Lo scudo di Talos
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Lo scudo di Talos

  1. 324 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Lo scudo di Talos

Informazioni su questo libro

Non c'è posto per un bambino storpio in una famiglia spartana, così Talos viene abbandonato in fasce e salvato da un vecchio pastore che gli insegnerà ad opporsi a un destino già assegnato. Il coraggio e l'ostinazione faranno di lui un arciere abile e possente, al servizio del prepotente ma intrepido Brithos. Senza sapere che un filo di sangue unisce il loro passato... e il loro futuro. Fino a quando Talos non scoprirà qual è davvero il sentiero del suo destino.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804627227
eBook ISBN
9788852036613

PARTE PRIMA

OSPITE, QUELLO CHE DEVE ACCADERE PER VOLERE DEL DIO, DIFFICILE È PER L’UOMO STORNARLO, E LA PEGGIORE DELLE PENE UMANE È PROPRIO QUESTA: PREVEDERE MOLTE COSE E NON AVERE SU DI ESSE ALCUN POTERE.
ERODOTO

TAIGETO

Con il cuore pieno di amarezza sedeva il grande Aristarchos e guardava il figlioletto Kleidemos dormire tranquillo nel grande scudo paterno che gli fungeva da culla. E dormiva poco distante, in un lettino appeso al soffitto, il maggiore, Brithos.
Il silenzio che avvolgeva l’antica casa dei Kleomenidi era rotto d’un tratto dallo stormire delle querce nel bosco vicino. Un lungo, profondo sospiro del vento.
Sparta, l’invincibile, era avvolta dalla notte e solo il fuoco che ardeva sull’acropoli mandava bagliori rossastri verso il cielo percorso da nubi nere.
Aristarchos si scosse con un brivido e andò ad aprire l’impannata gettando uno sguardo nella campagna addormentata e scura.
Pensò che era giunto il momento di compiere ciò che doveva se gli dèi nascondevano la luna e oscuravano la terra, se le nubi nel cielo erano gonfie di pianto.
Staccò il mantello dalla parete gettandoselo sulle spalle, poi si chinò sul figlioletto, lo sollevò, lo serrò piano al petto e si avviò con passo leggero mentre la nutrice del piccolo si girava nel sonno tra le coperte.
Aristarchos si fermò restando immobile per un attimo, sperando in cuor suo che qualcosa gli consentisse di rimandare ancora quell’azione tremenda poi, udito di nuovo il pesante respiro della donna, si fece forza, uscì dalla camera attraversando l’atrio appena rischiarato da una lucerna di coccio. Si affacciò sul cortile investito da una folata di vento freddo che quasi spense la fiammella già fioca e, mentre si girava per richiudere la pesante porta di rovere, vide ritta davanti a sé, come una divinità della notte, sua moglie Ismene, pallida, gli occhi scuri lucidi e sbarrati.
Un’angoscia mortale era dipinta sul suo volto: la bocca, contratta come una piaga dolente, sembrava serrare una pena disumana.
Aristarchos si sentì gelare il sangue nelle vene; le gambe possenti come pilastri si fecero di giunco. «Non per noi…» mormorò con la voce rotta. «Non per noi l’abbiamo generato… Doveva essere questa notte o non avrei più trovato la forza…»
Ismene protese la mano verso il piccolo involto mentre i suoi occhi cercavano quelli del marito…
Il piccolo si svegliò e si mise a piangere e Aristarchos si slanciò allora all’esterno fuggendo nella campagna.
Ismene, ritta sulla soglia, restò a guardare per qualche tempo l’uomo che correva, ascoltando il pianto sempre più debole di suo figlio: il piccolo Kleidemos che gli dèi avevano colpito quando era ancora nel suo ventre facendolo nascere storpio, condannandolo a morte, secondo le leggi implacabili di Sparta. Richiuse la porta e si diresse lentamente verso il centro dell’atrio fermandosi a guardare le immagini degli dèi a cui aveva portato offerte generose per tutto il tempo della sua attesa e che aveva tanto pregato, per lunghi mesi, perché infondessero vigore in quel piedino rattrappito, invano.
Si sedette sul focolare al centro della grande camera spoglia, sciolse le trecce nere tirandosi i capelli sulle spalle e sul petto poi, raccolta la cenere alla base del tripode di rame, se la versò sul capo. Alla luce tremolante della lucerna le statue degli dèi e degli eroi kleomenidi la fissavano con l’immutabile sorriso scolpito nel legno di cipresso. Ismene sporcava di cenere i bei capelli, si graffiava il volto fino a farlo sanguinare mentre il suo cuore si chiudeva in una morsa di gelo.
