Novelle per un anno III
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Novelle per un anno III

Tutt'e tre / Dal naso al cielo / Donna Mimma / Il vecchio Dio

  1. 644 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Novelle per un anno III

Tutt'e tre / Dal naso al cielo / Donna Mimma / Il vecchio Dio

Informazioni su questo libro

Queste quattro raccolte pubblicate tra il 1924 e il 1926 comprendono novelle risalenti agli anni 1895-1924: il rapporto tra generazioni e l'implacabile ripetitività del destino segnano una narrazione dominata da un'istanza caricaturale, da quella poetica dell'umorismo capace di saldare tragico e grottesco.

Il terzo volume della raccolta completa della narrativa breve è arricchito da un'introduzione che mette in luce temi e peculiarità di ciascuna raccolta, da una dettagliata cronologia, un'aggiornata bibliografia e infine uno studio della variantistica che ricostruisce il multiplo e accidentato itinerario dei testi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804609421
eBook ISBN
9788852037009

IL VECCHIO DIO

Il vecchio Dio

Smilzo, un po’ curvo, con un abitino di tela che gli sventolava addosso, l’ombrello aperto sulla spalla e il vecchio panama in mano, il signor Aurelio s’avviava ogni giorno per la sua speciosa villeggiatura.
Un posto aveva scoperto, un posto che non sarebbe venuto in mente a nessuno; e se ne beava tra sé e sé, quando ci pensava, stropicciandosi le manine nervose.
Chi sui monti, chi in riva al mare, chi in campagna: lui, nelle chiese di Roma. Perché no? Non ci si sta forse freschi più che in un bosco? E in santa pace, anche. Nei boschi, gli alberi; qui, le colonne delle navate; lì, all’ombra delle frondi; qui, all’ombra del Signore.
– Eh, come si fa? Ci vuol pazienza.
Aveva anche lui, un tempo, una bella campagna sotto Perugia, ricca di cipressetti densi, e lunghesso il canale quell’eleganza di gracili salci violetti e tanto dolce azzurro d’ombra che dilaga; la magnifica villa, con dentro una preziosa raccolta d’oggetti d’arte; ah, quella poi! invidiato decoro di casa Vetti!
Gli restavano le chiese, ora, per villeggiare.
– Eh, come si fa? Ci vuol pazienza.
Da parecchi anni a Roma, non gli era ancora riuscito di visitarne tutte le chiese più famose. L’avrebbe fatto quest’anno per villeggiatura.
Speranze, illusioni, ricchezza e tant’altre belle cose aveva perduto il signor Aurelio lungo il cammino della vita: gli era solo rimasta la fede in Dio ch’era, tra il bujo angoscioso della rovinata esistenza, come un lanternino: un lanternino ch’egli, andando così curvo, riparava alla meglio, con trepida cura, dal gelido soffio degli ultimi disinganni. Errava come sperduto in mezzo al rimescolio della vita, e nessuno più si curava di lui.
«Non importa: Dio mi vede!» si esortava in cuor suo.
E n’era proprio sicuro, di questo, il signor Aurelio, che Dio lo vedeva per quel suo lanternino. Tanto sicuro, che il pensiero della prossima fine, non che sgomentarlo, lo confortava.
Le strade, sotto il cocente sole, erano quasi deserte. Tuttavia per lui c’era sempre qualcuno, un monellaccio, un vetturino di stazione, che, vedendolo passare col lucido cranio scoperto, la barbetta lieve tremolante sul mento, e la zazzeretta grigia, tremolante anch’essa su la nuca, gli lanciava qualche lazzo.
– Guarda oh: due barbette! una davanti e l’altra dietro!
Ma il cappello in capo, d’estate, il signor Aurelio non lo poteva sopportare. Sorrideva anche lui al lazzo e affrettava, quasi senza volerlo, quei suoi passettini da pernice, per levar la tentazione d’un altro lazzo a quegli oziosi.
– Eh, come si fa? Ci vuol pazienza.
