La produzione di meraviglia
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La produzione di meraviglia

  1. 180 pagine
  2. Italian
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La produzione di meraviglia

Informazioni su questo libro

Un piccolo aereo da turismo si leva in volo per attraversare le Alpi. Dentro ci sono due persone: un giovane uomo, muto, alla cloche e una ragazza incantata che guarda al di là del vetro.
Lei, bellissima, a terra lascia la famiglia e il padre, famoso chirurgo, improvvisamente arrestato. Lui, giocatore di poker professionista, non parla ma si fa capire mostrando una collezione di immagini che ha fatto plastificare, come un mazzo di carte. È lui, Remì, ad aver cercato lei, Ione, per portarla con sé in cielo. Quel volo è una sfida che Remì ha lanciato a se stesso e alla sua giovane compagna: la posta in gioco è quella di una comunicazione profonda, che "buchi" il silenzio in cui lui è rinchiuso e il vuoto lussuoso nel quale lei vive sospesa. Da quando l'ha conosciuta, anni prima, nel palazzo dove entrambi abitavano a Milano, Remì ha desiderato Ione con l'intensità con cui si desidera il proprio opposto. La vita di Remì è la geometria esatta del poker, sono le lunghe notti insonni, è la certezza di aver costruito una barriera contro qualsiasi intrusione esterna. Ione è viziata, fragile, chiassosa: ma non ha mai smesso di sperare che il bene venga da fuori, che qualcuno sappia toccarla senza farle male.
Il volo di Remì e Ione è un viaggio ad altissima tensione, un gioco di seduzione - iniziato con un raffinato mind game virtuale - che porterà a un cambiamento radicale, capace di riflettersi sull'intero orizzonte circostante: intanto, sotto il piccolo aereo, la crosta terrestre è pronta a tremare in uno dei più grandi terremoti della storia...
Alla sua opera seconda Gianluigi Ricuperati conferma il suo talento versatile e visionario. La produzione di meraviglia è un libro dalla scrittura sottile e dalle atmosfere rarefatte, ma al tempo stesso percorso da una tensione carnale, erotica, che si coagula nella galleria di immagini che lo accompagnano. Immagini utilizzate non come decorazione o inserto nel testo, ma come elementi di una storia raccontata due volte: la prima con le parole, la seconda con le icone che le parole hanno descritto, come un nastro che ricomincia sorprendentemente a scorrere quando la voce narrante tace.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804624677
eBook ISBN
9788852037511

FANTASTIC VOYAGE

Succederanno cose fantastiche, poi cose terribili, e fra le prime e le seconde c’è un piccolo aereo. È il decimo giorno, il decimo mese, il quattordicesimo anno, il ventunesimo secolo. Tutto è aumentato.
Un piccolo aereo sta per attraversare le Alpi – pochissime le nuvole, quasi nessuna – e all’interno ci sono due persone, un maschio muto e una femmina incantata che guarda al di là del vetro. L’autunno è trasparente. Venticinque minuti fa hanno sistemato sulle orecchie le cuffie antirumore e il microfono dentro cui parlare. Lei.
Un piccolo aereo è partito venti minuti fa dalla pista di decollo di Ivrea, dove scintillano antiche architetture civili. Un piccolo aereo si è lanciato nell’aria, ha preso quota, ritratto i flap, rotto la maglia di bassa pressione, ha puntato verso l’alto. Lui non parla, non ha mai parlato: le corde vocali non funzionano, per difetto congenito. Ma non è indispensabile possedere una voce quando ci sono così tante immagini disponibili, carte da mostrare tutte le volte che è urgente esprimere un concetto o si desidera qualcosa, o è necessario scappare, o comprare, o umiliare qualcuno. O, magari, solo avvicinarlo.
Lui, Remì, guarda avanti, ma anche in basso, lungo un arco che tocca le ginocchia e comprende tutti i pulsanti, gli schermi e ogni singola leva della strumentazione. Osserva il cielo, che è un vertice. Anche lei, Ione, guarda avanti, ma ogni tanto scruta il cielo dal finestrino alla sua destra. Nessuno dei due volta il capo verso l’altro, per ora. Lei sente nelle cuffie il respiro di lui, un affanno lieve. Lui sente le parole di lei, interrotte da pochissime pause. Parla come un fatto clamoroso.
