Garden
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Il giardino alla fine del mondo

  1. 276 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il giardino alla fine del mondo

Informazioni su questo libro

Il ritardo è negligenza. La negligenza è disordine. Il disordine è il seme della perdizione. Maite è tra le operaie più efficienti nella fabbrica in cui lavora. In fondo non ha scelta: se commettesse un'infrazione sarebbe punita con la morte. Maite coltiva in segreto la sua passione, il canto, e sogna di raggiungere il leggendario giardino alla fine del mondo, dove si narra vivano i ribelli in completa libertà e dove pare siano sopravvissute le lucciole. Perché il suo paese è diventato una prigione fredda e spoglia. Dopo una lunga guerra, l'Italia è stata divisa in Signorie e, per impedire il ritorno al caos, le arti e le scienze sono riservate a una casta di eletti, mentre gli esclusi sono condannati a una vita di obblighi e privazioni. L'unica fonte di svago è la Cerimonia, la grande festa celebrata per l'anniversario della Rinascita. Maite ha sempre voluto esibirsi su quel palco, ma il giorno in cui potrà finalmente ottenere il suo riscatto scoprirà che, in un paese che ha ucciso ogni speranza, anche dai sogni si può desiderare di fuggire...
Un romanzo italiano dal sapore internazionale che dipinge con lucida spietatezza uno scenario più vicino di quanto possiamo immaginare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804627180
eBook ISBN
9788852036958

CAPITOLO 1

Quando sento i fili d’erba stendersi delicati sotto le piante dei miei piedi scalzi, capisco di trovarmi in un giardino. Non ricordo come ci sono arrivata. Devo essere finita in un’altra parte del paese, una parte in cui non sono mai stata prima d’ora. L’ultima lucciola della notte scompare dalla vista mentre una brezza leggera soffia alle mie spalle e mi scompiglia i capelli, lunghi e liberi di muoversi. Che strano. Non ci sono abituata. Di solito il mio capo è avvolto nella cuffia di rete che ci impongono di usare in fabbrica. La cuffia fa parte dell’uniforme, insieme alla tuta gialla, agli scarponi e alla cinta di tela per gli attrezzi.
Ora però non porto l’uniforme, ma un paio di pantaloncini e una maglietta bianca a mezza manica. Vedo le mie braccia, bianche quanto gli abiti che indosso, agitarsi come se volessero disegnare una figura in aria. Qui nessuno può vedermi, il silenzio irradia dal cielo in ogni direzione e la luce del mattino invita ad allungare lo sguardo, lasciarlo correre a destra e a sinistra, dove l’erba si arriccia e promette di essere setosa, per metri e metri, forse per chilometri.
Non resisto.
Mi abbasso e mi stendo, il profumo fresco del prato riempie le mie narici, si confonde con l’odore della mia pelle. Sono anch’io un filo d’erba sfiorato dal vento e all’improvviso, senza alcun timore, inizio a cantare. Le parole escono dalla gola e si alzano verso il cielo. È una canzone che ho inventato io. Non l’avevo mai cantata prima d’oggi. Le corde vocali vibrano modulando le note, non vorrei trovarmi in nessun altro posto al mondo. L’aria entra ed esce dai polmoni, attraversa le narici, scivola in gola e si trasforma in musica. Non credevo di potermi sentire così viva, non credevo che esistesse tanta forza, tanta armonia in me. Continuo a cantare e non riesco a fermarmi, e so che mentre canto le mie labbra si piegano verso l’alto e i denti brillano illuminati dal sole, in un radioso, insolito sorriso smagliante.
Ora riesco a ricordare qual è il nome di questo posto.