Entrando nella chiesa designata quel giorno per villeggiatura, voleva prima di tutto goder della giunta: sedere. E traeva un gran respiro; s’asciugava il sudore; poi, con diligenza, ripiegava in quattro il fazzoletto e se lo poneva in capo, così ripiegato, per riguardarsi dall’umida frescura.
Qualche rara divota che si voltava appena a spiarlo, vedendolo con quel buffo copricapo, sbruffava tra sé una risatina.
Ma il signor Aurelio, in quel momento, si sentiva beato, respirando quell’umido insaporato d’incenso che stagnava nella solenne vacuità silenziosa dell’interno sacro; né gli nasceva il sospetto che qualcuno, pur lì, nella casa di Dio, potesse provar gusto a ridere di lui.
Riposatosi un po’, si metteva a esaminare la chiesa, pian pianino, come uno che ci abbia da passar la giornata. E ne studiava con amorosa attenzione l’architettura, le singole parti. Si fermava davanti a ogni pala d’altare, a ogni opera musiva, a ogni cappella, a ogni monumento funerario, e con l’occhio esperto scopriva subito le peculiarità del tempo, della scuola a cui l’opera d’arte doveva ascriversi, e se era sincera o deturpata da toppe e rimessi di restauri infelici. Poi tornava a sedere; e se in chiesa, come spesso avveniva a quell’ora, di quella stagione, non c’era altri che lui, ne approfittava per segnar rapidamente in un modesto taccuino qualche nota, un dubbio da chiarire, le sue impressioni.
Soddisfatta così la prima curiosità e adempiuto per quel giorno il compito d’arte che si era prefisso, traeva di tasca qualche libretto d’amena lettura, che per la dimensione poteva parere un libro di preghiere, e si metteva a leggere. Di tanto in tanto levava il capo per riassumere o fingersi davanti agli occhi la scena descritta dal poeta. E con quella lettura di libri profani non temeva d’offendere la casa del Signore. Secondo il suo modo di vedere, Dio non poteva aversi a male delle cose belle create dai poeti per innocente delizia degli uomini.
Stanco della lettura s’abbandonava, con gli occhi fissi nel vuoto e strofinando a lungo tra loro l’indice e il pollice delle due manine, alle proprie fantasie o ai ricordi degli anni perduti. Talvolta, mentre fantasticava così, tutto assorto, gli s’avvistava da una nicchietta nel pilastro di fronte qualche busto che pareva se ne stesse lì affacciato a guardare in chiesa.
– Oh! – faceva allora, tentennando il capo con un sorriso. – Te beato, amico mio. Si sta bene da morti?
E si levava di nuovo per leggere nell’inscrizione funeraria il nome di quel sepolto, poi tornava a sedere e si metteva a conversare con lui mentalmente, guardandolo.
«Siamo qua, caro il mio Hieronymus! Peccato che non sia più permesso farsi seppellire in chiesa. Mi farei scavare una bella nicchietta nel pilastro di fronte e, tu di là, io di qua, tutti e due affacciati, sentiresti che belle conversazioncine! Ce l’hai di buon uomo, la faccia, poveretto, e certo guaj perciò mi conteresti. Mah! Come si fa? Ci vuol pazienza. Mi sembra però che in chiesa ci si debba star meglio, da morti. Questo buon odor d’incenso; e messe e preghiere tutti i giorni. Nel camposanto, se vogliamo dirla, ci piove.»
La morte però, anche lì nel camposanto, eh... una liberazione; quando sulla terra, più che per viver bene, ci si duri per prepararsi a morir senza paura. Premii di là, il signor Aurelio, non se n’attendeva; gli bastava portarsi di qua, fino all’ultimo passo, la coscienza tranquilla, di non aver mai fatto il male per volontà. Conosceva i dubbii tenebrosi accumulati dalla scienza come tanti nuvoloni su la luminosa spiegazione che la fede ci dà della morte, sì per averne fatta lettura in qualche libro, e sì per averli quasi respirati nell’aria; e rimpiangeva che il Dio dei suoi giorni, anche per lui, credente, non potesse più esser quello che in sei dì aveva creato il mondo, e s’era nel settimo riposato.
