I giovedì della signora Giulia
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I giovedì della signora Giulia

  1. 140 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I giovedì della signora Giulia

Informazioni su questo libro

Che fine ha fatto la signora Giulia, moglie del rispettabile avvocato Esengrini, scomparsa dalla cittadina di M. un giovedì di maggio del 1955? E perché proprio di giovedì, il giorno così speciale in cui, tutte le settimane da tre anni, prende il treno per recarsi a trovare la figlia in collegio a Milano? Rispondere a queste domande è il compito del commissario Sciancalepre, che si trova a indagare su quella che tutti in paese considerano una fuga d'amore. Frugando tra le ombre del parco di villa Esengrini, però, il poliziotto inizia a sospettare che sia accaduto qualcosa di ben peggiore di un tradimento... Piero Chiara costruisce un romanzo giallo insolito con il quale da un lato conferma la sua abilità nel ritrarre i paesaggi umani della provincia italiana, dall'altro rivela una felicità inventiva e una strabiliante padronanza delle tecniche del poliziesco.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804455097
eBook ISBN
9788852036668

I giovedì della signora Giulia

I

Il dottor Corrado Sciancalepre arrivò nel suo ufficio verso mezzogiorno. Era stato in Pretura a deporre come testimone in un processo di furto col quale si concludeva una paziente operazione che l’anno prima l’aveva occupato a lungo. Partito da un debole indizio, era riuscito a scoprire gli autori del furto e a recuperare la refurtiva.
Dotato di un fiuto particolare, cioè di quella speciale forma mentale che conferisce ai grandi poliziotti la possibilità di immedesimarsi nel delinquente, il dottor Sciancalepre aveva raccolto molti successi e non era lontano da una meritata promozione. A malincuore tuttavia avrebbe lasciato la cittadina di M. nell’alta Lombardia, dove da dieci anni era Commissario di Pubblica Sicurezza e dove erano nati i suoi due figli. Oramai assimilato all’ambiente, padrone perfino del dialetto e circondato da un timore reverenziale, che era la prima condizione dei suoi successi, il dottor Sciancalepre era particolarmente amato dai delinquenti, che quasi godevano nel farsi acciuffare da lui, tanto li sapeva trattare. Nel dialetto napoletano, che gli era familiare più del nativo palermitano perché a Napoli aveva vissuto nei primi anni della sua carriera, usava dire: «Che vvulite, a mme u delinquente me piace assai!». Era nato per il delinquente, come il cacciatore per la selvaggina.
Oltre al suo lavoro di investigatore, il dottor Sciancalepre aveva sempre svolto una preziosa per quanto poco appariscente attività nel conciliare mogli e mariti e nel rimettere sulla buona strada molti figli di famiglia. Era, come si dice, una istituzione. E non si teneva festa o riunione in casa del Sindaco, del Tenente dei Carabinieri, del Capitano di Finanza o nelle ville dei maggiorenti del paese, dove non fosse invitato insieme alla sua signora, che era una grassa e pacifica bolognese.
In Pretura, quella mattina, il gruppetto dei ladri era difeso dall’avvocato Esengrini, il più abile e autorevole penalista del luogo, noto in tutta la provincia e fuori, Vice Pretore onorario da forse vent’anni, ex Sindaco e, ai tempi del fascio, Podestà rispettato e temuto. L’avvocato Esengrini aveva parlato poco durante il dibattito. Aveva lasciato che le contestazioni e le interrogazioni si susseguissero, senza intervenire con domande ai testi, e senza mai rimbeccare né il Pubblico Ministero né la Parte Civile. Gli bastarono due precisazioni chieste ai danneggiati, perché al momento dell’arringa gli venisse facile minimizzare i fatti e ottenere delle pene irrisorie con tutti i benefici di legge.
Privo della facondia dei meridionali, Esengrini era tuttavia un ottimo avvocato, degno della Corte d’Assise, dove in verità aveva figurato più volte in processi di grande importanza. Se ne stava in provincia solo per amore della tranquillità e per una certa pigrizia signorile, che era uno degli aspetti più salienti del suo carattere. Il dottor Sciancalepre lo ammirava incondizionatamente, e quando un suo verbale veniva discusso e sviscerato dall’avvocato Esengrini, sapeva che nessuna delle sue sottigliezze sarebbe passata inosservata.
Il prestigio personale dell’avvocato si estendeva dalla polizia ai magistrati, ai colleghi, al pubblico più minuto. E vi contribuiva la sua figura alta e vigorosa, il suo volto pallido e severo coi baffi un po’ all’antica e le profonde occhiaie, ma innanzitutto la sua sicurezza nell’applicare ad ogni fatto delittuoso la più esatta e indiscutibile figura giuridica. La sua autorità cessava soltanto davanti alla moglie, di vent’anni più giovane di lui, che lo trattava come un vecchio zio. La figlia, che aveva appena compiuto i quindici anni, lo considerava più nonno che padre.
Il dottor Sciancalepre, appena entrato nel suo ufficio di ritorno dalla Pretura, trovò una telefonata che lo chiamava al capoluogo di provincia per conferire col Questore. Telefonò alla moglie la sua amara rinuncia agli spaghetti quotidiani e partì. Di ritorno al Commissariato, nelle prime ore del pomeriggio, vi trovò l’avvocato Esengrini che lo aspettava da mezz’ora. Ne rimase stupito. Era la prima volta che l’avvocato metteva piede nel suo ufficio. Si pose immediatamente alla scrivania, comprendendo che doveva trattarsi di qualche cosa di importante e di personale, e si dispose ad ascoltarlo con deferenza.