Un’ora fa un piccolo aereo è stato ispezionato con attenzione da due tecnici che sembravano conoscere bene Remì. Forse perché aveva acquistato l’aereo un anno prima e da almeno tre frequentava la scuola di volo, sempre lì, sempre in orari diversi. Forse qualcuno aveva raccontato ai tecnici chi era e che mestiere faceva. O forse lo sapevano già, come molti altri maschi che lo riconoscono in giro, quando viaggia per tornei. Prima di salire sull’aereo è comparso un pennarello indelebile nero tra le mani di Remì. Lui ci ha giocato, lo ha fatto roteare come se fosse la pala di un mulino, ma lentamente, senza creare effetti ottici. Appena salito lo ha appoggiato. Poi lo ha ripreso in mano, e infine lo ha riposto nel tascone destro del giaccone.
Lei ha occhi attenti, talvolta liquidi, talvolta incapaci di rispondere alla violenza del momento, e la notte precedente è stata, come momento, lungo e violento.
Ione è molto bella – gli zigomi risucchiano il volto in una specie di triangolo o di sfinge, e quando arriva l’estate ogni esposizione al sole porta con sé una leggera colata di efelidi. Ha gli occhi di una principessa egizia. Odia molte cose e ama ascoltare certe canzoni a ripetizione. Adora interrogarsi per minuti interi e solitari intorno a cose come il tema di una canzone, il suo significato, l’occasione da cui è nata, la porzione di realtà della quale è specchio. Dice spesso a qualche amico di odiare le metafore che prendono spunto dai movimenti tellurici: “Questa stanza è un terremoto”, o “Sei un vulcano”. «“Sei un vulcano” è la peggiore di tutte» dice aprendo le braccia, come se stesse per suonare un gong.
Lui indossa un paio di pantaloni verde scuro, con i tasconi ai lati. Su ciascun fianco è impressa la scritta “Alligator”.
Ione non ha mai volato su mezzi così instabili, e tutto le sembra molto pericoloso. Ha iniziato ad aver paura subito, nei primi istanti dopo aver lasciato l’orlo della Terra, quando le ali non riuscivano a trattenere l’istinto di tremare; lei che parla senza sosta ora non dice una parola.
Remì tiene le gambe rigide, i muscoli tesi, le mascelle serrate. È un campione di poker, di quelli che sembrano attori o lottatori, maschere e sportivi allo stesso tempo, e si vedono nelle tv in chiaro a tarda sera e sui canali specializzati a ogni ora del giorno. Annoiati o concentrati sulle carte. Gli occhi nascosti da visiere, occhiali, i gesti da attori consumati. Remì è giovane, ma sembra più esperto di tutti i suoi avversari. Guadagna tre milioni di dollari all’anno, e non ha mai dormito più di tre ore e mezzo a notte. Già a quattro mesi si svegliava di continuo. Si riaddormentava. Si risvegliava. Piangeva, si guardava intorno, mangiava, defecava, poi si riaddormentava, ma per poco. A fine giornata il suo bilancio di sonno era davvero magro. Crescendo – e si cresce poco, piano piano, quando non si dorme mai –, aveva scoperto che il sonno è definito “imperativo biologico” da alcuni scienziati. E aveva scoperto soprattutto che dormendo poco avrebbe potuto imparare, fare calcoli, studiare strategie, leggere, guardare cartoni animati, film, fantasticare e scrivere lettere ad amici immaginari, a ogni anno la sua bella scoperta.
Doveva esserci un portentoso segno meno nei micron in cui si svolse la combinazione di seme e ovulo, il giorno in cui i suoi genitori si erano accoppiati. Il figlio che sarebbe venuto avrebbe fatto esperienza di alcune mancanze: saltate le corde vocali, saltato l’interruttore del sonno, si sarebbero determinate diverse patologie secondarie.
Piccolo, pallido, isolato. Per miracolo o per reazione evolutiva gli altri sensi avevano mostrato qualità di adattamento notevoli, proprio come nelle storie di supereroi: oltre alla vista da pilota, ci sentiva benissimo, e questo, paradossalmente, aumentava la distanza dal mondo, la sua parte di vita a parte. Gli altri erano qualcosa da ascoltare, ma nessuno avrebbe mai sentito la sua voce. Remì era rimasto così colpito dalle definizioni mediche dei suoi vari malanni che sul diario di quinta elementare, accanto a nome cognome indirizzo e numero di telefono, aveva segnato “imperatore biologico”.
