
- 384 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Nuovi Argomenti (33)
Informazioni su questo libro
Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Marcel Proust, Assia Thermes, Giorgio van Straten, Francesca Sanvitale, Antonio Moresco, Leonardo Colombati, Marco Mantello, Helena Janeczek, Flavio Santi, Raffaele Manica, Stefano Simoncelli, Vincenzo Pardini, Piero Sorrentino, Marco Giovenale, Tommaso Pincio, Sebastiano Leotta, Nicola Vitale, Raffaella D'Elia, Emanuele Trevi, Manuela Marchesini, Ruggero Savinio, José Emilio Pacheco, Brendan Kennelly, Francesca Serra, Andrea Gibellini, Luca Canali, Alessandro Baldacci, Sebastiano Mondadori, Elisabetta Liguori, George R. Gissing, Mauro F. Minervino, Nadia Anjuman.
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Informazioni

VERSO LA TERRA DI NESSUNO
Stefano Simoncelli
“Aiutami” ti chiedo sottovoce
in questo sogno a luce fioca
poco prima che sia buio
“portami via”. In un angolo
accanto alla grande vetrata
la tua camicia da notte
abbandonata su una sdraia
da mare per badanti notturne
la borsa nera di finta pelle
con gli oggetti personali:
la spazzola per i capelli
la tazza smaltata da the
con la scatola dei biscotti
de “la cure gourmande”
i bigodini di latta...
e all’improvviso so
nel sale delle lacrime
con assoluta certezza so
che non ci sarà più niente
proprio più niente da chiederti.

È un viaggio notturno
di sopraelevate, mi sembra,
di boschi persi in ombre rovinose
cunicoli e corridoi che danno su
porte arrugginite che cigolano
soltanto al pensiero
d’aprirle e infatti non entro
ti aspetto fuori, all’aperto della gelateria
che frequentavi da ragazza, della primavera
che all’improvviso è tornata a scoppiare
nel tuo giardino.Dove sei adesso
c’è vento? Qui una brezza
impercettibile dal mare
s’insinua tra le carte
i capelli
e questo rincorrerti
sulla mappa degli altipiani
in mezzo ai faggi, alle muffe
ai voli goffi degli aquiloni
è un altro, lo vedi?
dei miei immancabili
strepitosi fallimenti.

(ma anche cosi – mi domandavo
questa notte nel sogno insanguinando
sciogliendo con le lacrime
la tua pelliccia di neve –
anche così, rattrappito
in ginocchio
appiattendomi sul ventre
come potrei raggiungerti, ma petite,
se sei balzata fuori di colpo
dall’armadio a muro
dai grandi cassetti
per respingermi
ributtarmi indietro
mentre strisciavo piano
dentro una strettoia
un cunicolo
di sabbia e ghiaia
come fosse un tuo vestito?)

Lo sgombero completo
lo sgomento di cambiare
nuovamente indirizzo
appartamento
nel cuore dell’inverno:
sottozero trasportare a braccia
il tavolo, il baule di noce tarmato,
il letto... “Non c’è pace” imprecavi
a labbra strette, quasi in trance
tra cianfrusaglie da imballare
nel sottoscala. Non c’è pace
ripeto a me stesso svuotando
l’armadio dai tuoi cappotti
gli scialli, i vestiti
mentre là fuori dormono
e niente sanno del tuo trasloco
defmitivo nel gelo – dormono
al caldo dei termosifoni
negli ovuli protetti
dei condomini
dove il frigorifero vibra nel buio
come un iceberg in viaggio
verso la terra di nessuno.

C’è una diversa incomprensibilità
tra noi: non di nuove mappe stellari
cosmi che si restringono o dilatano
circumnavigazioni di buchi
neri, ma vuoti minimi
puntini di sospensione dove stavi
appollaiata come un lucherino
le tue quattro ossa, le piume
su qualche bavero, amuleti
contro i malocchi
gli sguardi... –
qui mi genufletto,
declino altri verbi, la testa,
aspetto tue nuove modulazioni
di frequenza, balbettii, un tuono.

