Ridursi alla carne, apparentemente elevandosi al rango di divinità – «Solo io sono l’uomo» – introduce nella menzogna. Perché in realtà non è così: l’uomo non è un assoluto, quasi che l’io possa isolarsi e comportarsi solo secondo la propria volontà.
DAL DISCORSO AL PONTIFICIO
SEMINARIO ROMANO MAGGIORE,
20 febbraio 2009
Economia, sviluppo, Terra Santa
Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine è pericolosa per tutti. La denuncia del papa è contenuta nel messaggio per la XLII Giornata mondiale della pace, il 1° gennaio 2009 (Combattere la povertà, costruire la pace), che prende in esame anche la crisi abbattutasi sull’economia mondiale. Quando l’attività finanziaria è guidata da logiche autoreferenziali, incuranti del bene comune, le conseguenze possono essere devastanti.
Nel documento ci sono altri allarmi. La crisi alimentare nasce non tanto dalla carenza di cibo quanto da fenomeni speculativi e dalla mancanza di strumenti, in economia e in politica, in grado di prevenire e fronteggiare le emergenze. Di qui l’appello perché tutti i paesi abbiano le stesse possibilità di accesso a quel mercato globale che oggi troppo spesso è solo un meccanismo per rendere i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Il problema riguarda in modo particolare l’Africa, dipendente in maniera drammatica dall’esportazione di prodotti primari. La globalizzazione va governata, perché è impensabile che i soli meccanismi del mercato possano produrre giustizia. Il rischio è che il mondo di chi ha la pancia piena diventi una casa dorata circondata dal deserto e dalla sofferenza.
La nuova questione sociale va affrontata con un’opzione preferenziale per i poveri. E qui Benedetto torna sul problema demografico: ciò che occorre non è ridurre le nascite, come vuole chi ha già contribuito a un autentico «sterminio» di vite umane attraverso l’aborto, ma fermare la corsa agli armamenti, che toglie fondi preziosi ai progetti di sviluppo, e dare all’economia mondiale un quadro giuridico contro squilibri e ingiustizie.
A proposito di natalità, il papa vuole sfatare la connessione, a suo giudizio incongrua, fra aumento delle nascite e crescita della povertà. Le popolazioni uscite dalla povertà, sostiene, sono proprio quelle caratterizzate da un incremento demografico. Inoltre parla di «ricatti» attuati dalle campagne d’aiuto, che subordinano l’assistenza all’adozione di politiche «contrarie alla vita». Ciò che occorre è invece mettere a disposizione dei popoli poveri medicine e cure necessarie, promuovendo la ricerca medica e l’applicazione flessibile delle regole internazionali di protezione della proprietà intellettuale.
Decisa è la presa di posizione a favore dei poveri, netta la condanna delle derive antiumane del sistema capitalistico, costante il richiamo alla solidarietà non solo come imperativo morale, ma anche come unico strumento per costruire il futuro dell’umanità dal momento che siamo tutti sulla stessa barca. Le distorsioni dei sistemi ingiusti, osserva Benedetto, prima o poi presentano il conto a tutti.
Il papa invita a riflettere sull’idea di povertà. Se fossimo di fronte soltanto a problemi quantitativi, dice, le scienze sociali potrebbero essere sufficienti per analizzarli e prendere i provvedimenti opportuni. Ma le povertà sono anche quelle morali, spirituali e relazionali, presenti ovunque. Nei paesi ricchi c’è spesso un «sottosviluppo morale» mentre in quelli poveri ci sono impedimenti culturali che non permettono vie d’uscita. In tutti i casi, all’origine c’è il mancato riconoscimento della dignità della persona.
Originale è infine l’invito a considerare la povertà dal punto di vista dei bambini. Se si fa questo, si individuano automaticamente le priorità: l’impegno educativo, l’accesso ai vaccini e alle cure mediche, la disponibilità di acqua potabile, la salvaguardia dell’ambiente, la cura e la formazione delle madri, la difesa della famiglia e della stabilità delle relazioni al suo interno.
