Sessanta racconti
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Sessanta racconti

  1. 504 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sessanta racconti

Informazioni su questo libro

Riuniti in raccolta dallo stesso Buzzati questi racconti brevi rappresentano una vera "summa" del mondo poetico dello scrittore, uno dei maestri nella narrativa italiana contemporanea.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804493037
eBook ISBN
9788852039669

Sessanta racconti

1

I sette messaggeri

Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.
Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.
Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.
Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.
Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire.
Sebbene spensierato – ben più di quanto sia ora! – mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri.
Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione. Con l’andar del tempo mi accorsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e sì che nessuno di essi è mai caduto malato, né è incappato nei briganti, né ha sfiancato le cavalcature. Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a ricompensare.
Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio.
Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe. La sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi il terzo, poi il quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì Gregorio. Il primo non era ancora tornato.
Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata. Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non più.
Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi.
Allontanandoci sempre più dalla capitale, l’itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. Dopo cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia.
Trascorsi che furono sei mesi – già avevamo varcato i monti Fasani – l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi. Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava.
Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, l’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero.
Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggiati che si facevano sulle loro labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire. Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in cammino, il messo partiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate.
Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba.
Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere.
Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto.
Eppure va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria.
Tu sei l’ultimo legame con loro, Domenico. Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera.
Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro.
Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende.
Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.
Vado notando – e non l’ho confidato finora a nessuno – vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire.
Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio.