Quella mattina, entrando in chiesa, era rimasto meravigliato dell’aspetto del sagrestano, bel vecchio enormemente barbuto e capelluto e orgoglioso di quel barbone lanoso e di quella chioma partita nel mezzo e ondulata su le spalle e nei cernecchi. Bella, la testa soltanto. Il corpo tozzo, curvo, cadente, pareva penasse a sorreggerla, con tutto quel volume di peli.
Ora, il signor Aurelio, riflettendo intorno alla vita e alla morte, considerando amaramente ai meschini profitti dell’anima in questo tanto decantato secolo dei lumi, rivolto col pensiero al vecchio Dio dell’intatta fede dei padri, a poco a poco s’addormentò. E quel vecchio Dio, nel sogno, ecco che gli venne innanzi, curvo, cadente, reggendo a fatica su le spalle la testa enormemente barbuta e chiomata del sagrestano della chiesa; gli sedette accanto e cominciò a sfogarsi con lui, come fanno i vecchietti seduti sul murello davanti ai gerontocomii:
– Mali tempi, figlio mio! Vedi come mi son ridotto? Sto qui a guardia delle panche. Di tanto in tanto, qualche forestiere. Ma non entra mica per Me, sai! Viene a visitar gli affreschi antichi e i monumenti; monterebbe anche su gli altari per veder meglio le immagini dipinte in qualche pala! Mali tempi, figlio mio. Hai sentito? hai letto i libri nuovi? Io, Padre Eterno, non ho fatto nulla: tutto s’è fatto da sé, naturalmente, a poco a poco. Non ho creato Io prima la luce, poi il cielo, poi la terra e tutto il resto come ti avevano insegnato ne’ tuoi gracili anni. Che! che! Non c’entro più per nulla Io. Le nebulose, capisci? la materia cosmica... E tutto s’è fatto da sé. Ti faccio ridere: uno c’è stato finanche, un certo scienziato, il quale ha avuto il coraggio di proclamare che, avendo studiato in tutti i sensi il cielo, non vi aveva trovato neppur una minima traccia dell’esistenza mia. Di’ un po’: te lo immagini questo pover’uomo che, armato del suo canocchiale, s’affannava sul serio a darmi la caccia per i cieli, quando non mi sentiva dentro il suo misero coricino? Ne riderei di cuore, tanto tanto, figliuolo mio, se non vedessi gli uomini far buon viso a siffatte scempiaggini. Ricordo bene quand’Io li tenevo tutti in un sacro terrore, parlando loro con la voce dei venti, dei tuoni e dei terremoti. Ora hanno inventato il parafulmine, capisci? e non mi temono più; si sono spiegati il fenomeno del vento, della pioggia e ogni altro fenomeno, e non si rivolgono più a Me per ottenere in grazia qualche cosa. Bisogna, bisogna ch’io mi risolva a lasciare la città e mi restringa a fare il Padreterno nelle campagne: là vivono tuttora, non dico più molte, ma alquante anime ingenue di contadini, per cui non si muove foglia d’albero se Io nol voglia, e sono ancora Io che faccio il nuvolo e il sereno. Su, su, andiamo, figliuolo! Anche tu qua ci stai maluccio, lo vedo. Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la buona gente che lavora.
A queste parole, il signor Aurelio, nel sogno, sentiva stringersi il cuore. La campagna! il suo sospiro! – La vedeva come se vi fosse; ne respirava l’aria balsamica... – quando, a un tratto, si sentì scuotere e, aprendo gli occhi, stordito, oppresso di stupore, si vide davanti vivo e spirante, il Padre Eterno, proprio lui, che gli ripeteva ancora:
– Andiamo, su andiamo...
– Ma se è tanto che... – barbugliò il signor Aurelio, con gli occhi sbarrati, atterrito dalla realtà del suo sogno.
Il vecchio sagrestano scosse le chiavi:
– Andiamo! La chiesa si chiude.

