Quella notte, mentre la luna tramontava e i gatti ne facevano di tutti i colori, scoprii che esistevano cose come i superconduttori e che molti paesi stavano già sperimentando la levitazione e che creando un cuscinetto d’aria si eliminava l’attrito e i veicoli sospesi nel campo magnetico potevano raggiungere velocità stratosferiche. Scoprii anche che il problema era raffreddare i superconduttori (se non sono a temperatura sottozero non perdono tutta la resistenza elettrica) e che farlo costa tantissimo, quindi nessuno voleva produrli.
— Fisico che scoprirà superconduttori a temperatura ambiente ha già premio Nobel in tasca — sentenziò il costruttore spegnendo l’ennesima sigaretta.
Io ero tutta un bozzo di zanzara, ma non poteva importarmene di meno. Mi sentivo al settimo cielo. Non solo la mia idea era realizzabile, in teoria, ma le migliori menti della fisica mondiale ci stavano già lavorando! Mi pareva di essere stata accettata al ballo di Cenerentola in pigiama, solo che il mio principe azzurro era uno scienziato con una faccia inguardabile e il vizio del fumo.
— So per certo che fisici oltreoceano stanno lavorando a speciali cinture che faranno volare come Superman — aggiunse — quindi spicciati.
Poi sollevò lo sguardo; si accorse che la luna era bassa nel cielo e sussultò. — Com’è tardi! Vai a casa, subito! Parleremo ancora domani, quando porterai mia rivista.
Infilò la mano in tasca e mi porse una banconota. — Mi raccomando, tieni resto — disse. — E leggi tutta rivista prima di dare a me.
Io non ne volevo sapere di obbedire, ma uno sguardo truce con l’occhio brutto mi convinse a scattare sull’attenti. È uno dei vantaggi dell’essere spaventoso, immagino. Ero già a metà strada, quando mi voltai per l’ultima volta.
— Se una cosa si muove senza attrito — dissi — allora non c’è perdita di energia, giusto?
— Giusto, vai a dormire.
— Questo non contraddice la seconda legge della termodinamica?
Il costruttore smise di osservare le stelle e si girò verso di me. — Sì, è così. Ma hai già preso trenta e lode stanotte e se non vai a letto adesso, dirò a tua madre che esci di nascosto di notte per incontrare uomini adulti sotto questo gelsomino. Dirò di chiuderti in casa e buttare chiave. Niente patto fra noi, niente lavoro.
Però sorrideva. Da un orecchio all’altro.
— Ancora una cosa — disse in fretta, quasi se ne fosse ricordato all’ultimo minuto. — Non fare più questo.
— Questo, cosa?
Avvicinò la mano alla testa. — Fiori nei capelli. Non farlo mai più, per piacere.
Mi strinsi nelle spalle. Nemmeno mi ricordavo d’averli. Arraffai il mazzetto di gelsomino e lo scagliai a terra. Adesso so che quel gesto lo fece trasalire; con il senno di poi, lo ricordo chiaramente. Allora, però, ero così felice che non mi sarei accorta se un’astronave fosse atterrata nel bel mezzo del cortile, portandomi a bordo con un raggio teletrasportatore. Impossibilità di livello uno, se per caso ve lo state chiedendo.
Era tardissimo, eppure non avevo per niente sonno. Mi sedetti alla scrivania, aprii il quaderno e cominciai a trascrivere tutto quello che mi aveva spiegato il costruttore prima che mi dimenticassi qualcosa. La notte cominciava a rischiarare, ma la luna gettava ancora abbastanza luce perché potessi scrivere senza accendere l’abat-jour. Quando tutti i miei appunti furono ricontrollati per la decima volta e, pur spremendomi le meningi, fui sicura di non aver dimenticato nemmeno una parola, andai alla tapparella per tirarla giù.