Questo è il giardino alla fine del mondo. Questo è Garden, il giardino di cui molti parlano, anche se nessuno è sicuro della sua esistenza e c’è chi lo considera solo una leggenda. Qui posso cantare, come ho sempre desiderato. Ma certo, avrei dovuto capirlo subito; non sto davvero cantando. Cantare è proibito dalla legge, come ogni altra arte. Sarei una pazza a…
Apro gli occhi e mi trovo nel mio letto. La mia gola è in preda all’arsura, vorrei bere cento bicchieri d’acqua. Metto a fuoco il quadrante dell’orologio a muro che il Governo ha impiantato nella mia stanza, e in ogni altra stanza di ogni altra casa in ogni angolo del paese. Le cifre diciannove e quarantasette mi bloccano il respiro. Oggi ho il turno di notte. Inizia alle venti in punto. Mentre getto il lenzuolo a terra e scatto in piedi, nella mia testa echeggia un brano della Costituzione, pronunciato dal nostro Presidente. Il ritardo è negligenza. La negligenza è disordine. Il disordine è il seme della perdizione.
Non riesco a capire come sia successo, dove abbia sbagliato, quale scherzo crudele della mente mi abbia impedito di aprire gli occhi in orario. Arrivare al lavoro in ritardo è proibito. L’ho forse dimenticato, nel sonno? Qualunque ritardo è proibito. Perdi il posto, perdi ogni diritto. Spesso, perdi anche la vita.
Cerco di restare calma, dev’esserci una spiegazione. Sì, devo aver letto male. Avevo puntato la sveglia, non posso non averla sentita. È la stessa sveglia che suona e mi riporta alla realtà, ogni giorno da quando avevo sei anni. Eppure, appena gli occhi ritrovano il quadrante, l’ultima scia di erba e musica che ancora sentivo addosso scompare. Qui ci sono solo polvere di alluminio e mani screpolate. Se riesco a vestirmi e uscire in cinque minuti, e inizio subito a correre, potrei farcela. Da casa alla fabbrica ci vogliono meno di venti minuti a piedi. Correndo potrei dimezzarli e dimezzare il mio ritardo. Correndo potrei salvarmi.
Infilo la tuta, allaccio le scarpe e mi fiondo all’ingresso, e mentre cammino chiudo gli ultimi bottoni. Non ho bisogno di prendere le chiavi di casa. Quando tornerò domattina i miei saranno già alzati. A chi, come loro, ha compiuto quarant’anni spetta di diritto il turno d’onore, otto ore dalle quattordici alle ventidue. Devo lavorare ancora molto per meritarmelo. Questo ci ripetono, giù in fabbrica. Non sono così sicura che il verbo “meritare” sia il più adatto, in questo caso.
Chiudo la porta con uno scatto secco e inizio a correre. Le case sfrecciano rapide, i vicini sono figure informi, gente che potrei salutare e chiamare per nome, ma non lo faccio, potrebbe costarmi secondi preziosi. Spingo i piedi sull’asfalto e respiro a fondo. Le cellule del mio corpo non devono pensare ad altro che a salvarsi. Oggi non ho tempo di ripetere il mio esercizio quotidiano: ricordare chi abita in ogni casa, ripeterne il nome, l’età e altre informazioni imparate di anno in anno. Il fatto è che a volte le persone scompaiono, da un giorno all’altro. Le portano via i Giusti, i custodi dell’Ordine. Sono loro che si occupano di punire i trasgressori. Se osassi cantare, loro mi sentirebbero attraverso una delle centinaia di microspie nascoste ovunque e nel giro di pochi minuti mi catturerebbero.
Devo allungare il passo, se non voglio essere io la prossima a sparire. Vedo già i cancelli della fabbrica, non tutto è perduto, mancano poche decine di metri. Il cuore mi rimbomba nel petto, nelle tempie, raschia la gola assetata, la mia vita dipende da questi scarponi, da questi muscoli. Ho sedici anni, ho tutta la forza necessaria per superare la distanza, mi posso salvare.
In un certo senso me lo merito, avrei dovuto sentire la sveglia, ma una parte di me preferiva stare nel Giardino, a cantare. Una parte di me voleva infrangere una delle Nuove Armonie e per questo rischio di essere punita. Le chiamano Armonie, ma in realtà non sono altro che divieti. Azioni e gesti da cui siamo obbligati ad astenerci, secondo le leggi varate con il programma di Rinascita.
