La morte in particolare sembra fornire agli anglosassoni una riserva di innocuo divertimento più grande di qualunque altro soggetto.
DOROTHY L. SAYERS
Le parole sopra riportate furono scritte da Dorothy Leigh Sayers nella sua prefazione a un volume intitolato Great short stories of detection, mystery and horror, third series (Grandi racconti polizieschi, del mistero e dell’orrore, terza serie), pubblicato da Gollancz nel 1934. La scrittrice non parlava, naturalmente, del devastante amalgama di odio, violenza, tragedia e dolore che è l’assassinio nella vita reale, bensì degli ingegnosi e sempre più amati racconti di mistero e d’investigazione di cui, a quel tempo, lei stessa era una nota e insigne autrice. E a giudicare dal successo mondiale dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle e del Poirot di Agatha Christie, gli anglosassoni non sono i soli a manifestare un robusto appetito per l’intrigo e il mistero. Sembra che il gusto di godere indirettamente dell’«assassinio come arte», per dirla con Thomas De Quincey, accomuni il mondo intero.
Nel suo libro Aspetti del romanzo E.M. Forster scrive:
«Il re morì e poi morì la regina» è una storia. «Il re morì e poi la regina morì di dolore» è una trama. ... «La regina morì, nessuno seppe perché, finché non si scoprì che era morta di dolore per la morte del re.» Questa è una trama con mistero, una forma narrativa con grandi potenzialità di sviluppo.
Io aggiungerei: «Tutti pensarono che la regina fosse morta di dolore, finché non scoprirono sulla sua gola il segno di una puntura». Questo è un misterioso assassinio e anch’esso ha grandi potenzialità di sviluppo.
I romanzi che contengono un mistero, che spesso implica un delitto, e che alla fine danno al lettore la soddisfazione di vederlo risolto, sono comuni nel canone della letteratura inglese, e a molti di essi non si penserebbe mai in termini di “giallo”. Anthony Trollope, che era affascinato, come il suo amico Dickens, dagli ambienti criminali e dalle imprese della nuova polizia investigativa, spesso nei suoi romanzi ci assilla con un mistero centrale. È stata Lady Eustace a rubare i diamanti di famiglia, e se no chi? Fu Lady Mason, in Orley Farm, ad apporre il codicillo nel testamento del marito, di cui lei e il figlio beneficiarono per trent’anni? Forse Trollope arriva più vicino al giallo classico con Phineas Redux, in cui l’eroe viene arrestato per l’assassinio del suo avversario politico, Mr Bonteen, e scampa alla condanna solo grazie alle solide prove circostanziali fornite dall’energica Madame Max, la donna che lo ama e si procura l’indizio fondamentale che contribuirà alla condanna del vero assassino. Chi è la misteriosa donna in bianco che dà il titolo all’omonimo romanzo di Wilkie Collins? In Jane Eyre di Charlotte Brontë la protagonista sente gridare di notte: chi sarà? E poi: chi aggredisce il misterioso visitatore di Thornfield Hall, quale ruolo gioca la domestica Grace Poole in queste oscure vicende? Charles Dickens provvede sia al mistero sia al delitto in Casa desolata, creando con l’ispettore Bucket uno dei più memorabili detective della letteratura, mentre il romanzo incompiuto The mystery of Edwin Drood fornisce elementi d’intreccio sufficienti a incoraggiare affascinanti congetture su come sarebbe andata a finire.
Un esempio più recente di romanzo che contiene un mistero e la sua soluzione è La talpa di John le Carré. È generalmente considerato uno dei più importanti romanzi moderni di spionaggio, ma è anche un giallo investigativo di perfetta costruzione. Il mistero centrale non è un omicidio, ma l’identità della talpa che opera nel cuore dei servizi segreti britannici. Conosciamo i nomi dei cinque sospettati e l’ambientazione fa di noi gli osservatori privilegiati di un mondo segreto, arcano e chiuso. Il detective chiamato a identificare il traditore è l’eroe seriale George Smiley, coadiuvato dal giovane collega Peter Guillam, e la soluzione finale è del tipo che il lettore può desumere dagli indizi lealmente forniti dall’autore.