Tanino e Tanotto

Dai contadini che si recavano ogni giorno in città con le mule cariche delle provviste della campagna, il barone Mauro Ragona sapeva che la moglie seguitava a star male e che anche il figlio, ora, s’era gravemente ammalato.
Della moglie non gl’importava. Matrimonio sbagliato, contratto per sciocca ambizione giovanile.
Figlio d’un contadino arricchito, il quale, sotto il passato Governo delle due Sicilie, s’era comprata col feudo la baronia, aveva sposato la figlia del marchese Nigrelli, fin da bambina educata a Firenze, e che, a suo dire, non comprendeva più il dialetto siciliano; pallida, bionda e delicata come un fiore di serra. Robusto, tutto d’un pezzo, bruno di carnagione, anzi nero come un africano, faccia dura, occhi duri, grossi baffi e capelli fitti, crespi, nerissimi, egli ora si diceva contadino, e se ne vantava.
Avevano capito presto l’uno e l’altra che la loro convivenza era impossibile. Ella piangeva sempre; senza ragione, credeva lui. Dal canto suo, egli s’annojava e, in risposta a quelle lagrime, sbuffava. Ma dalla loro unione era nato un bambino, biondo, pallido e delicato come la madre, la quale fin dai primi giorni se n’era mostrata gelosissima; tanto che egli non aveva potuto mai toccarlo e nemmeno quasi guardarlo.
E allora egli s’era allontanato dalla città senza darne né conto né ragione a nessuno. Per fare il comodo suo. Se n’era andato lì nella sua campagna nativa; s’era presa con sé Bàrtola, la bella figlia d’un suo fattore morto l’anno avanti, sana e gaja contadina, piena d’umile bontà, che aveva accolto come un grande onore, come una vera degnazione l’amore del giovane padrone; gli era nato un figliuolo anche da lei, ma bruno come lui, solido e paffuto; e finalmente s’era sentito a posto.
La moglie, contentissima.
S’erano guastati del tutto, apertamente, per una stupida bizza: Mauro Ragona adesso lo riconosceva. Vedendosi trattato d’alto in basso dalla moglie aristocratica, nelle rare volte che si recava in città più per rivedere il figlio che per lei, s’era sentito un giorno rimescolare il sangue. Ah davvero ella sentiva tanto disprezzo per lui? davvero non lo riteneva degno d’altra donna, che di quella Bàrtola che teneva in campagna?
– Ti voglio! – le aveva gridato, inasprito dalle sdegnose ripulse di lei. – Sei infine mia moglie!
Ma ella s’era ribellata fieramente a quella violenza che egli per puntiglio voleva usarle. Accecato, il Ragona s’era lasciato spingere un po’ troppo oltre dall’amor proprio offeso, e finalmente se n’era andato, rompendo in una sghignazzata.
– Quella lì, del resto, vale cento volte più di te!
D’allora in poi, non era più ritornato in città.
Non gli importava, dunque, che la moglie stesse male. Ma che ora si fosse ammalato anche il figlio, sì, e molto. Non lo aveva più riveduto, da cinque anni, povero piccino, e ne aveva rimorso: era sangue suo, portava il suo nome, il suo, il nome dei Ragona; sarebbe stato l’erede della sua ricchezza, e cresceva intanto come un Nigrelli, lì, tutto della madre che forse gli parlava male di lui, a tradimento, male del proprio padre, di cui il piccino non...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Novelle per un anno III
  3. Introduzione
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. NOVELLE PER UN ANNO - Volume terzo
  7. TUTT’E TRE
  8. DAL NASO AL CIELO
  9. DONNA MIMMA
  10. IL VECCHIO DIO
  11. Appendice - Come correggeva Pirandello
  12. Copyright