La data del 23 novembre 1932, più che scritta è scavata dentro la mia mente con segni non meno indelebili di quelli che in seguito e per tutta la vita vi incise, a giusti intervalli, il dolore. Data memorabile, perché segnò l’inizio di un corso di eventi dai quali dovevo emergere a distanza di un anno, ma restandone segnato per sempre.
Quel giorno, partito avanti l’alba da Pontebba, nell’alta Carnia, avevo cambiato treno a Udine e fatto sosta a Gorizia: due città che vedevo per la prima volta e delle quali sapevo soltanto quel poco che era legato alla guerra 1915-1918, combattuta una quindicina d’anni prima in quei luoghi e subito entrata nei libri di scuola.
Gorizia mi si presentò con un volto straniero, austriaco, o meglio d’un tipo indefinibile ma in qualche modo attinente al carattere di un’area della quale avevo già toccato i margini a Pontebba. Per le strade e nel ristorante dove andai a pranzo, coglievo voci e frasi di una lingua che non era tedesca, né veneta come m’ero immaginato e neppure friulana.
Dopo pranzo girai a lungo per le vie, vidi un bel castello sopra una rocca addossata alla città, un fiume vorticoso che sbucava dalle gole dei monti e le alture d’intorno, spelacchiate e calcinose come se la guerra vi fosse appena passata. Più tardi scoprii un lussuoso caffè pieno di specchi, di tavolini di marmo nero e di poltrone nelle quali sedevano anziani signori intenti a leggere dei giornali fissati a mezzi bastoni, che impugnavano e tenevano stesi come aste di bandiera. Presi anch’io uno di quei giornali e sdraiato in una poltrona cominciai a scorrerlo.
Nei dintorni di Scanis, in Engadina, il giorno prima era stato avvistato un orso. Un contadino che lavorava nei campi l’aveva visto ballonzolare sotto una pianta ed era fuggito. Fonti competenti avevano espresso l’opinione che l’orso fosse arrivato dai Carpazi, spinto da “atavismo incosciente”. In Engadina infatti, informava il giornale, un tempo gli orsi erano numerosi. L’ultimo era stato ucciso nel 1904.
Voltai pagina e trovai una notizia proveniente da Napoli:
“È stato qui di passaggio quest’oggi il famigerato frate Ciavolino, che strangolò il padre superiore del suo convento e che a seguito di numerosi indulti e condoni ha potuto lasciare il penitenziario. L’ex frate, che ha quarantanove anni, ha dichiarato che si recherà presso una vecchia zia a San Giovanni a Teduccio.”
Fra le ultime notizie, spiccava un grosso titolo: “Fervore di indagini e ridda di ipotesi sul tragico mistero della donna tagliata a pezzi”. Da parecchi giorni, e ne parlavano continuamente i giornali, erano state rinvenute su di un treno proveniente da Genova due valigie abbandonate con dentro i quarti superiori di una donna tagliata a pezzi. Il giorno stesso, o quello successivo, si era trovata alla stazione di Pisa, su di un altro treno, una terza valigia con la testa e le parti inferiori del corpo della vittima. Il macabro bagaglio sembrava provenisse da La Spezia, città dove era stato raccolto, in un vicolo, un coltello insanguinato dalla lama “a forma di foglia di limone”.
Era la storia di Cesare Serviatti, che cominciava in quei giorni e che si sarebbe conclusa un mese dopo, quando il mostro, un ex infermiere del Policlinico di Roma, cinquantatreenne, coniugato, tratto in arresto confessò di aver ucciso e tagliato a pezzi la domestica Paola Gorietti. Accusato di molti squartamenti del genere rimasti impuniti in quegli anni, l’infermiere ne ammise un secondo, in persona di un’altra domestica, Bice Margarucci, che aveva irretito, come la Gorietti, con promesse di matrimonio.
Deposi il giornale e cominciai a riflettere. Dunque, mentre me ne stavo nel caldo di un caffè a Gorizia, tanto l’assassino, ancora ignoto a tutti, quanto l’orso dei Carpazi, vagavano in luoghi indeterminati, dai quali avrebbero potuto a un tratto emergere e presentarsi a chiunque andasse per il mondo o soltanto varcasse la soglia di casa.