Incisiva è l’analisi che Benedetto XVI fa della situazione geopolitica mondiale nel tradizionale discorso agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede.
La scelta militare non è mai una soluzione e la violenza, da qualunque parte provenga e qualunque sia la sua forma, va sempre condannata. Nella Terra Santa, in particolare, non si potrà arrivare alla riconciliazione senza un approccio globale ai problemi della regione. Molto importante è che dalle elezioni possano emergere dirigenti capaci di far avanzare con determinazione il processo di pace.
Il «nodo» lefebvriani
Era il novembre 2008, giorno di Ognissanti, quando il vescovo tradizionalista inglese Richard Williamson ordinava diacono in Germania Sten Sandmark, uno svedese la cui conversione dal luteranesimo al cattolicesimo aveva suscitato polemiche in Svezia. Sandmark, infatti, non solo diventava cattolico, ma entrava a far parte della Fraternità San Pio X, fondata nel 1970 a Friburgo dal vescovo Marcel Lefebvre in seguito alla sua presa di distanza dal Concilio Vaticano II. Dato il clamore suscitato in Svezia, la consacrazione di Sandmark fu seguita da un giornalista televisivo di Stoccolma che, al temine della cerimonia, intervistò Williamson e portò il suo interlocutore, fra l’altro, sulla questione dei crimini nazisti. Fu a quel punto che il vescovo disse di non credere che sei milioni di ebrei fossero stati uccisi nelle camere a gas. Incredulo, il giornalista rifece la domanda e il vescovo ribadì: «La penso così, le camere a gas non sono mai esistite».
Williamson spiegò di essere del parere dei «revisionisti», secondo i quali nei campi di sterminio sarebbero morti non più di trecentomila ebrei, ma nessuno nelle camere a gas, e si addentrò anche nei particolari tecnici (come l’altezza dei camini e la tenuta delle porte) per cui, a suo giudizio, l’uccisione di sei milioni di persone era impossibile. Le sue affermazioni furono inserite in un documentario di un’ora andato in onda alla televisione svedese Svt1, all’interno di un programma intitolato Il compito della revisione, e subito il Consiglio centrale degli ebrei in Germania chiese l’apertura di un’inchiesta legale a carico di Williamson, perché negare l’olocausto in Germania è reato.
Williamson, poliglotta, diplomato a Cambridge, ordinato sacerdote da Lefebvre nel 1976 e vescovo dodici anni più tardi, non ha mai risparmiato le critiche a Benedetto XVI, nemmeno dopo la decisione papale di liberalizzare la messa secondo l’antico rito. In un’intervista accusò papa Ratzinger di «modernismo» con questa argomentazione: «Se un modernista è qualcuno che vuole adattare la Chiesa cattolica al mondo moderno, certamente Benedetto XVI lo è. Egli crede sempre che la Chiesa debba riappropriarsi dei valori della rivoluzione francese. Forse egli ammira il mondo moderno meno di Paolo VI, ma lo ammira ancora fin troppo. I suoi vecchi scritti sono pieni di errori modernisti».
Inoltre Williamson definì il papa «eretico» perché, «essendo il modernismo la sintesi di tutte le eresie, Ratzinger supera di gran lunga gli errori protestanti di Lutero». E ancora: «I tanti cattivi frutti dei pontefici conciliari, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e adesso Benedetto XVI, provano che si tratta di cattivi pontefici. In questa crisi senza precedenti nella storia della Chiesa sono proprio le autorità supreme della Chiesa, e in particolare il vicario di Cristo, a essere invase dall’eresia modernista. Questi papi conciliari sono ingannati in profondità dal mondo moderno».
È dunque comprensibile lo sconcerto suscitato dalla notizia, diffusa da alcuni organi di stampa il 22 gennaio 2009, secondo cui il Vaticano starebbe per emanare il decreto con cui il papa revoca la scomunica contro Williamson e altri tre vescovi ordinati da monsignor Lefebvre nel 1988 senza l’approvazione pontificia.