Le sorprese però non erano finite. Sotto il gelsomino vedevo brillare due sigarette. Ero curiosa e gelosa e tentata di scavalcare di nuovo il cornicione per scoprire chi fosse il nuovo amico del mio amico. Solo la prospettiva di essere rimossa dal mio incarico prima ancora di averlo svolto mi tratteneva, così mi feci forza, afferrai la cinghia e lasciai scivolare giù la tapparella. Mi stesi sul letto e incrociai le braccia dietro la testa. A parte quell’ultimo dettaglio che mi guastava un po’ la festa, era stata una serata memorabile. Forse avrei potuto addormentarmi nella mia antica, mai dimenticata posizione preferita. In fondo il Mostro non era affatto un mostro e la persona in cortile poteva benissimo essere la mamma di Silvia, fumatrice accanita, celebre nottambula e signora incline a chiacchierate notturne con uomini soli. Viceversa, esattamente ventinove passi dopo, tanti bastavano a separare il gelsomino dalla mia finestra – li avevo appena contati – sentii distintamente la chiave nella serratura d’ingresso. L’amico del mio amico era mio fratello maggiore. Quel tormento di Pietro mi avrebbe defraudata anche della mia fonte di guadagno, di quella minuscola speranza di realizzare i miei desideri e che mi ero conquistata da sola? Cosa avrei potuto fare se il costruttore avesse chiesto a lui di andare a comprargli la sua rivista? Era un ragazzo grande, aveva amici con la faccia cattiva, presto avrebbe avuto anche il motorino. E io ero solo una ragazzina con un’amica della mia età e nemmeno una bicicletta decente in due. E se non avessi trovato la sua rivista alla prima edicola? Se avessi dovuto perlustrare tutta la città? Come avrei potuto fare, con la Graziella? Mi rigirai sul fianco, presagendo il gusto amaro della sconfitta con il caffellatte dell’indomani.
Silvia ridimensionò le mie preoccupazioni con un’alzata di spalle. Il costruttore aveva affidato a me, non a mio fratello, quell’incarico. Evidentemente non si fidava di un ragazzotto con più brufoli che intelligenza. E poi io avevo dimostrato di capirci delle cose che faceva lui, quali che fossero. Di sicuro era un riferimento al motore a moto perpetuo, ma sperare che Silvia ricordasse qualcosa di scientifico era come chiedere a me la differenza fra una camicetta e una blusa. Notai un moto di impazienza nella sua voce e mi preoccupai che mi abbandonasse prima del tempo, esasperata dal mio carattere lamentoso. Giurai a me stessa che non avrei mai più esternato nessuna delle mie ansie, che avrei imparato dalla mia amica, che girava con un coltello nella borsetta e temeva solo eventi altamente improbabili, tipo che il cielo le cadesse sulla testa.
Così, approfittando del fatto che mamma fosse al mercato e Silvia mi tenesse compagnia mentre io la sostituivo in guardiola, mi precipitai dentro casa e recuperai la Barbie da sotto la scrivania. Senza pensarci un secondo la consegnai nelle mani della mia amica, che la ricevette con la serietà dovuta alla circostanza. Per noi era l’equivalente amicale di uno scambio di anelli. Ringraziò con un’espressione molto seria sul viso, mi diede un bacio sulla guancia e fece scivolare con delicatezza Miss Courage nella borsa. Io la guardai sparire come un naufrago vede affondare la nave prima d’aver messo piede sulla scialuppa di salvataggio. Silvia se ne accorse, perché mormorò: — Mademoiselle Coco sarà felice di rivedere la sua amica. E poi mica sparisce, la terrò solo finché non la rivorrai indietro, d’accordo?
Annuii, muta.
— Sai dove può essere finita la stoffa bianca di ieri? — chiese poi. — È tutta mattina che la cerco.
— Forse l’ha presa il costruttore. Stanotte ho visto che la teneva sulle ginocchia.
Silvia sbuffò, ma a me, che la conoscevo bene, non sfuggì il lampo di soddisfazione nei suoi occhi. Qualcuno apprezzava il suo lavoro, persino quello che lei riteneva di scarto.
— Un giorno sarai famosa come Coco Chanel — dissi, e ci credevo. Anche se assonnata e preoccupata, bastavano un paio d’ore con Silvia per convincermi che tutto fosse possibile. Lei si sarebbe distinta nel suo campo, io nel mio. Stavo arrivando a fantasticare di ricevere il Nobel per la fisica indossando uno dei suoi abiti, magari quello d’erba, quando la voce allegra di Paolino annunciò che il mio turno come sostituta di mamma era terminato.