Anche se il poker e il tennis hanno un aspetto in comune – chi guarda i giocatori, in questi sport, rimane perlopiù in silenzio – il poker non è come il tennis. Nel tennis professionistico ci sono stadi gremiti di persone, tutte abbastanza attente, tutte col fiato sospeso, che osservano la pallina muoversi da una parte all’altra. Quando guardi una partita di tennis dentro uno stadio, una finale, per esempio, o anche un trentaduesimo di finale di un torneo importante, con un colpo d’occhio vedi tutti così terribilmente presenti, svegli, e pensi: “Presto, fra qualche ora, le persone radunate in questo posto, in questo preciso istante, si saranno addormentate”.
Col poker, invece, hai l’idea esattamente opposta: tutti sembrano semiaddormentati, come i passeggeri di un volo intercontinentale nel mezzo dell’oceano dopo la proiezione di un film, le maschere sugli occhi. Al tavolo verde, pur con le luci e i riflettori e le telecamere e l’attenzione e la tensione, soffia una brezza ipnotica, i gesti si ripetono meccanicamente e i corpi sono per il 70 per cento della loro superficie immobili. Ma le cose non stanno proprio così. Il poker è il contrario del tennis, e tutti i giocatori, l’arbitro, gli astanti, gli spettatori, sono accomunati da un solo credo: il sonno è dannoso. Ma loro, diversamente dagli spettatori del tennis, non si addormenteranno mai, o almeno questa è l’impressione che danno. Ecco uno dei talenti che avevano spinto Remì a giocare a poker.
La mattina, prima di andare a scuola, Remì aveva terribili discussioni silenziose con sua madre, perché puntava i piedi, non voleva tornare in mezzo a quella mandria di compagni orrendi che lo prendevano in giro per le occhiaie – aveva due mezzelune, a nove anni, disegnate con una matita naturale e innaturale insieme. Lo prendevano in giro perché non dormiva, che a pensarci è uno strano modo di divertirsi, ma a nove anni succede questo e altro, e la situazione tende a peggiorare nelle stagioni successive, almeno fino alla fine del liceo.
La madre aveva costruito un impianto retorico tutto suo, a uso e consumo di Remì, una serie di sillogismi che il figlio avrebbe scordato ma che terminavano con la frase: “Il sonno è dannoso”, e qualcuno dei compagni di classe avrebbe dovuto vedere, crescendo, l’espressione di questo bambino piccolo e bianco, con due melanzane tagliate sotto gli occhi neri, mentre apriva la bocca come a schioccare una specie di bacio a quella mamma che ogni mattina partiva da Ramsete II e Pitagora per illustrare un teorema indimostrabile e risibile, la cui inevitabile conclusione era che il sonno è la dannazione e la desolazione, ed erano gli altri a doversi sentire in difetto, non lui.
«Siamo noi gli sfigati, noi che dormiamo» aggiungeva talvolta la madre, incurante della prescrizione classica secondo cui non si usano mai parolacce per educare i figli. Ma era un modo di mettersi sullo stesso piano di Remì e dei suoi compagni, per la madre, e forse tutto ciò che desiderava era occuparsi degli sfottò e del bullismo senza sentirsi straziare dentro, senza provare la voglia di uccidere quei bambini uno per uno, tagliando a ciascuno le corde vocali e svegliandoli a ogni ora della notte, loro e le loro famiglie.
Avrebbe voluto contrastarli con quella saggia sospensione di emotività, tipo: “Sediamoci e parliamone”, ma nei minuti che separavano le lamentele mattutine del suo bambino dal punto di non ritorno passato il quale sarebbe arrivato irrimediabilmente in ritardo, non c’erano tavoli, o meglio, c’era quello della colazione, ma ogni discorso suonava frettoloso e appiccicoso, e suo marito era già andato via, e c’erano pantaloni da far indossare, scarpe da appaiare, la casa da percorrere nella sua lunghezza per non far rapprendere il latte sul fuoco, e qualche banconota da togliere dal portafoglio per lasciarla alla donna delle pulizie, quindi non potevano sedersi intorno ad alcun tremendo retorico: “Discutiamone”.
Il suo bambino puntava i piedi aggrappandosi al letto dei genitori come una vela, come se dovesse impedire al vento di portarlo lontano da lì, e sudava e batteva i tacchi contro le assi rovinate del parquet, e lei avrebbe tanto voluto che il tempo si fermasse e una voce quasi angelica intonasse “mmm” e “sleep tonight”, e al termine della canzone il suo bambino avesse la propulsione galattica di andare e schiaffeggiare il programma scolastico, le fanciulle, i fanciulli, la maestra, e prendere note su note.