Da tempo il Vaticano sta cercando di riportare all’ovile le pecorelle tradizionaliste tanto che un’apposita commissione, denominata Ecclesia Dei, è al lavoro proprio per questo. Le trattative sono faticose perché i discepoli di monsignor Lefebvre alzano continuamente la posta, ma il papa ha dimostrato molta pazienza e, dopo l’incontro avvenuto a Castel Gandolfo il 29 agosto 2005 con monsignor Bernard Fellay, lo svizzero attualmente a capo della Fraternità San Pio X, la mossa decisiva in vista della riunificazione è stata la liberalizzazione della messa in latino secondo il rito di san Pio V, ovvero il rito precedente alle innovazioni introdotte dal Concilio Vaticano II e dal nuovo messale di Paolo VI.
Pur avendo scontentato ampi settori della Chiesa, le aperture di Benedetto XVI verso i lefebvriani sono continuate perché il papa ritiene che questa sia l’unica politica adottabile per sanare la ferita. Ora però la fuga di notizie circa la revoca della scomunica, proprio nel momento in cui dalla Germania e dalla Svezia rimbalzano le dichiarazioni di Williamson, è un macigno che si abbatte sia sul difficile dialogo tra Santa Sede e mondo ebraico sia sul lungo e complicato lavoro di ricucitura con i tradizionalisti.
Per Benedetto XVI è il secondo scacco subito nel tormentato rapporto con i lefebvriani. Nel 1988, infatti, monsignor Lefebvre consacrò i quattro vescovi dopo aver rifiutato un accordo già siglato proprio con l’allora cardinale Ratzinger, e a quel punto per Giovanni Paolo II fu impossibile non comminare la scomunica.
Il decreto di revoca della scomunica porta la data del 21 gennaio 2009 e la firma del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione per i vescovi. Con il decreto però non viene ristabilita la piena comunione con la Fraternità fondata da monsignor Lefebvre. Il provvedimento vaticano riguarda solo i quattro vescovi che erano stati consacrati in modo illegittimo senza autorizzazione papale. La scomunica è atto individuale e la revoca lo è allo stesso modo. Al momento la Fraternità San Pio X resta separata da Roma esattamente come lo era prima. In Vaticano si sta cercando una soluzione anche per questo (si parla per esempio della possibilità di arrivare alla configurazione di una prelatura personale, come per l’Opus Dei), ma è un percorso ancora in atto e tutto dipende da come si comporterà la Fraternità.
Nel reintegrare i quattro vescovi nei ranghi della Chiesa cattolica il decreto non parla esplicitamente del Concilio Vaticano II, ma il problema è proprio quello. I tradizionalisti lo accettano o no? Finora non lo hanno mai accettato, e anzi hanno sempre tuonato contro il Vaticano II e tutto ciò che ne è derivato.
L’interpretazione prevalente è che il papa avesse già deciso la riammissione dei quattro prima che Williamson se ne uscisse con le affermazioni negazioniste sulle camere a gas e l’olocausto, dopo di che il Vaticano avrebbe deciso di procedere in ogni caso perché, avendo promesso il provvedimento alla Fraternità, riammettere solo tre vescovi su quattro avrebbe creato più problemi di quelli che il decreto cercava di risolvere.
Di certo si tratta di decisioni personali di Benedetto XVI, che ha sempre avvertito il peso della trattativa fallita con i lefebvriani negli anni Settanta, quando Giovanni Paolo II lo aveva incaricato di riportare i tradizionalisti in seno alla Chiesa ma, per un voltafaccia di monsignor Lefebvre, gli era stato impossibile. Inoltre il papa è colpito dall’abbondanza di vocazioni che fioriscono all’interno della Fraternità e, in un momento in cui la Chiesa soffre per la mancanza di sacerdoti, ritiene che ricomporre la frattura con i lefebvriani sarebbe importante.