Uscii dal caffè, piacevolmente eccitato dalla vaga inquietudine che mi aveva colto leggendo il giornale. E fu gran fortuna, perché mi accorsi solo quando fui all’aperto che il sole si avvicinava al tramonto e che mancava poco alla partenza del treno per Aidussina, dov’ero diretto.
Lo scompartimento di terza classe nel quale ero entrato dopo aver ritirato la mia valigia al bagagliaio, era occupato per più della sua metà da una decina di contadine che tornavano ai loro paesi con le ceste vuote, dopo il mercato. Contavano infatti, alcune di loro, del denaro, passando biglietti e monete da una mano all’altra e parlottando in una lingua per me incomprensibile: la stessa che avevo orecchiato per le strade di Gorizia e nel ristorante dove ero stato a pranzo.
Tra Udine e Gorizia, o nel cuore stesso di questa città, avevo passato il limite della lingua italiana verso l’est e già mi trovavo, dal momento che il treno era alla seconda fermata, bene addentro nel territorio degli slavi, nella propaggine slovena toccata all’Italia col trattato di pace.
Dopo qualche altra fermata non restavano più, nello scompartimento, che due anziane contadine, le quali, quasi si fossero accorte solo allora della mia presenza, avevano smesso ogni discorso e mi guardavano con sospetto.
Quando discesero e restai solo nello scompartimento e in tutto il treno, capii che la prossima e ultima stazione non poteva essere che Aidussina.
Il cielo si era quasi completamente oscurato, mentre il treno, l’accelerato, sferragliava verso la fine della sua corsa.
Del perché fossi in viaggio verso Aidussina con quella valigia, in quel giorno e in quell’ora prossima al buio, non avevo quasi coscienza. Sulla necessità e quasi sulla realtà della mia presenza nel mondo e quindi su ciò che mi occorresse fare, momento per momento, avevo sempre nutrito dei dubbi. Sapevo soltanto, quella sera, che il treno stava per fermarsi e che avrei dovuto scendere.
Avevo, nel taschino superiore sinistro del gilè, un’agendina rilegata in marocchino. La toccai per trarne qualche stimolo a ricordare, ma intanto il treno si era già arrestato.
Sulla facciata di una costruzione in mattoni rossi, simile a un’officina meccanica abbandonata, correva a grandi lettere turchine in forte rilievo la parola AIDUSSINA: un nome sdrucciolo, da pronunciare con l’accento sulla seconda sillaba, che faceva pensare a una donna più che a un paese. Le finestre della stazione erano chiuse e neppure al pianterreno si vedevano uffici o stanze illuminate. Davanti alla facciata pendeva un lampione che illuminava debolmente i binari.
Scesi senza fretta e girando intorno al fabbricato arrivai di fronte alla controfacciata, del tutto uguale a quella rivolta verso i binari, con le stesse lettere turchine in rilievo della parola AIDUSSINA tra il pianterreno e il primo piano, le stesse porte e finestre, ugualmente chiuse.
Sul piazzale pendeva un altro lampione, che pareva sospeso nell’aria ormai tenebrosa. Alla sua luce vidi l’inizio d’un viale. Lo infilai, ma appena uscito dalla zona illuminata mi trovai nel buio più fitto. Forse Aidussina non era un paese, ma solo un capolinea abbandonato, oppure una di quelle località in cima alle montagne che hanno la stazione ferroviaria nel fondovalle.
Nessuna luce appariva in lontananza. Cominciai a temere che anche il lampione, oramai che l’ultima corsa era arrivata, si sarebbe spento. Non mi restava che tornare sul treno, ad aspettare il mattino, dentro lo scompartimento nel quale avevo viaggiato.
Stavo avviandomi, quando un animale, che mi parve un orso, uscì dall’ombra e venne verso di me. Era un enorme cane di pelo scuro e folto, forse un pastore bergamasco o bergamascato, che mi girò intorno fiutando accuratamente prima le mie gambe poi la mia valigia. Dopo un lungo annusamento se ne andò, perdendosi nel buio dal quale era venuto.
Restai fermo per un pezzo nella posizione in cui mi ero irrigidito, finché avendo intravisto tra la prima e la seconda pianta una panchina di cemento, pensai di sedermi per riprender fiato. A sinistra avevo il piazzale illuminato, a destra l’oscurità del viale.