Invece stava lì, bloccata da una volontaria interdizione ad agire che le faceva nascere lacrime da rigettare all’insù con effetto immediato, e l’unica scelta diventava inginocchiarsi e allacciargli le scarpe, rischiando di farsi pizzicare la pelle già stanca della mano tra il metacarpo e la suola, mentre sosteneva che Ramsete II avesse illuminato a giorno il palazzo dei faraoni anche la notte, per far fruttare meglio il tempo della sua vita, e che Pitagora non dormisse mai (non era esattamente vero); poi veniva una serie arguta di connessioni e ragionamenti, sempre gli stessi e sempre con minime variazioni – perché con i bambini l’arte è tutta nel cambiare qualche millimetro a ciascun centimetro – e infine giungeva la fatidica frase, «Il sonno è dannoso», che chiedeva di ripetere insieme come un salmo responsoriale o un canto delle pie donne da recitare all’infinito: «Il sonno è dannoso, mamma», con i piedi che pian piano puntavano meno sul legno e la presa che mollava le lenzuola, e un breve incontro di sguardi di fuoco. E poi: «Il sonno è dannoso, ma anche il ritardo, big boy, andiamo» e in meno di cinque minuti e trenta secondi si ritrovavano entrambi in garage, nell’immenso reticolo di travi di cemento grezzo, “brutalista”, aveva letto lui in qualche ricerca notturna sull’architettura della casa in cui abitavano, progettata e costruita all’inizio degli anni Settanta, quando quello stile veniva regolarmente apprezzato e pagato dalla critica, dalle università, dai pianificatori e dai costruttori. Per chi ci andava a vivere, solo un’occhiata veloce ogni mattina, la trama di un’abitudine, e l’aggettivo che non ti aspetti strappato dalle pagine di un’enciclopedia Larousse fra le dita di un bambino senza voce.
Un paio di settimane prima un uomo aveva chiamato Ione sul cellulare.
«Il signor Remì vorrebbe incontrarla, lavoro con un signore che vorrebbe parlarle, ma non può.»
Aveva una voce obliqua e nasale, da picchio, una voce che sbatteva nell’altoparlante del telefono, nel suo orecchio triste (ma era triste anche Remì, da quando le avevano portato via il padre).
Si era qualificato come “manager di Remì”, la voce di chi lo segue nei tornei di poker, dalla Sardegna alla Corsica, da Nizza a Campione d’Italia, dall’Austria a Las Vegas. Era una voce su cui Ione non aveva fatto alcun piano, ascoltandola con la testa fra il cuscino e il materasso, dai quali non si riusciva a separare durante i giorni immediatamente successivi all’arresto di suo padre.
Senza quella telefonata ora non si troverebbe nel piccolo aereo, con la gonna lunga plissé che aveva indossato la prima volta che si erano visti, lui e lei. Per Remì quel momento rappresenta la prima di una lunga serie di immagini che non lo abbandona mai, nemmeno adesso, che ha totale controllo su di lei.
Ione stringe le dita sulle coste della gonna, mentre il Cessna inizia una virata di trentacinque gradi. Sente un vuoto a forma di cono rovesciato, e osserva Remì stendere le braccia diritte e preoccupate.
All’improvviso si rende conto che la persona che l’ha convinta a venir lassù ha in pugno l’intera portata della sua stupida vita, e potrebbe disperderla per via di un miserabile errore di calcolo. S’immagina come dev’essere stare in mezzo a quel suo silenzio, anche se ora il rumore li circonda. Ora, mentre la pancia dell’aereo che li contiene entrambi s’inclina verso l’alto.
Ione chiude gli occhi e si passa la lingua lungo le gengive impregnate di cassis – il sapore delle gomme che non riesce a smettere di masticare, sputandole e schiacciandole per terra, aprendo e scartando.
Un piccolo aereo si avvicina sempre più alle Alpi con una calma che sembra scolpita in un marmo senza peso. Qualche giorno fa lei ha finito di leggere un breve romanzo. Vorrebbe parlarne con lui, ma non riesce a ricordare niente di quel libro, nemmeno il titolo, vorrebbe dire qualcosa di interessante e invece non smette di lamentarsi e guardare fuori.
Poche ore fa, dopo la notte che hanno passato, dopo quello che è successo, così, con un gesto, Remì l’ha invitata a seguirlo fuori da casa in un’auto con conducente, poi fuori dall’auto, poi attraverso i controlli di un piccolo aeroporto per voli privati, poi su una scaletta, e infine sul piccolo aereo. Ad aiutare Remì, anche stamane, l’uomo dalla voce così insolita che aveva telefonato a Ione due settimane prima.