L’Ordine è il pilastro dello Stato, l’Ordine è il fondamento della Costituzione, l’Ordine ci nutre e ci salva.
Ecco la sirena: sta per cominciare il turno. Il ferro cigola, la lastra inizia a scorrere, meno di un minuto prima che si chiuda. I miei piedi sembrano di cemento, non riesco a correre più di così e ho l’impressione che anziché accorciarsi il terreno si espanda, quasi volesse impedirmi di arrivare al cancello. Mancano circa due metri, ce l’ho fatta, ma la fessura è stretta, potrebbero passarci due bambini che si tengono abbracciati, la placca di metallo continua a muoversi e mi sento già morta, un cadavere che corre. Ho l’impressione che in lontananza qualcuno stia chiamando il mio nome.
Maite. Maite. Maite.
L’adrenalina ha preso il controllo, il panico dilaga nelle mie vene. Sembra una voce di donna, giovane, affannata. Anche lei sta correndo.
— Maite. Maite. Maite.
No, non è un’allucinazione: ora la riconosco. È la voce di Erika. È in ritardo anche lei? Com’è possibile? Non posso voltarmi a guardare, ogni istante è prezioso, ne va della mia vita.
Un altro metro, la fessura è qui, di fronte a me, mi lancio, braccia tese in avanti, il resto del corpo segue. Sono dentro o fuori? Tengo le palpebre chiuse, strette in una morsa di speranza e disperazione, non ho il coraggio di aprire gli occhi, ma devo.
La mia scarpa destra è rimasta incastrata nel cancello e gli impedisce di chiudersi. Erika mi arriva alle spalle.
— Forza — le dico, per quanto posso parlare con la bocca secca, e allungo un braccio per tirarla a me. — Vieni, presto!
Ma lei scuote il capo e bisbiglia: — Una di noi deve restare — e mi spinge dentro il cortile.
Questione di un attimo: il cancello scatta, la sirena smette di ululare, un inconfondibile rumore di corrente elettrica avvisa che il sistema di protezione è stato attivato. Il mio corpo colpisce il terreno, una miriade di sassolini mi inonda la faccia, mi rialzo ma qualcosa mi trattiene: la punta dei miei capelli è rimasta chiusa nel cancello. Non esito un istante, è un piccolo prezzo. La cute tira, una fitta di dolore, lo strappo.
Mi volto verso il punto in cui è rimasta Erika, all’esterno, e provo a incitarla: — Scappa, vattene! — ma so che non dovrei parlare, perché la solidarietà verso una persona negligente è anch’essa un reato. Questo è il motivo per cui mi ha spinto: se l’avessi aiutata, avrebbero punito entrambe. Ora, invece, puniranno soltanto lei.
A volte ho l’impressione che le persone vengano tolte di mezzo apposta, per fare spazio ad altre, per avere case vuote da assegnare alle coppie in lista d’attesa per sposarsi.
Ma non posso esserne certa.
Qui non si può mai essere certi di nulla. I Giusti e il Governo non gradiscono che si facciano congetture su chi è scomparso, tanto che, nel corso degli anni, chi era così folle da volerne parlare ha inventato un nuovo modo per riferirsi a queste persone. Ora li chiamiamo “i terminati”. Su di loro circolano molte storie; io ne conosco solo alcune. C’è chi crede si tratti di persone che, per aderire alla resistenza, tagliano i ponti con il passato. Altri parlano di fughe preparate con pazienza da gente astuta che riesce a valicare i confini, a rubare un hydroplano per volare all’estero, verso uno dei pochi paesi in cui non è stata varata la Rinascita. Si dice che molti riescano ad arrivare nel giardino alla fine del mondo. Credo sia per questo che, fin da bambina, ho iniziato a sognarlo: prima o poi lo avrei raggiunto, ritrovando tutte le persone che avevo perso. Ho anche sentito dire che i terminati verrebbero tenuti nel Magazzino, un enorme deposito di scorte alimentari da cui provengono di continuo suoni inquietanti, e dove non si vedono mai entrare né uscire operai, ma soltanto treni. Qualcuno, poi, dice che “terminato” è solo un altro modo per dire “assassinato”.