L’avvocato Esengrini si accertò con un’occhiata che la porta d’entrata fosse chiusa, poi chinandosi sulla scrivania e mostrando improvvisamente i segni di uno smarrimento che il dottor Sciancalepre non avrebbe mai creduto possibile su quel viso imperatorio, incominciò:
«Dottore, sono davanti a un fatto grave, gravissimo, che mi sconvolge, che altera tutta la mia vita.»
Parole grosse, pensò il Commissario, e nuove, inconsuete per un uomo freddo e restio a confidenze come l’avvocato Esengrini.
Dopo una pausa l’avvocato continuò, abbassando ancora di più la voce e piegando il viso fino al piano del tavolo:
«Mia moglie, dottore! Mia moglie è fuggita di casa.»
Si raddrizzò sospirando profondamente e guardò il Commissario come per chiedergli conto di quella fuga.
«Sua moglie! Ma come è possibile! La signora Giulia! E perché doveva fuggire, con un marito come lei, con una figlia, con una casa come la sua? Ma che diavolo mi andate raccontando, avvocato! Scusate, scusate tanto, ma proprio non ci credo.»
«Fuggita. Scomparsa» riprese l’avvocato in un calando tragico. «Venga a vedere, venga!»
Il Commissario lo seguì. Arrivarono, nella vecchia strada nobile del borgo, al portone enorme dove spiccava in alto la targa di smalto dell’avvocato Esengrini. L’avvocato aprì il portello, piegò il capo ed entrò seguito dal Commissario.
Andarono direttamente nella camera da letto della signora Giulia, adiacente a quella del marito. Tutto era in disordine. Non il solito disordine lasciato dai ladri, ma un disordine meno precipitoso e limitato a due cassetti, al letto cosparso di biancheria pulita, all’armadio aperto e ad una grossa valigia semivuota, forse abbandonata per un’altra più piccola.
«Appena tornato dal processo di stamattina» cominciò l’avvocato «andai nello studio per dare alcuni ordini alla dattilografa; poi, essendo mezzogiorno, venni subito in casa perché oggi è giovedì, il giorno in cui mia moglie, come lei sa, va a Milano col treno delle due per far visita alla nostra figlia che abbiamo in collegio dalle Orsoline. Il giovedì in casa mia si mangia presto ormai da un anno, perché mia moglie deve arrivare in tempo al treno. Da quando la nostra Emilia è nel collegio dove da ragazza è stata anche mia moglie, è incominciata questa andata settimanale a Milano che a me è sempre piaciuta poco, ma che non ho mai osato proibire. Mia moglie parte alle 14 e torna alle 19,30. Fa visita alla figlia, va dalla sarta, dalla modista e se avanza tempo dà un’occhiata alle vetrine di via Montenapoleone. Stamattina, appena me ne sono andato in Pretura, mia moglie ha fatto le valigie. Due valigie: una grande e una piccolina. Dal portone verso strada non è uscita, perché Demetrio, il mio giardiniere, che quando sono assente dallo studio in certo modo mi sostituisce, l’avrebbe vista passare. Con quelle valigie non poteva andarsene a piedi. Avrebbe dovuto far venire un taxi, caricare i bagagli. Demetrio che solitamente sta nell’anticamera, l’avrebbe notata dalla porta a vetri. Debbo quindi ritenere che mia moglie sia uscita in cortile con le valigie e abbia disceso la scala che porta nel parco, dove qualcuno l’aspettava. Ha attraversato il parco, è uscita dal cancello verso la campagna ed è salita su una macchina. Ho già accertato che col treno non è partita. Era evidentemente una fuga preordinata, perché stanotte dalla mia camera l’ho sentita muoversi continuamente, aprire cassetti, muovere sedie. Era agitata. E l’ho notato anche stamattina prima di andare in ufficio. Ma ormai da qualche mese il giovedì è una giornata eccezionale. Mia moglie deve partire, ha da ricordare le commissioni delle amiche per Milano, da preparare il pacco dei dolci per le suore, le cose richieste dalla figlia e chissà che altro.»
Il Commissario si guardava intorno scuotendo la testa, e quando l’avvocato ebbe finito, gli domandò a bruciapelo:
«Che altro?»
L’avvocato lo precedette nel salotto, lo fece sedere in una poltrona e con un diverso tono di voce, più basso e quasi vergognoso, aggiunse:
«Dottore, lei è meridionale e certe cose le può capire meglio di me. Non posso dire di essere in quella certa condizione, ma certo ci sono vicino. Fra me e mia moglie vent’anni di differenza hanno scavato in questi ultimi tempi un solco profondo. Ha notato che le nostre camere sono adiacenti ma separate? Da più di un anno è così. La signora Giulia non sopporta più il letto matrimoniale. Dice che per me è una succursale dello studio, perché leggo le copie dei processi fino a tardi, prendo appunti, sfoglio delle riviste giuridiche. Ho sessant’anni dottore, e sono un uomo come tutti gli altri che hanno sessant’anni; ma mia moglie ne ha, per la precisione, trent’otto...»
«E allora?» chiese Sciancalepre.