Aristarchos correva intanto nella campagna, le braccia strette al petto, il mantello che gli vorticava intorno sferzato dal fiato di Borea.
Arrancava su per la montagna aprendosi la via tra i rovi e i cespugli del bosco mentre forme spaventose si animavano sul terreno al balenare improvviso dei lampi. Gli dèi di Sparta erano lontani in quel momento di amarezza suprema: ora egli doveva avanzare solo tra le presenze oscure della notte, tra le creature maligne del bosco che insidiano il passo ai viandanti e portano gli incubi dal ventre cavo della terra.
Trovò il sentiero all’uscita di un macchione, si fermò un momento, ansante, a riprendere fiato.
Il piccolo non piangeva più, si sentiva soltanto agitare le piccole membra dentro l’involto, come un cucciolo, chiuso in un sacco, che sta per essere gettato nel fiume.
Il guerriero alzò lo sguardo al cielo pieno di nubi gigantesche, forme scarmigliate, minacciose… Mormorò tra i denti antiche formule di scongiuro e si avviò per il sentiero erto mentre le prime gocce di pioggia si spegnevano nella polvere con piccoli tonfi sordi.
Attraversata la radura si immerse di nuovo nella macchia. I rami e gli sterpi gli graffiavano il volto che le mani non potevano proteggere; la pioggia era ormai fitta, pesante, cominciava a penetrare tra le frasche rendendo molle e scivoloso il terreno.
Aristarchos cadeva sulle ginocchia e sui gomiti sporcandosi di fango e del marciume delle foglie morte o lacerandosi sui ciottoli appuntiti che sporgevano qua e là dal sentiero sempre più erto e stretto. Con un ultimo sforzo raggiunse il primo dei cocuzzoli boscosi della montagna e si addentrò in un boschetto di querce che si ergeva in mezzo a uno spiazzo invaso da una vegetazione fitta e bassa di cornioli, di razze, di ginestre.
La pioggia era diventata scrosciante; Aristarchos, coi capelli incollati sulla fronte, gli abiti fradici, camminava ora lento e sicuro sul muschio molle e odoroso. Si arrestò davanti a un leccio secolare dal gran tronco cavo, si inginocchiò fra le radici e depose il suo fardello nella cavità. Stette un attimo a guardare il figlio che agitava le piccole mani fuori dalla coperta, mordendosi a sangue il labbro inferiore, sentì l’acqua scorrergli lungo la spina dorsale, a fiotti, ma la bocca era secca, la lingua, come un pezzo di cuoio, attaccata al palato. Ciò che si doveva fare era fatto, gli dèi avrebbero compiuto il destino.
L’ora di tornare era giunta, era giunto il momento di soffocare per sempre la voce del sangue e il grido del cuore. Si alzò lentamente, faticosamente, come se tutto il dolore del mondo gli gravasse sul petto e se ne andò donde era venuto.
Il temporale sembrava placarsi mentre Aristarchos scendeva le balze del Taigeto e una nebbia leggera emanava dalle viscere della montagna, diffondendosi fra i tronchi secolari, sommergendo i cespugli grondanti, strisciando sui sentieri e sulle radure. Il vento soffiava ancora a tratti, con brevi raffiche, facendo scrosciare l’acqua dalle fronde.
Finalmente, lasciata la foresta, Aristarchos riuscì nella pianura e si fermò un momento volgendo lo sguardo alle cime della montagna. Davanti a sé, nella campagna umida, vide scintillare le acque dell’Eurota illuminato a tratti dai raggi freddi della luna che ora si mostrava in uno squarcio tra le nubi.
Mentre stava per imboccare il ponticello di legno sul fiume sentì un rumore provenire dalla sua sinistra: si volse di scatto e al chiarore incerto della luna vide davanti a sé un cavaliere, il volto nascosto dalla celata, ritto sull’animale madido e fumante. Sulla corazza brunita balenò per un istante l’insegna della guardia reale: “Sparta… Sparta già sapeva…” Un colpo di talloni, un’impennata e il galoppo si perse col vento lontano, nei campi.
«Krios! Krios! Per tutti gli dèi, vuoi fermarti? Vieni qua, ti dico!»
Il piccolo bastardo incurante dei richiami scendeva trotterellando deciso lungo il sentiero sollevando spruzzi dalle pozzanghere mentre il vecchio pastore lo seguiva con passo incerto, imprecando. La bestiola puntò decisa alla base di un leccio colossale e si fermò uggiolando e agitando la coda.
«Accidenti a te» borbottava il vecchio «non sarai mai un cane da pastore… Cosa sarà questa volta?… Sarà un porcospino, o un pulcino di merlo… no, è ancora presto per i pulcini di merlo. Per Zeus e per Herakles, sarà forse un cucciolo d’orso? Ahiahi! Ecco che verrà la madre del cucciolo e ci farà a pezzi tutti e due!»