2

L’assalto al grande convoglio

Arrestato in una via del paese e condannato soltanto per contrabbando – poiché non lo avevano riconosciuto – Gaspare Planetta, il capo brigante, rimase tre anni in prigione.
Ne venne fuori cambiato. La malattia lo aveva consunto, gli era cresciuta la barba, sembrava piuttosto un vecchietto che non il famoso capo brigante, il miglior schioppo conosciuto, che non sapeva sbagliare un colpo.
Allora, con le sue robe in un sacco, si mise in cammino per Monte Fumo, che era stato il suo regno, dove erano rimasti i compagni.
Era una domenica di giugno quando si addentrò per la valle in fondo alla quale c’era la loro casa. I sentieri del bosco non erano mutati: qua una radice affiorante, là un caratteristico sasso ch’egli ricordava bene. Tutto come prima.
Siccome era festa, i briganti si erano riuniti alla casa. Avvicinandosi, Planetta udì voci e risate. Contrariamente all’uso dei suoi tempi, la porta era chiusa.
Batté due tre volte. Dentro si fece silenzio. Poi domandarono: «Chi è?».
«Vengo dalla città» egli rispose «vengo da parte di Planetta.»
Voleva fare una sorpresa, ma invece quando gli aprirono e gli si fecero incontro, Gaspare Planetta si accorse subito che non l’avevano riconosciuto. Solo il vecchio cane della compagnia, lo scheletrico Tromba, gli saltò addosso con guaiti di gioia.
Da principio i suoi vecchi compagni, Cosimo, Marco, Felpa ed anche tre quattro facce nuove gli si strinsero attorno, chiedendo notizie di Planetta. Lui raccontò di avere conosciuto il capo brigante in prigione; disse che Planetta sarebbe stato liberato fra un mese e intanto aveva mandato lui lassù per sapere come andavano le cose.
Dopo poco però i briganti si disinteressarono del nuovo venuto e trovarono pretesti per lasciarlo. Solo Cosimo rimase a parlare con lui, pur non riconoscendolo.
«E al suo ritorno cosa intende fare?» chiedeva accennando al vecchio capo, in carcere.
«Cosa intende fare?» fece Planetta «forse che non può tornare qui?»
«Ah, sì, sì, io non dico niente. Pensavo per lui, pensavo. Le cose qui sono cambiate. E lui vorrà comandare ancora, si capisce, ma non so…»
«Non sai che cosa?»
«Non so se Andrea sarà disposto… farà certo delle questioni… per me torni pure, anzi, noi due siamo sempre andati d’accordo…»
Gaspare Planetta seppe così che il nuovo capo era Andrea, uno dei suoi compagni di una volta, quello che anzi pareva allora il più bestia.
In quel momento si spalancò la porta, lasciando entrare proprio Andrea, che si fermò in mezzo alla stanza. Planetta ricordava uno spilungone apatico. Adesso gli stava davanti un pezzo formidabile di brigante, con una faccia dura e un paio di splendidi baffi.
Quando seppe del nuovo venuto, che anch’egli non riconobbe: «Ah, così?» disse a proposito di Planetta «ma come mai non è riuscito a fuggire? Non deve essere poi così difficile. Marco anche lui l’hanno messo dentro, ma non ci è rimasto che sei giorni. Anche Stella ci ha messo poco a fuggire. Proprio lui, che era il capo, proprio lui, non ha fatto una bella figura».
«Non è più come una volta, così per dire» fece Planetta con un furbesco sorriso. «Ci sono molte guardie adesso, le inferriate le hanno cambiate, non ci lasciavano mai soli. E poi lui s’è ammalato.»
Così disse; ma intanto capiva di essere rimasto tagliato fuori, capiva che un capo brigante non può lasciarsi imprigionare, tanto meno restar dentro tre anni come un disgraziato qualunque, capiva di essere vecchio, che per lui non c’era più posto, che il suo tempo era tramontato.
«Mi ha detto» riprese con voce stanca lui di solito gioviale e sereno «Planetta mi ha detto che ha lasciato qui il suo cavallo, un cavallo bianco, diceva, che si chiama Polàk, mi pare, e ha un gonfio sotto un ginocchio.»
«Aveva, vuoi dire aveva» fece Andrea arrogante, cominciando a sospettare che fosse proprio Planetta presente. «Se il cavallo è morto la colpa non sarà nostra…»
«Mi ha detto» continuò calmo Planetta «che aveva lasciato qui degli abiti, una lanterna, un orologio.» E sorrideva intanto sottilmente e si avvicinava alla finestra perché tutti lo potessero veder bene.
E tutti infatti lo videro bene, riconobbero in quel magro vecchietto ciò che rimaneva del loro capo, del famoso Gaspare Planetta, del migliore schioppo conosciuto, che non sapeva sbagliare un colpo.
Eppure nessuno fiatò. Anche Cosimo non osò dir nulla. Tutti finsero di non averlo riconosciuto, perché era presente Andrea, il nuovo capo, di cui avevano paura. Ed Andrea aveva fatto finta di niente.
«Le sue robe nessuno le ha toccate» disse Andrea «devono essere là in un cassetto. Degli abiti non so niente. Probabilmente li ha adoperati qualcun altro.»
«Mi ha detto» continuò imperturbabile Planetta, questa volta senza più sorridere «mi ha detto che ha lasciato qui il suo fucile, il suo schioppo di precisione.»
«Il suo fucile è sempre qui» fece Andrea «e potrà venire a riprenderselo.»
«Mi diceva» proseguì Planetta «mi diceva sempre: chissà come me lo adoperano, il mio fucile, chissà che ferravecchio troverò al mio ritorno. Ci teneva tanto al suo fucile.»
«L’ho adoperato io qualche volta» ammise Andrea con un leggero tono di sfida «ma non credo per questo di averlo mangiato.»
Gaspare Planetta sedette su una panca. Si sentiva addosso la sua solita febbre, non grande cosa, ma abbastanza da fare la testa pesante.
«Dimmi» fece rivolto ad Andrea «me lo potresti far vedere?»
«Avanti» rispose Andrea, facendo segno a uno dei briganti nuovi che Planetta non conosceva «avanti, va di là a prenderlo.»
Fu portato a Planetta lo schioppo. Egli lo osservò minutamente con aria preoccupata e via via parve rasserenarsi. Accarezzò con le mani la canna.
«Bene» disse dopo una lunga pausa «e mi ha detto anche che aveva lasciato qui delle munizioni. Mi ricordo anzi precisamente: polvere, sei misure, e ottantacinque palle.»
«Avanti» fece Andrea con aria seccata «avanti, andategliele a prendere. E poi c’è qualcosa d’altro?»
«Poi c’è questo» disse Planetta con la massima calma, alzandosi dalla panca, avvicinandosi ad Andrea e staccandogli dalla cintura un lungo pugnale inguainato. «C’è ancora questo» confermò «il suo coltello da caccia.» E tornò a sedere.
Seguì un lungo pesante silenzio. Finalmente fu Andrea che disse:
«Be’, buonasera» disse, per fare capire a Planetta che se ne poteva ormai andare.
Gaspare Planetta alzò gli occhi misurando la potente corporatura di Andrea. Avrebbe mai potuto sfidarlo, patito e stanco come si sentiva? Perciò si alzò lentamente, aspettò che gli dessero anche le altre sue cose, mise tutto nel sacco, si gettò lo schioppo sulle spalle.
«Allora buonasera, signori» disse avviandosi alla porta.
I briganti rimasero muti, immobili per lo stupore, perché mai avrebbero immagin...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Di Dino Buzzati
  3. Sessanta racconti
  4. Dino Buzzati
  5. SESSANTA RACCONTI
  6. Copyright