Qualunque sia la spiegazione, un fatto è certo: prima o poi, gran parte degli abitanti del mio quartiere svanirà da un giorno all’altro. Per questo ogni mattino ripasso la lezione: ho rischiato di dimenticarne già fin troppi. Amici dei miei genitori. Lontani parenti. Compagni di scuola. Vicini di casa. Mia zia Aurora. Decine e decine di persone che, mentre crescevo, sono state prese dai Giusti. Con il passare degli anni inizi a confonderli, è difficile recuperare dalla mente le immagini dei volti, il suono delle voci, il modo di parlare: li perdi, arrivi a rimuovere anche i loro nomi e, alla fine, è come se non fossero mai esistiti.
— Vai via, sbrigati — dico ancora, anche se sappiamo che non c’è modo di nascondersi. Loro ti trovano sempre. Mi sono appena rimessa in piedi quando noto, all’improvviso, il silenzio, quasi che l’intera città fosse sprofondata in un sonno quieto e profondo.
Quindi li sento.
Passi di piedi in marcia. L’unico suono, oltre al rombo delle macchine all’interno dei capannoni: un plotone di Giusti si sta avvicinando alla fabbrica.
Vengono a prendere Erika.
Sembra quasi di vederli, nelle impeccabili uniformi gialle, che non permettono di distinguerli uno dall’altro, la stoffa che crea tre pieghe sotto il mento, la R di Rinascita stampata su ogni braccio, appena sotto l’attaccatura delle spalle, e intorno alla vita la fondina per la pistola e quella per il manganello. Chi ha creato le loro divise voleva che incarnassero la luce della tranquillità portata dalle Nuove Armonie dopo la guerra, ma ha ottenuto il risultato opposto: l’unico effetto che sortiscono è incutere timore.
Il suono dei passi cessa di colpo: sono arrivati. Sarei dovuta restare con Erika, a condividere la punizione. Non potrò mai perdonarmelo.
Il corpo esegue i movimenti quasi in automatico: entro nel capannone Undici, salgo le scale, apro la porta. Dalle finestre filtrano gli ultimi barlumi di luce, mentre il pomeriggio di questo giorno di primavera si sta esaurendo. Non mi era mai successo, di non svegliarmi in orario. Conosco ragazze che per l’eccessiva durezza del lavoro hanno iniziato a soffrire d’insonnia. Per fortuna non ho questo problema, anzi, a volte nei momenti più difficili mi faccio forza pensando che, prima o poi, potrò tornare a casa. Potrò bere, consumare uno dei nostri miseri pasti, lavarmi e dormire. E potrò sognare.
Aspetto sempre il mio sogno ricorrente: talvolta è un prato infinito, talvolta un bosco fitto, altre volte un cumulo di cespugli fioriti, ma è sempre e comunque il Giardino. È lì che vorrei tornare, lontano da questo turno, lontano dal momento in cui hanno portato via la mia migliore amica.
Invece, alla fine della rampa mi attende una distesa di colonne e tubi di raffreddamento che svettano dal soffitto altissimo. Sotto, ordinati in due lunghe file, tutti gli operai. Noi addetti alla manutenzione dobbiamo restare indietro, ultimi dell’appello. L’attesa è scandita dalle Armonie del Giorno, le notizie che il Governo ci fa vedere e ascoltare, con filmati che si ripetono senza interruzioni proiettati da un grande schermo montato sul lato lungo del capannone. Una voce suadente, di donna, sta raccontando le ultime fatiche del Presidente. Posso vedere il volto giovane che sorride magnetico alla telecamera e inizia a elogiare il nostro popolo per il valoroso sforzo compiuto nell’ultimo anno, uno sforzo che presto sarà celebrato, da tradizione, la terza domenica del mese di maggio, con la festa nazionale.
