperare la perla. Zena non deve entrarci...»
«Perché mai?» volle sapere Aurelio.
«Zena» spiegò Melissa «è la figlia di Macario, il responsabile dei moli che, non avendo figli maschi, progetta di affidare i suoi affari al futu...