Forse, però, il più interessante esempio di romanzo tradizionale che sia anche romanzo giallo è l’ingegnoso Emma di Jane Austen. Il segreto che costituisce la fonte principale dell’azione è una trama di rapporti occulti fra i protagonisti. La storia si svolge entro una società chiusa di stampo rurale, elemento che sarebbe diventato molto comune nella narrativa gialla, e Jane Austen ci inganna con indizi abilmente costruiti (otto si vedono subito), alcuni basati sull’azione, altri su conversazioni apparentemente innocue, altri sull’autorevolezza della voce narrante. Alla fine, quando tutto si svela e ogni personaggio viene ricollegato al vero partner, ci chiediamo come abbiamo fatto a lasciarci prendere in giro in quel modo.
Ma allora, di che cosa parliamo esattamente quando usiamo la parola “giallo” (detective story), in che modo il giallo si differenzia sia dal romanzo tradizionale sia dalla narrativa poliziesca (crime fiction), e come è cominciato tutto quanto? La letteratura incentrata su atroci delitti, in cui l’autore si fa carico di esplorare e interpretare contesti pericolosi e violenti, cause, ramificazioni ed effetti del crimine su colpevoli e vittime, copre uno spettro straordinariamente ampio della scrittura creativa, arrivando a comprendere alcune delle più grandi opere dell’immaginazione umana. Ne è un esempio Brighton Rock di Graham Greene. Sappiamo fin dall’inizio che Pinkie è un omicida e che lo sfortunato Hale, mentre cammina disperato per le strade e i vicoli di Brighton, sa, come noi, che finirà ammazzato. Il nostro interesse primario non va all’indagine sull’assassinio ma al tragico destino dei personaggi coinvolti. Il romanzo esprime velatamente la preoccupazione di Greene per l’ambiguità morale di porre il male al centro dell’opera creativa; in effetti egli arrivò a rammaricarsi dell’elemento poliziesco in Brighton Rock e persino di avere operato una distinzione tra i suoi romanzi, separando quelli di “intrattenimento” da quelli che aveva presumibilmente concepito come opere serie. Sono felice che Greene abbia da ultimo ripudiato questa problematica dicotomia, che isolava alcuni suoi romanzi come opere meno degne, e favoriva l’abitudine tuttora diffusa a distinguere i romanzi popolari, intriganti, accessibili – ma forse proprio per questo tendenzialmente sottovalutati –, da quelli appartenenti a una non precisata categoria superiore, in cui diventa legittimo parlare di vera letteratura. Greene certamente non intendeva dire che, scrivendo un romanzo di “intrattenimento”, si preoccupasse meno dello stile e della veridicità dei personaggi, né che modificasse l’intreccio e i temi narrativi per rincorrere una sua idea di gusto popolare. Questo è evidente nell’opera di un autore al quale si attagliano perfettamente le parole di Robert Browning:
Il nostro interesse va al margine pericoloso delle cose.
Il ladro onesto, il tenero omicida,
L’ateo superstizioso.
Sebbene il giallo, nei suoi esempi più alti, possa anche operare «al margine pericoloso delle cose», si differenzia sia dalla narrativa tradizionale sia dalla generalità di quella poliziesca per la struttura fortemente organizzata e per l’adesione a convenzioni riconosciute. Quello che possiamo aspettarci è che abbia al centro un misterioso crimine, solitamente un omicidio; inoltre, una ristretta cerchia di sospettati, ciascuno fornito di movente, modo e occasione; un investigatore, dilettante o professionista, che arriva come un dio vendicatore a risolvere il mistero; e, verso la fine, una soluzione che il lettore dovrebbe essere in grado di riconoscere per deduzione dagli indizi disseminati lungo il racconto in modo astuto ma sostanzialmente leale. È questa la definizione che ho sempre dato parlando del mio lavoro: eppure oggi mi appare eccessivamente restrittiva e, per quanto non imprecisa, comunque più calzante alla cosiddetta Golden Age tra le due guerre che non al momento attuale.1
Non tutti i “cattivi” devono essere necessariamente individuati tra i personaggi che compongono un piccolo gruppo di sospettati; può darsi che l’investigatore si trovi a fronteggiare un solo avversario, già identificato oppure occulto, che dev’essere smascherato e sconfitto con la deduzione logica, facendo leva sui fatti osservabili e naturalmente sulle consuete virtù eroiche: intelligenza, coraggio, energia. Questo tipo di “racconto del mistero” (mystery) si risolve spesso in un conflitto personale tra l’eroe e la sua preda, in cui non mancano lo scontro fisico, la spietatezza e la violenza, a volte spinta fino alla tortura. Anche se l’elemento investigativo è forte, il libro in tal caso si deve definire thriller, piuttosto che giallo. I romanzi di Ian Fleming che hanno per protagonista James Bond ne costituiscono l’esempio più lampante. Tuttavia, perché un libro possa definirsi giallo, deve comunque esistere un mistero centrale, che alla fine venga chiarito in modo soddisfacente e logico, non per fortuna o per intuizione, ma per intelligente deduzione da indizi presentati con onestà, seppure camuffati ad arte.