Sul fronte dei rapporti con l’ebraismo ora tutto diventa più difficile, ma il papa conta di potersi spiegare adeguatamente anche approfittando del viaggio in Israele, previsto per maggio. Il Vaticano ha già messo in azione i suoi uomini che si occupano di dialogo interreligioso, come il cardinale Kasper, il quale continua a ribadire come la negazione dell’olocausto sia inaccettabile e che non c’è stato alcun passo indietro rispetto alle posizioni di Giovanni Paolo II. La Chiesa vuole far capire che un conto sono le sue questioni interne e un conto le relazioni con le altre fedi.
Il 10 marzo 2009 il papa diffonde una lettera ai confratelli vescovi nella quale spiega il senso del suo operato e ammette qualche errore di comunicazione. Un gesto di misericordia verso quattro pastori ordinati in modo illegittimo e tuttavia valido, spiega, è stato preso come una smentita di un lungo cammino di dialogo e di amicizia con gli ebrei, e così quello che doveva essere un invito alla riconciliazione con una parte della Chiesa cattolica è diventato motivo di nuove fratture fra cristiani ed ebrei. Il rincrescimento del papa è tangibile, così come evidente è la sua tristezza per l’atteggiamento di quei cattolici che lo hanno subito aggredito dimenticando, o fingendo di dimenticare, che la revoca della scomunica non vuol dire riconoscimento dei lefebvriani e che in nessun modo una tale decisione avrebbe mai potuto cancellare tutto ciò che la Chiesa e lo stesso Ratzinger hanno fatto negli ultimi decenni per consentire un riavvicinamento fra cattolici ed ebrei dopo le tante ferite del passato. Quanto al caso Williamson, Benedetto riconosce lo sbaglio: sarebbe bastata un’occhiata a internet per accorgersi delle dichiarazioni antisemite e negazioniste del vescovo inglese, ma in Vaticano nessuno ha dimostrato questa attenzione.
Benedetto XVI spiega che per il papa, per ogni papa, priorità suprema è l’unità dei credenti. Da questa sola esigenza, e non da una sua fissazione, nasce la revoca della scomunica. Si tratta di una priorità rispetto alla quale è non solo possibile, ma doveroso, procedere a «riconciliazioni piccole e medie» in vista della riconciliazione totale.
Il papa cita san Paolo ai Galati: «Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri». Ho sempre pensato, confessa, che questa fosse una delle esagerazioni retoriche dell’apostolo, ma alla luce della vicenda che ho vissuto dopo la revoca della scomunica devo dire che «questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata».
Sia pure in modo indiretto, il papa aveva affrontato la questione il 26 febbraio 2009, parlando ai parroci di Roma ricevuti in Vaticano. Proprio mentre da più parti, dopo la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, gli arrivava l’accusa di essere isolato, ecco che il pontefice, a sorpresa, aveva ammesso: sì, nell’esercizio del primato petrino c’è questo rischio. «Vorrei imparare anch’io ad avvicinarmi alla realtà, dalla quale chi è nel palazzo apostolico è anche un po’ troppo distante … Voi vivete nel contatto diretto, giorno per giorno, con il mondo di oggi.»
Da Roma all’Africa
Tutta all’insegna della romanità è la giornata di lunedì 9 marzo 2009, quando il papa si reca in visita al Campidoglio, sede del Comune di Roma, e lì rinnova «l’attenzione paterna che il Vescovo della comunità cattolica nutre non solamente nei confronti dei membri di questa, ma anche di tutti i romani e di quanti da varie parti d’Italia e del mondo vengono nella Capitale per ragioni religiose, turistiche, di lavoro, o per restarvi integrandosi nel tessuto cittadino».