Quando mi appoggiai allo schienale abbandonando la maniglia della valigia che avevo posato per terra, fu come se mi fossi lasciato andare alla corrente di un fiume. Sentendo che stavo per smarrirmi, cercai qualche appiglio, ma non trovai, nel vuoto della mia mente, che il mio nome e cognome, improvvisamente apparso, che pronunciai ad alta voce. Appena mi accorsi che così chiamato solo io avrei potuto accorrere, mi caddero le braccia lungo il corpo. La mia mano destra, finita sulla maniglia di cuoio della valigia, ritrovò finalmente l’appiglio che mi bisognava. Alzai la valigia, la passai a sinistra, la posai sul piano della panchina accanto a me e vi misi sopra l’avambraccio come sul bracciolo d’una poltrona.
Di quello che ero stato e che non ricordavo, solo nella mia valigia restava qualche traccia. Il suo contenuto poteva offrirmi dei punti di riferimento.
La aprii e subito mi apparve il rivestimento interno a fiori bianchi e rossi. Era la fodera di cotone fantasia sul cui aspetto avevo fondato il mio rifiuto all’acquisto, quando la valigia mi era stata presentata sul bancone dei fratelli Bernabò, al mio paese.
«È bellissima, fine, di buon gusto» diceva il Bernabò. «Gliela posso dare a un prezzo veramente d’occasione. È roba di buona qualità. Ha gli spigoli in pelle e gli angoli d’ottone.»
Si trattava, in verità, di un fondo di magazzino, con una macchia d’umidità grande come una mano su una delle facce e un forte odore di muffa. L’avevo portata a casa con disgusto, ma dovetti riconoscere che era solida e di giusta misura.
Frugai sotto gli indumenti che conteneva e mi venne in mano un grosso portafogli a fisarmonica dove avevo messo i soldi, alcune fotografie e i miei documenti personali. Lo aprii e cercai il mio decreto di nomina, che era scritto a macchina, in seconda o terza copia, su di un foglio con l’intestazione del Ministero di Grazia e Giustizia. Ricordai che su quel foglio figurava, a tutte maiuscole, il mio nome e cognome, la mia qualifica, la data di emissione, la firma “per il Ministro” di un sottosegretario o del capo del personale. In fondo al foglio, un po’ a sinistra, splendeva come un sole il timbro tondo con lo stemma reale nel mezzo. Alla luce del lampione, che mi arrivava di sbieco, il foglio non era leggibile, ma l’intestazione a stampa in grandi caratteri corsivi mi apparve con chiarezza. Non avevo più dubbi. Ero su quella panca in seguito a trasferimento d’ufficio dalla Pretura di Pontebba, dove avevo preso servizio di prima nomina un mese avanti, a quella di Aidussina dove ero tenuto a presentarmi la mattina dopo.
Rimisi il portafogli al suo posto e vi calcai sopra maglie e mutande per chiudere il coperchio della valigia. Ormai sapevo quel che mi restava da fare: infilare l’oscuro viale in fondo al quale avrei trovato il paese di Aidussina, sede di pretura e capoluogo di mandamento.
Mi ero appena alzato, che subito ricaddi sulla panca. Davanti a me si ergeva un uomo, chiuso in un pastrano scuro a pipistrello e con un cappello nero in testa da sotto la cui tesa mi guardava con due occhi che lampeggiavano, forse per effetto della luce del lampione mosso dal vento notturno.
Pensai all’assassino che aveva tagliato la donna a pezzi. L’uomo infatti passava con lo sguardo dalla mia persona alla valigia che avevo di fianco, quasi stesse prendendo delle misure. Mi aspettavo di veder luccicare da sotto il suo pastrano un coltello dalla lama “a foglia di limone”.
Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, dopo un certo tempo, l’uomo era scomparso. Forse mi ero addormentato e avevo sognato, perché avevo un gran freddo in tutto il corpo.
La valigia era sempre coricata al mio fianco. La afferrai e mi misi decisamente in cammino, cercando di tenere il mezzo del viale.
Arrivato al punto in cui, dopo una dirittura di forse cento metri, il viale piegava a destra, vidi una luce gialla in lontananza e il biancheggiare di alcune case. Quando le raggiunsi mi parvero disabitate. Solo una, isolata dalle altre ma anch’essa a filo della strada, aveva la piccola vetrata a semicerchio della sovrapporta fiocamente illuminata. Sul parapetto del balconcino sopra la porta notai un piatto di lamiera inclinato verso il basso con la scritta “Reali Carabinieri” intorno allo stemma dello Stato.