Una delle critiche rivolte al giallo è che lo schema imposto si traduca in una ricetta narrativa che costringe l’autore come una camicia di forza, nemica della libertà essenziale alla creatività, e che la sottigliezza della caratterizzazione, la vivezza dell’ambientazione e persino la credibilità vengano sacrificate al ruolo preponderante della struttura e dell’intreccio. Quello che io trovo affascinante, tuttavia, è la straordinaria varietà con cui si è saputo rielaborare questa cosiddetta ricetta, nonché la quantità di autori per i quali i limiti e le convenzioni del giallo hanno agito da catalizzatori anziché da freni dell’immaginazione creativa. Dire che non si possa produrre un buon romanzo entro la disciplina di una struttura formale è una sciocchezza, come dire che nessun sonetto può essere vera poesia perché deve limitarsi a quattordici versi – due quartine e due terzine – e a una certa sequenza di rime. I gialli, del resto, non sono i soli romanzi che si conformano a un impianto predefinito. Tutti i romanzi di Jane Austen sono accomunati dalla trama: una giovane donna attraente e virtuosa supera grandi difficoltà per convolare a nozze con l’uomo che ha scelto. Questo è lo stereotipo secolare del romanzo d’amore, ma con Jane Austen è come trovarsi di fronte a dei libri rosa scritti da un genio.
E perché l’omicidio? In realtà il mistero centrale di un giallo non implicherebbe necessariamente una morte violenta, tuttavia l’assassinio resta il crimine per eccellenza, carico di un atavico peso di ripugnanza, fascino e orrore. I lettori saranno probabilmente più interessati a sapere chi tra gli eredi di zia Ellie ha corretto la cioccolata con l’arsenico, che non a scoprire chi le ha rubato il collier di diamanti mentre villeggiava serenamente a Bournemouth. Gaudy night di Dorothy L. Sayers non contiene nessun omicidio, anche se ce n’è uno tentato, mentre la morte che costituisce l’evento centrale di Blood from stone di Frances Fyfield è uno spettacolare e misterioso suicidio. Comunque, a parte i romanzi di spionaggio che fanno del tradimento l’elemento principale, è raro che il crimine centrale di un giallo ortodosso sia qualcosa d’altro che il delitto estremo, irreparabile.
Come e quando il giallo è diventato un genere riconosciuto e popolare? Non esiste una risposta facile e universalmente accettata. Il romanzo stesso è un prodotto relativamente recente della creatività umana. Non regge il confronto, per esempio, con il dramma e, a differenza del dramma e del racconto orale, non può interessare che una minoranza privilegiata, finché la comunità non ha raggiunto un alto livello di alfabetizzazione. Il racconto orale è un’arte le cui origini si perdono nel passato più lontano. Le storie che combinano passione e mistero, che presentano un problema e la sua soluzione, sono già presenti nelle letterature antiche ed è verosimile che ancor prima, nei tempi più remoti, fossero tramandate dai cantastorie delle tribù, attorno ai fuochi dei nostri progenitori. Certamente c’è da supporre che i loro racconti trattassero d’imprese eroiche, di vendette e misteri, piuttosto che di sottili ambiguità caratteriali o dei problemi domestici della litigiosa coppia della caverna accanto. E se ne scrissero, di romanzi, e se ne lessero molto a lungo prima che lettori, editori, critici e librai pensassero di definirli e classificarli in categorie come giallo, thriller, rosa, fantasy, fantascienza, secondo distinzioni che spesso rispondono più a criteri di convenienza, marketing, gusto e pregiudizio che non alla realtà delle cose, e che possono risultare di poca o nessuna utilità sia per i libri sia per i loro autori.