Il vecchio, giunto ormai dove il cane si era arrestato, si chinò per raccoglierlo e tornare sui suoi passi ma restò improvvisamente immobile, così piegato a mezzo: «Non è un cucciolo d’orso, Krios» borbottò racquietando la bestia con una carezza «è un cucciolo d’uomo… forse di un anno o poco più… vediamo» disse poi aprendo l’involto; ma come ebbe visto il piccolo che si muoveva appena, intirizzito com’era, un’espressione grave gli si dipinse in volto: «Ti hanno abbandonato» disse. «Certo hai qualche difetto che ti avrebbe impedito di diventare un guerriero. E ora, che faremo, Krios? Lo abbandoneremo anche noi? No, no, Krios, gli Iloti non abbandonano i bambini… Lo prenderemo con noi» decise, raccogliendo il fagotto dal cavo della pianta. «E vedrai che si salverà… se non è morto finora, vuol dire che è forte. E ora torniamo, che abbiamo lasciato il gregge incustodito.»
Il vecchio si avviò seguito dal cane e poco dopo varcava il recinto di una fattoria mentre l’animale raggiungeva il gregge che pascolava poco distante.
Spinse la porta della capanna ed entrò: «Guarda cosa ho trovato, figlia» disse rivolto a una donna non più giovane intenta a cagliare un gran vaso di latte.
La donna, con mossa esperta, sollevata con un telo la cagliata, l’appese a un uncino che pendeva dal soffitto e si avvicinò al vecchio che, appoggiato il fagotto su una panca, l’andava aprendo con circospezione: «Ecco, vedi, l’ho trovato poco fa nel cavo del leccio grande… È certo uno di loro… devono averlo abbandonato questa notte col favore del buio e del brutto tempo. Certo ha un difetto… forse quel piedino… vedi? Non lo muove. Lo sai, quando non sono perfetti nel corpo li lasciano ai lupi, maledetti… Ma Krios lo ha scoperto e io voglio tenerlo.»
La donna, senza dir nulla, andò a riempire di latte una vescica, vi creò una protuberanza allacciandone una parte, la forò con uno spillone e l’accostò alle labbra del piccolo che, sentito il tepore del liquido, cominciò a succhiare piano, poi sempre più avidamente.
«Eh, l’ho detto io che è forte!» esclamò il vecchio con soddisfazione. «Ne faremo un bravo pastore e così vivrà più a lungo che se fosse rimasto in mezzo a loro. Non dice forse il grande Achille a Odisseo negli Inferi che è meglio essere un umile pastore nel mondo del sole e della vita che un Re tra le ombre dei morti?»
La donna lo guardò con gli occhi grigi velati di tristezza: «Se è vero quello che dici, che gli dèi lo hanno colpito nel piede, egli resta pur sempre uno spartano, è figlio e nipote di guerrieri: non sarà mai uno di noi. Ma se vuoi io lo nutrirò e lo farò crescere.»
«Certo che voglio, per Herakles! Siamo poveri e la sorte ci ha fatto servi ma possiamo almeno restituirgli la vita che gli era stata tolta. E poi potrà aiutarci nel lavoro. Io sono ormai vecchio e tu devi fare quasi tutti i lavori più pesanti. Hai desiderato la gioia di avere dei figli e hai perso il marito prima di poter concepire. Questo piccolo ha bisogno di te e potrà darti la felicità che provano le madri.»
«Ma se il suo piede è offeso» disse la donna scuotendo la testa «forse non potrà mai camminare e i nostri padroni ci avranno dato un peso in più da portare… È questo che vuoi?»
«Per Herakles! Il piccolo camminerà e sarà più forte e abile degli altri ragazzi. Non sai che la sventura rende più dure le membra degli uomini, più acuti i loro occhi, più rapida la mente? Sai ciò che si deve fare, figlia: tu abbine cura e non fargli mancare il latte fresco di vacca, ruba il miele del padrone se puoi, senza che se ne accorga. Il vecchio Kratippos è ormai più rimbambito di me e il figlio non pensa e non sogna che le cosce della sua bella moglie che può vedere solo una volta la settimana, quando lo lasciano uscire dalla caserma. Nessuno della famiglia si occupa più dei campi e delle greggi: non si accorgeranno nemmeno di una bocca in più da sfamare.»
La donna prese allora una cesta, vi mise dentro alcune pelli di agnello e una coperta di lana e vi depose il bambino che, sfinito dalla stanchezza e sazio per il pasto, si addormentò quasi subito.
Il vecchio lo guardò compiaciuto poi andò a raggiungere il gregge, accolto festosamente dal cane che cominciò...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lo scudo di Talos
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. Copyright