Ione parla velocissimo, anche se a tratti sembra una bambina imbarazzata, forse a causa di ciò che è successo nella notte; costruisce muri di giustificazioni. Parla – «Ma che te ne fai di quel pennarello? Lo usi per scrivere quando le carte non funzionano? Quando non ti capiscono, quando ti senti davvero solo?» – e ogni tanto si gira verso Remì, s’arresta per un secondo e riprende, guardando di nuovo fuori. È allora che Remì muove di qualche grado il capo verso di lei e sente qualcosa di indefinibile dentro, come il vago ricordo di una canzone ascoltata fino alla noia, qualche stagione prima. Poi torna ai suoi comandi, al suo aereo, e quella sensazione gli sfugge. Mentre lei lo travolge, nel fitto delle cuffie, con sette parole al secondo. Sette parole lunghe, ogni secondo, della persona che ha più desiderato nella sua vita.
«Senti io non so cosa pensi di me dopo quello che è successo ieri, ma devo dirtelo, io non voglio più parlarne. Non voglio dire niente. Non importa quello che è successo ieri, e anche se importa a te io voglio dirti che per me conta poco. Sento un vuoto immenso e improvviso e vivo nell’ansia di essermelo portata dietro per non so nemmeno quanto. Nella sensazione di aver vissuto qualcosa che non meritavo, qualcosa che inevitabilmente mi avrebbe solo sconfitta. Non voglio farmi del male e me lo ripeto. I libri, le cose che leggo, trafiggono quel vuoto perché sono emozioni pure, e ogni tanto, per difendermi, le dimentico e sembro una cazzo di malata di Alzheimer, capisci? Ma forse tu, no, non capisci... Tu forse lo sai, forse no, ma è così e basta. E devo dirti che non è stato per niente bello che tu mi abbia chiamato dopo aver letto quel figlio di puttana di giornalista che ha scritto quella stronzata sui soldi che non potevamo più prendere, prelevare, perché secondo lui ci avevano messo i conti correnti sotto chiave. E lo so che tu stai pensando che era vero, e lo so che è vero, ma è stato poco delicato che tu ti sia avvicinato a me per una questione di soldi, perché fra poco ce li sbloccano i conti, e anzi, ti dirò che papà tornerà libero, sappilo, anzi, dovresti saperlo, perché tu sai come vanno queste cose meglio di me visto che frequenti persone orribili che scommettono soldi tutto il tempo, e quindi volevo dirti che al di là di quello che è successo ieri a casa tua non ho nessun motivo vero per essere qui se non che sono una persona onestissima, e per me la parola è parola, quando è data è data, e insomma non è stato carino volevo fartelo sapere, ora tu non tirare fuori una delle tue carte del cazzo perché io ho fatto la mia parte e sono qui e tu ti sorbisci tutte le mie storie una per una, perché sono a pezzi e tu non sei qui per aiutarmi, sei solo un pezzo, volevo dirtelo, sei solo un pezzo di questo momento, di questo periodo, e non pensare che significhi qualcosa ciò che è successo ieri, sei anche in gamba, hai i soldi, ma alle persone della mia estrazione sociale, guarda, dovresti saperlo, non contano nulla i soldi per le persone come me, è solo che è andata così e whoooooooo ma basta far scivolare l’aria qui sotto, cazzo che impressione questi piccoli aerei di merda, porca puttana che mi hai messo qui. Scusa sto in silenzio sennò vomito.»
“Il cuoio delle poltroncine mostra troppe striature dovute all’usura, forse è un velivolo usato, forse l’ha comprato usato, forse Remì non è così ricco come sembra” pensa e non dice Ione.
Non guarda giù perché si vedono ancora troppi edifici, grandi come carceri, e suo padre l’hanno portato proprio in una di queste di provincia, lontano da Milano, lontano dalla possibilità di delinquere.
Tutto ciò che Ione desidera è stare il più possibile fuori da casa. È rimasta praticamente tappata fra quattro mura per almeno due settimane, nell’appartamento che le aveva regalato suo papà all’improvviso, piccola stella, e che secondo i giornali era stato comprato con soldi di provenienza illecita. È una piccola magnifica residenza per una postadolescente ricca e malinconica, che però in quell’appartamento aveva imparato a reagire a tante situazioni, a diventare una ra...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La produzione di meraviglia
  3. FANTASTIC VOYAGE
  4. LA PRODUZIONE DI MERAVIGLIA
  5. ALCUNE CARTE DELLA COLLEZIONE DI REMÌ (riavvolgimento del racconto per immagini)
  6. TROPOSFERA
  7. LITOSFERA
  8. Copyright