Alcuni storici del genere affermano che il giallo vero e proprio, che in sostanza si prefigge di far riemergere l’ordine dal caos e di ristabilire la pace dopo l’irruzione distruttiva del delitto, non potrebbe esistere prima che una società arrivi a dotarsi di un organo investigativo ufficiale, momento che in Inghilterra coinciderebbe con il 1842, anno in cui venne istituito il dipartimento della Metropolitan Police. Un insigne autore di romanzi gialli, Reginald Hill, padre del duo investigativo di Andrew Dalziel e Peter Pascoe, della polizia dello Yorkshire, scrisse nel 1978: «Vorrei essere chiaro. Senza una forza di polizia non può esistere narrativa gialla, sebbene molti scrittori moderni abbiano cercato, con vari esiti, di scrivere romanzi investigativi ambientati in epoche antecedenti la nascita della polizia». Questa opinione sembra ragionevole: il giallo non ha grandi probabilità di prosperare senza un sistema organizzato di forze dell’ordine o in quelle situazioni in cui l’assassinio sia considerato una banalità. Gli autori di gialli, particolarmente nella Golden Age, erano nel complesso convinti sostenitori della legge e dell’ordine costituito, quindi delle forze di polizia. I singoli agenti potevano essere ritratti come inefficienti, pignoli, lenti d’ingegno, di scarsa cultura, mai come corrotti. Il giallo rientra nella tradizione del romanzo inglese, che vede il crimine, la violenza e il caos sociale come un’aberrazione, la virtù e l’ordine come la norma a cui tutte le persone ragionevoli aspirano e che conferma il nostro credo, a dispetto di ogni evidenza contraria, di vivere in un universo razionale, comprensibile, etico. Non ci offre solo il godimento che è proprio di ogni letteratura popolare, il gradevole stimolo intellettuale di un rompicapo, la passione, la conferma della nostra preziosa fede nella bontà e nell’ordine, ma anche l’accesso a un mondo familiare e rassicurante, in cui, quando si viene coinvolti nei fatti riguardanti una morte violenta, si resta personalmente inviolabili dalla colpa e dall’orrore. Che sia giusto o no attendersi d’essere comunque liberi da ogni responsabilità, è un’altra questione, naturalmente, e di quelle che incidono sulla differenza tra i libri del periodo fra le due guerre mondiali e i gialli di oggi.
Un capo dell’aggrovigliata matassa del giallo riconduce al diciottesimo secolo e comprende i racconti gotici dell’orrore scritti da Ann Radcliffe e Matthew Lewis. I romanzi gotici miravano soprattutto a eccitare il lettore con storie orrorifiche, imperniate sulla terribile e tragica condizione di un’eroina; pur introducendo nelle vicende narrate fatti oscuri ed enigmatici, erano di gran lunga propensi a coltivare più l’orrore che non il mistero. Ricordiamo nell’Abbazia di Northanger, di Jane Austen, la scena in cui l’eroina Catherine Morland e la sua amica Isabella si trovano a discutere delle rispettive letture. Isabella dice:
«Te ne leggerò subito i titoli; eccoli qui, nel mio libretto. Il castello di Wolfenbach, Clermont, Misteriosi presagi, Il negromante della Foresta Nera, Campana di mezzanotte, L’orfano del Reno e Orridi misteri. Ci dureranno per parecchio tempo.»
«Sì, parecchio; ma sono tutti terrificanti, sei certa che siano tutti terrificanti?»
Lo erano, in effetti, ma dal momento che i gialli trattano di un terrore “razionale”, l’influenza dei romanzi gotici sui successivi sviluppi del giallo fu limitata, sebbene in alcune opere di Conan Doyle risuonino gli echi di un terrore che ha ancora qualcosa di soprannaturale. Qualche critico potrebbe argomentare che l’orrore gioca un ruolo di gran lunga più importante del raziocinio nei moderni gialli psicologici, che trattano soprattutto di atroci omicidi seriali perpetrati da psicopatici. I più efficaci sono quelli di autori con un forte coinvolgimento personale nelle indagini su tal genere di delitti, come le americane Patricia Cornwell e Kathy Reichs e la scozzese Val McDermid, che ha assegnato un ruolo centrale al profiler Tony Hill, dimostrando con i suoi libri che un meticoloso lavoro di ricerca è essenziale sia per la verosimiglianza dell’ambientazione sia per la credibilità del racconto. Si potrebbe dire che questi romanzi, sempre più popolari, costituiscono un genere a sé nel panorama della narrativa poliziesca; lo stesso vale per i film.
Quando si cerca di risalire alle origini del giallo, la maggior parte dei critici concorda che due autori si contendono l’onore di aver scritto il primo, vero e compiuto giallo classico: William Godwin, il suocero di Shelley, che nel 1794 pubblicò Caleb Williams,...