Gioisci, popolo di Àmor, la Cerimonia è alle porte, uniamo le mani e celebriamo l’Ordine, padre della Pace, figlio della Rinascita.
Giro la faccia, guardo la fila di fronte a me. Come ogni sera, chiamano le persone per l’appello. Questo è il sistema che usano per controllare le nostre presenze: uno dei Giusti scruta i nostri volti, uno dopo l’altro, li raffronta con l’immagine della nostra carta d’identità, attinta dall’archivio del Computer Centrale. A mano a mano che ci registrano dobbiamo correre ai nostri posti. Gli addetti alla catena di montaggio hanno una postazione fissa. I manutentori, per ricevere le segnalazioni raccolte dal coordinatore, devono recarsi nella sala al primo piano a destra. Di solito, dopo il controllo, Erika si volta dalla mia parte, mi sorride e se ne va; corre all’hangar in cui producono i bulloni, dove ha il compito di controllare il ritmo produttivo delle altre operaie, che non possono scendere sotto una soglia prestabilita. Questo è il suo lavoro. Era il suo lavoro. Chi prenderà il suo posto? Cosa penseranno le sue colleghe?
Mentre mi avvicino a Luca non posso fare a meno di notare la cicatrice che gli solca una guancia. Luca è il manutentore con cui lavoro. L’anno scorso, mentre stava riparando un apparecchio, una delle valvole è saltata, ferendolo al viso. Pochi centimetri più in alto e avrebbe perso un occhio. Sono sicura che molte delle ragazze in fabbrica avrebbero gridato allo scandalo. Spesso, quando siamo in fila per l’appello, mi capita di sentirle, che bisbigliano: — Due occhi così verdi e profondi, che rischiano ogni giorno di farsi male.
Non le capisco, a me Luca è sempre sembrato un ragazzo come tutti gli altri e le poche volte in cui ho provato a pensare a lui in altri modi, ne ho concluso che tanto sarebbe solo un’altra persona che rischio di perdere. Meno ci tieni, meno fa male quando se ne vanno. Ma come farò senza Erika? Siamo cresciute insieme, nei momenti più importanti della mia vita lei c’è sempre stata, e ora… Non devo pensarci. Ci sono giorni in cui vorrei che fosse possibile non attaccarsi troppo a nessuno, né agli amici, né ai colleghi, né ai genitori. Con Erika, però, è stato inevitabile. A volte mi sembra che sia inevitabile anche con Luca. Se penso che per molti mesi, appena arrivata in fabbrica, ho faticato a guadagnare la sua fiducia e, anzi, lo temevo; non era un collega, ma una punizione in carne e ossa. Quando mi ha visto la prima volta, mi ha costretta a tornare dal Giusto che aveva deciso che avremmo lavorato insieme, e ha chiesto una verifica. Una ragazza alla manutenzione? Doveva esserci un errore di calcolo. Dopo ore e ore di telefonate, però, è arrivata una risposta prevedibile: il Computer Centrale, che valuta le nostre capacità e decide qual è il lavoro a cui siamo destinati, non sbaglia mai.
Per mesi, dopo quel giorno, Luca non ha fatto che insultarmi e inveire contro il risultato del mio esame di Assegnazione. Diceva che al posto di due braccia for...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Garden. Il giardino alla fine del mondo
  4. CAPITOLO 1
  5. CAPITOLO 2
  6. CAPITOLO 3
  7. CAPITOLO 4
  8. CAPITOLO 5
  9. CAPITOLO 6
  10. CAPITOLO 7
  11. CAPITOLO 8
  12. CAPITOLO 9
  13. CAPITOLO 10
  14. CAPITOLO 11
  15. CAPITOLO 12
  16. CAPITOLO 13
  17. CAPITOLO 14
  18. CAPITOLO 15
  19. CAPITOLO 16
  20. CAPITOLO 17
  21. CAPITOLO 18
  22. CAPITOLO 19
  23. CAPITOLO 20
  24. RINGRAZIAMENTI
  25. Copyright