«Allora quattro mesi fa l’ho fatta pedinare, a Milano, al giovedì. E mi è risultato qualche cosa. Poco, in verità. Il brigadiere Arcidiacono, quello che fu alle sue dipendenze qui e che da sei mesi è alla Questura di Milano, mi ha fatto questo piacere. L’ha pedinata e mi ha riferito che per ben due giovedì di seguito mia moglie, appena arrivata a Milano, in mezz’ora ha sbrigato la visita alla figlia presso le Orsoline, poi è andata a sedersi nel separé di una piccola pasticceria di corso Monforte dove era ad aspettarla, sa chi? L’ingegner Fumagalli. Quel giovane ingegnere che un anno fa venne qui per i lavori di ampliamento del porto e che era entrato nel nostro ambiente. Ricorda? L’ha avuto anche lei in casa sua. Era un po’ il cocco delle nostre signore. Sua moglie l’ha invitato a mangiare i tortellini. La signora del Pretore gli voleva far sposare la figlia. E la figlia del Commendator Binacchi, la maggiore, pareva che l’avesse attirato col suo mezzo miliardo di dote.»
«Ricordo, ricordo» diceva Sciancalepre ad occhi chiusi ed annuendo lentamente con la testa. E andava ricercando nella memoria il giovane, con la lente di ingrandimento del suo intuito poliziesco.
«Sicuro! Proprio l’ingegner Fumagalli. Prendevano il tè, chiacchieravano. Una volta lui le prese anche la mano, delicatamente.»
«E poi?» chiese il Commissario.
«Poi niente. Al secondo pedinamento, dopo il tè si lasciarono e mia moglie prese un taxi. Il brigadiere Arcidiacono ne prese un altro e la seguì. In viale Premuda il taxi di mia moglie si fermò. Anche il brigadiere si fermò, ma proprio in quel momento accadeva un tentativo di rapina in un piccolo negozio di oreficeria. Il brigadiere dovette intervenire e perse di vista mia moglie. Tutto qui. Non ho più voluto continuare nelle indagini. Intendevo aspettare la fine dell’anno scolastico di mia figlia per togliere a mia moglie il pretesto delle gite settimanali a Milano. E speravo anche, nell’estate, di portarla a fare una lunga crociera e di operarne la riconquista. L’illusione di tutti i mariti disgraziati.»
«Avvocato» attaccò il Commissario «da questo momento incomincio le indagini per il rintraccio. Ma ho bisogno di una querela.»
«Già, la querela. Vediamo un po’ che querela mi conviene fare. Querela... per abbandono del tetto coniugale. Non le pare? È l’unico reato contemplabile in questo caso. Gliela mando prima di sera.»
«Domani» disse il Commissario «vado a Milano in cerca dell’ingegner Fumagalli. Vedremo che cosa ha da dirmi.»
Si alzarono in piedi. Il dottor Sciancalepre volle essere accompagnato nel parco, fino al cancello, lungo il percorso che la signora Giulia doveva aver compiuto nella prima parte della sua fuga. Si rese conto dell’ubicazione della casa e del giardino che già conosceva, ma con altri occhi. Rilevò che il vecchio palazzo Zaccagni-Lamberti, abitato dagli Esengrini, aveva una facciata allineata con le altre lungo la via Lamberti, sulla quale si affacciava il portone e poco più avanti la porta dello studio, con due finestre munite di inferriata che rispondevano allo studio e all’anticamera. Dall’anticamera un breve corridoio metteva ad un corridoio più vasto nel quale si aprivano tre stanze adibite ad archivio, con le finestre sul cortile interno. In fondo al corridoio una porta robusta metteva all’abitazione dell’avvocato, disposta su due piani in un corpo di fabbricato avanzato per una ventina di metri verso il parco, al quale si affacciava con un ampio balcone. Di fronte a codesto corpo avanzato se ne staccava un altro parallelo, pure congiunto alla linea di case della via Lamberti. In quell’ala abitavano, fino a dieci anni prima, i genitori della signora Giulia. Alla loro morte l’appartamento era stato chiuso in attesa di essere rinnovato, forse quando l’unica figlia degli Esengrini si sarebbe sposata. Tra i due corpi avanzati c’era il cortile, con una vasca nel mezzo, delimitato verso il parco da una balaustra nella quale si apriva l’accesso ad una doppia scala che discendeva nel parco sottostante, disteso per circa duecento metri fino all’alta cancellata che lo separava da una strada campestre. Il parco era cinto ai lati da alte muraglie, che lo dividevano dai parchi adiacenti della casa Ravizza e della casa Sormani.
Nell’andar via, passando attraverso lo studio, il Commissario invitò con sé il giardiniere Demetrio. Arrivato nel suo ufficio lo interrogò brevemente. Si accertò che quella mattina la signora Giulia non era uscita né dallo studio né dal portone in via Lamberti. Seppe che la moglie del giardiniere, andata quella mattina come al solito in casa Esengrini per aiutare nelle faccende domestiche, era stata rimandata via quasi subito col pretesto che i letti erano già stati rifatti dalla signora e che per le pulizie sarebbe potuta tornare più tardi. Dopo le undici era quindi da collocare l’uscita della signora Giulia dal cancello in fondo al parco, la cui chiave era solitamente custodita al pianterreno di una vecchia rimessa appoggiata al muro di cinta. Come l’avvocato aveva già accertato, la chiave era stata lasciata nella toppa verso l’interno e il cancello semplicemente accostato. Il tempo era secco da qualche settimana e il Commissario credette inutile andare a rilevare eventuali tracce di pneumatici sulla strada campestre che fiancheggiava la cancellata, anche perché era una strada dove passavano almeno dieci macchine al giorno dirette verso la riva del lago.