Altre cose, oggetti
non sempre riferibili
m’attraversano le mani
mentre aspetto in un’ombra
che un colpo improvviso di vento
mi scaraventi via per sempre
insieme alla sciarpa
al cappello
o mi trasformi in una furia,
in un’altra sciagura
per questi viali
“da favola” dicevi
“guarda che prospettiva”.... Non vedo
che imbuti raggelanti verso il mare,
non sento che uno sgretolarsi
sinistro di muri e fiancate
da ponente a levante,
uno stridore
di sonde e perforatrici
a togliere, sempre a togliere.
Tu che eri il mio nord, lo zenit,
il mio fortino degli indiani, dimmi:
ci può essere passione senza orrore?
UN PUMA
Vincenzo Pardini
Le stagioni hanno rinnegato le antiche consuetudini. Il loro equilibrio si è rotto, spezzato come gli arti di un gigante che non riesce più a percorrere monti, valli e pianure. Prigioniero della sua disgrazia. Pioggia, vento o neve, può così accadere che si riversino su di noi nel momento più inaspettato. Addirittura di primavera. Una notte, il vento, si è abbattuto nella mia contrada divellendo castagni e querce secolari. Il mondo sembrava in bilico. Tornavo a casa il mattino presto, ancora a buio, allorché i fari della macchina illuminarono qualcosa sul ciglio della via; un qualcosa simile, per forma e mole, a un cane Corso. Ma dal ciglio in cui si trovava, balzò su quello opposto, scomparendo tra gli alberi. Volli credere fosse un’illusione creata dal vento, un alternarsi di ombre. Tra le nubi, la Luna andava e veniva come i sussulti di un dolore. A casa trovai la tettoia del loggiato divelta.
M’ero dimenticato del balzo della bestia in mezzo al vento quando, giorni dopo, un uomo del paese mi disse d’aver intravisto un grosso felino, colore rossiccio, nei pressi dei cassonetti dell’immondizia. Ma, in men che non si dica, era schizzato via, la lunga coda inarcata, scomparendo al di là del parapetto. Ricordai, allora, le teste di volpe, gatto e istrice che, durante l’inverno, i miei cani trovavano nelle piane degli oliveti, ancora insanguinate. Nel periodo della neve, lungo la via che scende nel bosco, avevo veduto delle impronte di forma rotonda più larghe di un tacco di scarpone di montagna, inoltrarsi nel folto. Pensavo fossero della lince. Erano invece del grosso felide. Dovetti, quindi, dare credito a ciò che m’aveva detto, d’estate, un amico: d’aver scorto, mentre in macchina risaliva la strada, le zampe posteriori d’un insolito animale dileguarsi nei cespugli. Conversando con un orologiaio, che sapevo essere anche cacciatore, gli dissi che, dalle mie parti, era stato avvistato un grosso felino. Toltosi il monocolo, e smesso di lavorare tra molle e rubini, narrò:« Due anni fa, una notte di maggio, nei pressi della rotonda delle Tre strade, mi sono trovato davanti i fanali della macchina, quello che americani e pellerossa chiamano leone di montagna, ossia il puma. Non credevo ai miei occhi. Se ne andava tranquillo lungo il margine della via maestra, finché non svoltò nel sentiero dei campi e dei prati. Non ne parlai con nessuno. Chi m’avrebbe creduto?» Gli raccontai, allora, della mattina del vento e il resto. Tirato un sospiro di sollievo, aggiunse:«Bene, non sono più il solo ad averlo visto».