Accolto dal sindaco Gianni Alemanno e dall’intero Consiglio comunale riunito in seduta straordinaria, Benedetto punta l’attenzione sui cambiamenti avvenuti nella metropoli, specie in conseguenza dell’arrivo di tante persone appartenenti a culture e tradizioni diverse, e, riconoscendo che «talvolta l’integrazione è faticosa e complessa», si dice certo che Roma «saprà ritrovare la forza per esigere da tutti il rispetto delle regole della convivenza civile e respingere ogni forma di intolleranza e discriminazione». Quanto agli episodi di violenza avvenuti in città negli ultimi tempi (in particolare la morte di Giovanna Reggiani, violentata e uccisa la sera del 30 ottobre 2007 nei pressi della stazione ferroviaria di Tor di Quinto), il papa parla di «una vera povertà spirituale che affligge il cuore dell’uomo contemporaneo» e paragona l’uomo che ha abbandonato Dio a una ruota priva dell’asse centrale: allo stesso modo, «la morale non adempie al suo fine ultimo se non ha come perno l’ispirazione e la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene». Infine il papa, con la sollecitudine che gli deriva dall’essere vescovo di Roma, parla delle difficoltà economiche che fanno soffrire tante persone e famiglie, e chiede agli amministratori un impegno nel senso della solidarietà e della generosità, valori «radicati nel cuore dei romani».
La visita in Campidoglio si svolge alla vigilia di uno degli appuntamenti più importanti del pontificato. Il 17 marzo, infatti, papa Ratzinger parte per il suo primo viaggio in Africa.
Visitando il Camerun (dal 17 al 20 marzo) e poi l’Angola (dal 20 al 23), Benedetto XVI si immergerà in una realtà che per la Chiesa è fonte di preoccupazioni, ma anche di speranze. Le preoccupazioni sono legate alla povertà, agli squilibri sociali, alle ingiustizie, alla corruzione, alle malattie, alla diffusione delle sette religiose di matrice protestante; le speranze alle enormi potenzialità di questi popoli, ai segnali di crescita che comunque non mancano e alla religiosità naturale degli africani, che può dire qualcosa anche a società molto più secolarizzate e spiritualmente sfibrate come la nostra.
Nell’ottobre 2009 è prevista a Roma l’Assemblea speciale del sinodo dei vescovi per l’Africa, e il papa si reca nel continente interessato per consegnare l’instrumentum laboris, il documento preparatorio del sinodo. La consegna avviene in Camerun (dove i cattolici sono il 26,7 per cento della popolazione), mentre la tappa angolana (percentuale di cattolici 55,6) è contraddistinta dal ricordo dei cinquecento anni dell’arrivo del Vangelo in quel paese.
In Africa la Chiesa cattolica è impegnata nell’assistenza sanitaria e in particolare nella lotta all’aids, eppure proprio questo lavoro la espone a critiche per il divieto, più volte ribadito, dell’uso del preservativo come metodo per la protezione dalle malattie a trasmissione sessuale. Un’obiezione alla quale Benedetto XVI ha risposto in diverse occasioni sostenendo che a suo giudizio per l’Africa la questione fondamentale è l’educazione delle persone e che se, dunque, le autorità vogliono formare persone veramente libere e responsabili, devono investire sull’educazione e la morale oltre che sulla medicina.
Proprio su questo tema al pontefice viene rivolta una domanda nel corso della conferenza stampa sull’aereo in volo verso la capitale camerunense Yaoundé. Philippe Visseyrias, di France 2, chiede: «Santità, tra i molti mali che travagliano l’Africa, vi è anche e in particolare quello della diffusione dell’aids. La posizione della Chiesa cattolica sul modo di lottare contro di esso viene spesso considerata non realistica e non efficace. Lei affronterà questo tema durante il viaggio?».
La risposta, destinata a suscitare aspre polemiche, è la seguente: «Io direi il contrario: penso che la realtà più efficiente, più presente sul fronte della lotta contro l’aids sia proprio la Chiesa cattolica, con i suoi movimenti, con le sue diverse realtà. Penso alla Comunità di Sant’Egidio che fa tanto, visibilmente e anche invisibilmente, per la lotta contro l’aids, ai Camilliani, a tante altre cose, a tutte le suore che sono a disposizione dei malati. Direi che non si può superare questo problema dell’aids solo con i soldi, pur necessari, ma se non c’è l’anima, se gli africani non aiutano (impegnando la responsabilità personale), non si può superarlo con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema. La soluzione può essere solo duplice: la prima, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovamento spirituale e umano che porti con sé un nuovo mo...