Mi precipitai ad aiutarla con le sporte mentre Paolino, euforico per aver ricevuto una girandola colorata, le saltellava fra i piedi.
— Santo cielo, che prezzi! Ma dove andremo a finire? — si lamentò mamma.
Silvia, che detestava tutte le lagne, non solo le mie, salutò educatamente, fece una carezza sui capelli di mio fratello e filò in casa.
Paolino sospirò deluso, come sempre quando si rendeva conto che nemmeno una girandola nuova di zecca bastava a trattenere la sua amata. Dovendosi accontentare di me, iniziò a raccontarmi le meraviglie che aveva visto al mercato, ma che non era riuscito a ottenere. Oltre alle banane – carissime! – e il polipo da cucinare in umido – impossibile! – il suo sogno irrealizzabile era una barca a vela radiocomandata.
— Avrei potuto farla navigare nella fontana — brontolò mettendo il broncio.
— Tanto non c’è acqua — dissi per consolarlo.
— Mamma non può spendere soldi in giocattoli — intervenne nostra madre — ma adesso che tua sorella ha un lavoretto, magari te la regalerà lei.
Paolino spalancò gli occhi. Per fortuna il nervo ottico li tiene attaccati al cranio, se no gli sarebbero schizzati fuori. Si precipitò ad abbracciarmi, coprendomi le mani di baci appiccicosi. Io ero senza parole. Mi voltai a guardare mia madre, sperando che capisse dalla mia espressione quello che non riuscivo a esprimere a parole, ma purtroppo mi dava le spalle mentre sistemava la frutta nel frigorifero. Forse non le avevo detto chiaro e tondo che i soldi mi servivano per la Roma Sport? Dovevo spiegarle anche che non avevo intenzione di fare la mamma surrogata di Paolino, che già mi bastava impegnarmi per mandare all’università mio fratello Pietro quando avrei tanto voluto andarci io? Che avevo dei progetti miei? Avevo dei progetti miei! La frase, urlata nella mia testa, non arrivò mai alle orecchie di mia madre che si voltò solo per passarmi una minuscola sporta. — Questa è la spesa del signore del sesto piano, puoi portargliela su insieme alla sua rivista? Così mi risparmio il viaggio.
Paolino smise di correre con la sua girandola nuova per rivolgermi uno sguardo allarmato. — Lavori per il Mostro della scala C? Non puoi!
— Sì che posso — replicai con un ghigno. — Mi sta insegnando a cucinare i bambini finché sono belli teneri.
Paolino strillò e mamma mi spedì in camera mia. A dire la verità, l’unica cosa che stavo imparando al momento era come sfogare le mie frustrazioni sui più deboli. Avevo appena scoperto come nasce un bullo. Chissà se era il tipo di scoperta che si poteva tradurre in un’equazione.
Mi ritirai in camera a studiare l’equazione della prepotenza, ma l’insuccesso non fece che aumentare la mia rabbia. Pietro si alzò e si asserragliò in bagno a combattere la sua guerra quotidiana contro i brufoli, così io ne approfittai per sgattaiolare in camera sua. Non ci misi molto a trovare quello che stavo cercando: i suoi libri erano tutti impilati a prendere polvere sullo scaffale più alto. Non si sarebbe accorto della loro sparizione, a meno che una seconda glaciazione avesse reso necessario bruciarli nella stufa.
Cercai un’equazione simile a quella che mi interessava: una forza proveniente dall’alto, se compressa (in una mente ristretta dalla timidezza), ne produceva una uguale e contraria, ma diretta verso il basso?
L’unica teoria simile mi sembrava quella di Archimede e dei corpi immersi nell’acqua. Forse c’era qualcosa di utile nel passaggio dallo stato liquido a quello gassoso, ma non potevo esserne sicura perché non capivo tutto quello che leggevo. Eppure, ancorché misterioso, mi sembrava bellissimo. Era come un rebus della “Settimana Enigmistica”: se avessi trovato la chiave per decifrarli, tutti quei misteri mi si sarebbero svelati.
Ero quasi tornata tranquilla, quando mamma venne a chiamarmi per pranzo. Si sedette accanto a me, lanciando occhiate corrucciate alle pagine aperte. — È uno dei libri di Pietro?