Un puma, dunque, si trovava allo stato brado, forse fuggito o reso libero da qualcuno a cui piace tenere bestie esotiche. Intanto, nella zona più a monte, nel bel mezzo del bosco, era stato veduto uno strano individuo. Piccolo, anziano e coi baffi, aveva scaricato dal furgone un certo numero di galline nane. Galline, fu accertato da chi ne catturò qualcuna, grasse e in salute. Altre volte aveva scaricato frattaglie e lembi di carne. «Servono al puma», mi dirà infine il confidente. E proseguì: «La bestia sta da queste parti. Se vai in giro nelle selve ne respiri l’odore di carogna e piscio di gatto in amore. Comunque non teme le persone. Giorni fa, dopo pranzo, io e altri eravamo al fresco sotto la pergola, quando l’abbiamo visto nell’aia. Uscito dalla macchia è andato a bere nel truogolo. Peserà un quintale. È balzato via solo quando il vento ha sbattuto una finestra. C’è chi gli ha teso la trappola, chi il laccio, ma per adesso nulla. Se uno di noi aveva il fucile poteva, però, farlo secco». Il giorno medesimo, arrivato a casa, mia figlia mi chiamò: alla televisione c’era un puma. Giunsi nell’attimo in cui il felide cercava di aggredire Robert Mitchum per impossessarsi d’un coscio che stava abbrustolendo allo spiedo. Il felino soffiava, abbassava le orecchie come un grosso gatto e, in un baleno, lui e l’eroe s’affrontano corpo a corpo. Ma esplode una fucilata e il puma crolla a terra. Due loschi individui, attirati quanto lui dal profumo della carne, sono accorsi appena in tempo. Così, almeno, sembra. In realtà la situazione si rivela assai diversa. Con Mitchum c’è Marilyn Monroe. Sarà lei che i due loschi individui vogliono. Il film è infatti La magnifica preda. Un’avventura che,in parte, si svolge sopra un zattera, lungo il Mississippi. Nel finale, Marilyn canta la canzone Il fiume senza ritorno. La sua voce penetra nei sensi e nella fantasia al pari della sua immagine.
Nelle piane degli oliveti, alle teste dei selvatici e dei gatti, se n’aggiunse qualcuna di cane. Una, assai grossa, aveva gli occhi sbarrati. Ne rimasi turbato. Dolore e morte di un cane credo ci riguardino da vicino più di quelli di altri animali. Poi fu la volta d’una capretta che soleva pascolare intorno a un casolare. Sparita. Cambiata mi parve, infine, la vita di volpi e gatti che, di notte, scorgevo sul margine della strada. Si mostravano guardinghi e diffidenti.
Nei paesi di collina e di montagna non esiste più la vita di un tempo quando la gente, nei giorni feriali, s’incontrava nelle piazze, all’osteria o alla bottega d’alimentari. Quest’ultime sono chiuse, e più nessuno sosta sui sagrati. Nemmeno gli anziani. Le loro case le hanno visitate i ladri, alla stregua delle chiese, anch’esse sprangate. Anziani e bambini rimangono, quindi, presso le abitazioni. Soltanto la domenica il paese si anima. Le vicende del puma continuavano a tenere banco. Una signora, che abita in una casa a mezza costa, diceva esserle spariti, nel volgere di un paio di mesi, ben sedici cani randagi da lei ospitati. Le sparizioni erano iniziate in primavera, insieme a grosse orme lasciate sul terreno appena arato. Saputo che potevano essere del puma, lo voleva morto. Lo chiedeva ai cacciatori, in particolare ai cinghialai. Lusingati e sorridenti, tono ambiguo le rispondevano: «Non si può, la caccia è chiusa. Guai sparare un colpo adesso. Se, tuttavia, capitasse durante una battuta …»
Di notte aveva cominciato a giungermi un lamento: una sorta di mugolio strozzato simile a una voce umana. I cani abbaiavano, forsennati. Consultai una vecchia enciclopedia. Descriveva il puma come un animale di un peso dai 60 ai 110 chili, il corpo lungo, inclusa la coda, fino a un metro e ottanta; altezza dai 60 ai 70 centimetri. Con gli uomini non si mostra aggressivo, anzi è accaduto corresse in loro difesa quando erano assaliti da orsi o altri grossi predatori. Ed emette lamenti che sembrano umani. Quella voce, dunque, era la sua.