«Ecco» dissi con profonda soddisfazione «i Carabinieri, i Reali.» Essi infatti erano, secondo me, reali non perché soldati e guardie del re, ma in quanto costituivano una evidente realtà, presente e attiva dovunque vivessero uomini, tanto da poter sussistere indipendentemente dal re e da ogni altra autorità. Quindi termine di riferimento sicuro per chiunque e misura della distanza che intercorre tra il cittadino e la legge, cioè tra il concreto e l’astratto. Per questo, in molti luoghi venivano chiamati semplicemente “i reali”: “Ci sono in giro i reali” si diceva, oppure “L’hanno portato via i reali”.
Se i carabinieri erano di stanza in quel posto, se quella era la loro caserma, potevo dirmi in un luogo reale, abitato, anche se dopo la loro caserma e al di là di un’altra casa silenziosa riprendeva il buio.
Suonai alla porta sotto il balconcino e un momento dopo si aprì una guardiola che inquadrò la testa di un carabiniere.
«Cosa vuole?»
«Vorrei parlare col maresciallo.»
«È una cosa urgente?»
«Urgentissima.»
«Allora suoni alla porta appresso.»
La porta appresso, dieci passi più in là, aveva anch’essa un campanello a lato, con una targhetta sopra: “Cerisano Assuero – Maresciallo Capo – Abitazione”.
Suonai e subito sentii un passo pesante scendere la scala. La porta si aprì e apparve il maresciallo, in stivali e con le brache nere dalla banda rossa, ma senza giacca.
«Che c’è?» domandò.
«Nulla» dissi. «Volevo solo esser certo di trovarmi a Aidussina. Sono arrivato ora col treno.»
«Il treno è arrivato da un’ora» osservò severamente il maresciallo.
«Sarà» dissi. «Ma nel frattempo molte cose sono accadute.»
«Cos’è accaduto?»
«È accaduto che appena uscito dalla stazione sono stato avvicinato da un grande animale, forse un cane...»
«È il cane del ricevitore Rebeč» disse il maresciallo. «Tutte le sere va alla stazione per vedere se arriva il suo padrone, che è morto tre mesi fa all’ospedale di Gorizia.»
«Ma dopo il cane» continuai «mentre stavo seduto sulla panca, mi si è presentato un uomo con addosso un pipistrello nero e il cappello sugli occhi.»
«Pipistrello?» ripeté il maresciallo. «Era il macchinista Buriancic, che se ne andava a dormire da Krapez come tutte le sere quando arriva con l’ultimo treno. Ma si può sapere chi è lei e cosa è venuto a fare in questo paese?»
Adagiai la valigia sul gradino della soglia, la aprii e presi dal portafogli il mio decreto di nomina. Il maresciallo me lo tolse di mano e arretrò un poco per leggerlo alla luce della scala.
«Va bene» disse quando arrivò alla firma e vide il timbro «ma cosa vuole da me?»
«Vorrei sapere, prima di tutto, se qui sono a Aidussina, poi dov’è la pretura e se c’è un’osteria per cenare e poi passare la notte.»
«La pretura a quest’ora è chiusa. Quanto all’alloggio, venga con me» disse uscendo in strada e avviandosi alla porta della caserma.
Suonò il campanello e fece sentire la sua voce:
«Piantone! Chiama Satta!»
Uscì, un po’ stordito, un anziano carabiniere in tenuta completa e col pistolone d’ordinanza fuori dalla giacca.
«Satta» gli disse il maresciallo «accompagna questo giovanotto all’osteria di Krapez, in piazza.»
Così detto, tornò senza salutarmi alla sua porta, mentre di fianco al carabiniere, che era un appuntato, mi avviavo nel buio.
«Manca qualche lampadina» disse l’appuntato quasi per scusarsi.
In pochi minuti sbucammo in una piazza. Satta si diresse in diagonale verso un fanale che pendeva sopra un’insegna d’osteria. Spalancò la porta e gridò verso l’interno: «Lo manda il maresciallo!». Si toccò il berretto e se ne andò lasciandomi sull’uscio.
Mi inoltrai fino al banco sotto gli occhi d’un vecchio vestito di nero, che stando appoggiato al bancone mi guardava con disappunto. Appe...