— Sì, tanto a lui non serve.
— Ci capisci qualcosa?
— Non molto, ma solo perché nessuno me l’ha ancora spiegato.
Mamma restò un momento in silenzio, strofinandosi le mani nel grembiule anche se erano asciutte e pulite. — Tu sei una ragazza molto intelligente e io sono orgogliosa di te — disse alla fine. — Ma questo non ti rende migliore degli altri. — Si alzò senza guardarmi in faccia. — È pronto, vieni a tavola.
In occasione di quella importante missione, Silvia si era vestita come una turista in vacanza: abitino bianco, sandaletti bianchi e persino i guanti bianchi della prima comunione. Io invece portavo i soliti jeans con le toppe e nemmeno una maglietta pulita. Saltammo sulla Graziella emozionate e agitatissime. Gli ordini erano stati chiari e indiscutibili: partenza ore 15, ritorno entro ore 19 altrimenti la punizione sarebbe stata esemplare. E quando mamma diceva esemplare, significava settimane di lavori forzati. Quindi avevo tirato fuori dal comodino l’orologio, che usavo solo nei mesi di scuola odiandolo con tutto il cuore. Primo perché nel cinturino si impigliavano sempre i peletti del polso, secondo, perché non faceva che ricordarmi che nessuna delle mie ore era davvero a mia disposizione.
Pedalai a tutto gas verso il capolinea del tram, dove avremmo legato la Graziella davanti al bar frequentato da Pietro. Solo così saremmo state ragionevolmente sicure di ritrovarla al nostro ritorno. Il tram n° 12 attraversava la città da un capo all’altro, impiegando due ore esatte. Lungo il tragitto contavamo di trovare un’edicola con la rivista del costruttore. Poi ci saremmo concesse una sosta in centro per mangiare un gelato vero, non fatto di polverine e aria soffiata, quindi avremmo guardato le vetrine. Un’ora prima del coprifuoco, per non rischiare ritardi, saremmo montate sul 12 barrato per tornare a casa. Facile come bere un bicchier d’acqua.
Silvia aveva messo nella borsa dei biscotti, un thermos pieno d’acqua e un biglietto con i nostri nomi, indirizzi e numeri telefonici, nemmeno stessimo partendo per la guerra, più due sigarette rubate a sua madre da scambiare nel caso ci fossimo trovate nella necessità di un baratto.
Così equipaggiate ci lanciammo nel vasto mondo, dove tutto cominciò ad andare storto fin dal primo momento.
Aspettammo il tram per venti minuti, scombussolando la tabella di marcia e il mio umore. Quando finalmente arrivò, si scoprì guidato dal conducente più cauto del mondo, capace di fermarsi prima ancora che il semaforo diventasse giallo; tutte le edicole sul percorso erano chiuse per ferie. Silvia gli offrì una sigaretta e iniziò a trattare per convincerlo ad aumentare la velocità ma il tizio, che pure accettò l’offerta, rispose che era un neoassunto neopadre e che per niente al mondo avrebbe rischiato una sospensione per eccesso di velocità.
Stavo per soccombere a una crisi di nervi, quando ci disse che in centro conosceva una libreria che restava aperta tutto agosto e che aveva un enorme reparto per le riviste. Lì, ci assicurò, avremmo trovato di certo quello che stavamo cercando, perché era anche vicinissima al Politecnico. L’università delle facoltà scientifiche! Matematica, ingegneria, agraria, veterinaria, medicina, fisica… Fisica! Fino al giorno prima sapevo a malapena che cosa fosse e all’improvviso non volevo vivere senza. Fino al giorno prima ero convinta che mi sarei presa una cotta simile per un ragazzo, magari con i capelli rossi. Invece mi ero innamorata di un’idea.
Con il cuore che batteva a mille, troppo nervosa per restare seduta, scrutai da sopra la testa di Silvia le strade deserte, in cerca di tipi strani. Mi chiesi che cosa avesse in mente il costruttore quando mi aveva chiesto di tenere gli occhi aperti. Quel tipo con il cappello di paglia che portava fuori il cagnolino era un tipo strano? Quello giovane che faceva jogging nonostante il caldo? Quello con i baffoni spioventi? Mi dissi c...