Nel frattempo si occuparono di lui i giornali, descrivendolo come animale feroce e solitario, terrore degli indiani d’America. Le mamme si spaventarono. Temevano che, i loro figli, potessero esserne vittime.
Una sera di luglio, al tramonto, i suoi lamenti non mi giunsero dai boschi della valle, bensì da quelli estremi della collina. Avevano il ritmo d’una nenia, a cui si unirono quelli delle civette. I cani non abbaiavano e, la nenia rimbalzava nell’aria. Finché lui smise e proseguirono le civette, imitandolo. Ma, d’improvviso, dalle case del rialto provenne un trambusto di porte sbattute e il nitrito di un cavallo. La padrona chiamava i figli, urlando:« C’è il gattone! c’è il gattone!» Scese il silenzio. Poi la voce di un uomo urlò: «Fate presto!» Arrivato su, trovai la donna coi figli armati di fucile e altre persone con roncole, badili e coltelli da cucina. Alcuni anziani scrutavano a terra alla ricerca delle sue impronte. Non ne trovavano, ma il cavallo, collo teso e testa alta, continuava a scalpitare, innalzando polvere. Uno degli anziani disse:«Stavolta hanno ragione i giornali. Un felino è proprio in mezzo alle case». La notte, poco dopo l’una, i cani presero ad abbaiare con affanno ed eccitazione. M’affaccio alla finestra soprastante il bosco e illumino con la torcia il circondario. Due globi scintillano tra rovi e felci; inquadro una sagoma rossiccia. Non credo ai miei occhi. Il puma è lì. Immobile. Sembra una leonessa. Il fascio di luce non sembra incutergli paura. Volge la testa verso di me. Poi si volta come si srotolasse e scende il poggio prospiciente il bosco in uno scricchiolare di rami. Nell’aria ristagna il suo odore. Torno a letto ma non riesco a dormire. L’emozione tiene desta la memoria e ripresenta aspetti e particolari del felino: le zampe posteriori più lunghe delle anteriori, la schiena non poi tanto più larga di un grosso molossoide. Sto per assopirmi, ma echeggia il grido di un cinghiale, analogo a quello d’una cornacchia. Torno alla finestra. Il grido cessa come spento. Giungono dei grugniti. All’alba scendo nel bosco. Trovo sue impronte su di un poggio di argilla. I segni degli artigli paiono striature di grossi chiodi. Nel sentiero che scende alla sorgente il suolo è, invece, segnato dalle orme degli ungulati. Seguirono giorni in cui pareva scomparso. Ma in un fine settimana, nel cuore della notte, lo vedrà una donna traversare un vicolo al margine del paese. Lo raccontava con stupore e paura. Dal canto mio non cessavo di svolgere perlustrazioni, scrutando col binocolo luoghi distanti e inaccessibili.
L’intensità dei nuovi temporali e l’abbandono in cui versano le foreste provocano, sovente, enormi smottamenti. Strade e sentieri può succedere vengano addirittura cancellati, gli alberi crollano sovrapponendosi. Le mie selve, che durante l’Ultima guerra furono anche ricetto di sfollati o di uomini che si nascondevano ai rastrellamenti dei nazifascisti, stanno divenendo la giungla d’occidente. Transitarle non è quindi agevole. Su di un cumulo di terra esposta a nord, umida nonostante la calura, trovai ben marcate le impronte del felide. Un silenzio insolito gravava attorno. Non un uccello. Nemmeno le petulanti ghiandaie. Col binocolo esplorai la distesa degli alberi soffermandomi sui rami alti e medio alti dove sostano i volatili. D’un tratto, nel fogliame di un grande castagno, centrai un involucro fulvo. Una corrente fredda mi percorse la schiena e il resto del corpo. Il colore s’era ...
Indice dei contenuti
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