II

La mattina dopo il dottor Sciancalepre prese il treno per Milano. Rannicchiato in fondo a uno scompartimento vuoto, pensava alla signora Giulia e cercava di immedesimarsi in lei.
Gli occhiali gli scivolarono sul grosso naso, simile per colore e forma a un maccherone cotto; i suoi occhi, attratti dai quadretti pubblicitari della prima classe, vagavano sul portapacchi, scendevano sul divano, passavano dal corridoio al finestrino guidando in ogni direzione, come un cannone, il naso sensibilissimo che pareva cercare, su quell’imbottitura tante volte premuta dalle morbide forme della signora Giulia, il segreto della sua scomparsa.
Arrivato a Milano andò in cerca dell’ingegnere Fumagalli e lo trovò nel suo ufficio, in un palazzo del centro.
L’ingegnere riconobbe subito il Commissario e lo ricevette cordialmente. Ricordava i tortellini di sua moglie e le serate dell’anno prima fra quel nugolo di belle signore di provincia. Il Commissario comprese subito che il Fumagalli era estraneo alla scomparsa della signora Giulia, ma tuttavia lo interrogò a fondo. Il giovane professionista non ebbe difficoltà ad ammettere di avere incontrato alcune volte la signora a Milano, anzi precisò che, incontratala una prima volta alla stazione circa un anno avanti, l’aveva invitata a prendere un tè, e che da allora, per parecchi giovedì si erano dato appuntamento in una piccola pasticceria di corso Monforte. I loro rapporti erano stati sempre corretti: non occorreva neppure dirlo.
«Mi piaceva la signora Giulia» ammise l’ingegner Fumagalli. «Avevo fatto una mezza cotta per lei, benché avesse dieci anni più di me. Glielo confesso signor Commissario, ero quasi innamorato. Ma la signora Giulia mi trattava come un ragazzo. Si confidava con me, qualche volta mi faceva una mezza carezza sul viso, così» e fece una carezza al Commissario, «mi diceva che la sua vita era triste, che non amava il marito, che il marito la trascurava. Quando le profferivo la mia devozione, il mio amore, mi sorrideva tristemente. Finalmente alle mie insistenze oppose il fatto di essere innamorata di un altro uomo, che però non la riamava...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Piero Chiara
  3. I giovedì della signora Giulia
  4. Introduzione - Lo stallo perfetto di Mauro Novelli
  5. Cronologia
  6. Bibliografia critica essenziale
  7. Nota al testo
  8. I GIOVEDÌ DELLA SIGNORA GIULIA
  9. Copyright