Racconti dell'età del jazz
  1. 364 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Dedicati agli amori e alle avventure dei giovani degli anni Venti, spesso ispirati a episodi autobiografici, questi racconti, sorretti da una scrittura tutta edonismo e invenzione, rivelano qualità narrative straordinarie.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804471141
eBook ISBN
9788852039621

Racconti dell’età del jazz

IL FANNULLONE

Titolo originale: The Jelly-bean
Traduzione di Giorgio Monicelli

Questa è una storia del Sud, ambientata a Tarleton, una cittadina della Georgia. Sono molto affezionato a Tarleton, eppure, non so come, quando scrivo una storia su questa città, ricevo lettere minatorie da ogni angolo del Sud. Il fannullone, uscito sul «Metropolitan», ha avuto la sua parte di minacce.
Questo racconto fu scritto in circostanze piuttosto strane subito dopo la pubblicazione del mio primo romanzo; inoltre, in esso per la prima volta mi sono servito di un collaboratore. Infatti, dato che non riuscivo a stendere l’episodio dei dadi, l’ho passato a mia moglie, che, da brava ragazza del Sud, era un’esperta quanto a tecniche e terminologie relative a quel particolarissimo passatempo.

I
Jim Powell era un fannullone.1 Per quanto io desideri renderlo un personaggio affascinante, sento che sarebbe poco scrupoloso da parte mia illudervi su questo punto. Egli era per il novantanove e tre quarti per cento un fannullone nato e integrale, ed era mollemente cresciuto per tutta la durata della stagione dei fannulloni, che è poi ogni stagione, laggiù nella terra dei fannulloni, molto al di sotto della linea Mason-Dixon.2
Ora, se date del fannullone a uno di Memphis, molto probabilmente estrarrà dalla tasca posteriore dei pantaloni un lungo e resistente tratto di corda per impiccarvi al vicino palo del telegrafo. Se accusate uno di New Orleans di essere un fannullone, egli si metterà a ridere, domandandovi chi sarà l’uomo che accompagnerà la vostra ragazza al ballo del Mardi Gras. Quel particolare tratto di terra dei fannulloni, che ha dato la luce al protagonista di questo racconto, occupa più o meno un punto intermedio fra Memphis e New Orleans; è una cittadina di quarantamila abitanti, che da quarantamila anni sonnecchia nella Georgia meridionale, agitandosi ogni tanto nel dormiveglia e mormorando qualcosa in merito a una guerra che fu combattuta una volta, non si sa bene dove, e che ogni altro ha già dimenticato da gran tempo.
Jim era un fannullone. Lo ripeto, perché l’espressione ha un suono così piacevole – un po’ come l’inizio di una fiaba – quasi che Jim fosse simpatico. In certo qual modo, mi fornisce di lui un ritratto dalla faccia rotonda e stimolante l’appetito, con ogni specie di foglie e di verdure che gli spuntano di sotto il berretto. Ma Jim era lungo e sottile, e il suo corpo era inclinato in avanti per l’abitudine di star piegato sui tavoli da biliardo; nel Nord, dove non si fanno tante discriminazioni, lo si sarebbe chiamato uno sfaticato. Jelly-bean, o fannullone, è il termine diffuso in tutta la non disciolta Confederazione per indicare chi passa la vita a coniugare il verbo oziare alla prima persona singolare: io ozio, ho oziato, ozierò.
Jim era nato in una casa bianca su di un angolo verde. Quattro colonne provate dalle intemperie ornavano la facciata principale, mentre ampi graticci di legno chiudevano sul retro un prato fiorito smagliante di sole. In origine gli abitanti della casa bianca erano stati i proprietari del terreno circostante e anche delle terre attigue a questo, ma quel tempo era così lontano, che perfino il padre di Jim ne conservava il ricordo più vago. Egli non aveva mai attribuito molta importanza a quel particolare: infatti, quando si ritrovò in punto di morte per un colpo di pistola buscato in una rissa, si dimenticò perfino di dirlo al piccolo Jim, che aveva allora cinque anni e tremava come un gattino spaurito. La casa bianca divenne una pensione diretta da una signora di Macon dalle labbra sottili, che Jim chiamava zia Mamie e detestava con tutta l’anima.
A quindici anni, Jim andò alle superiori; aveva una zazzera nera e arruffata e temeva le ragazze. Odiava la sua casa, dove quattro donne e un vecchio si dilungavano in interminabili ciarle, da un’estate all’altra, sugli appezzamenti di terreno appartenenti in origine alla tenuta Powell o sui fiori che sarebbero spuntati nel loro giardino. Talvolta i genitori di ragazze cittadine, credendo di ravvisare negli occhi e nei capelli neri di Jim una rassomiglianza con i tratti materni, lo invitavano alle loro feste, ma in quelle occasioni lui si intimidiva e preferiva di molo restarsene nel garage di Tilly, seduto su un asse d’automobile, a dondolarsi le ossa o a esplorarsi interminabilmente i denti con un lungo fuscello. Si guadagnava qualche soldo eseguendo lavoretti d’ogni genere ed era per questo che aveva smesso di accettare inviti. Alla terza festicciola a cui aveva partecipato, la piccola Marjorie Haight era stata tanto indiscreta da mormorare, in modo da essere udita da lui, che Jim a volte sbrigava le commissioni del droghiere. Così, invece del two-step e della polka, Jim aveva imparato a lanciare i dadi facendo uscire i numeri che voleva lui, e intanto ascoltava le belle imprese compiute dai giocatori d’azzardo del circondario negli ultimi cinquant’anni.
A diciotto anni, dopo lo scoppio della guerra, si arruolò per un anno nell’arsenale di Charleston, come mozzo, a lucidare ottoni. Quindi, per amor di varietà, si trasferì nel Nord a lucidare ottoni, per un altro anno, nell’arsenale di Brooklyn.
Finita la guerra, Jim tornò a casa. Aveva ventun anni e portava pantaloni troppo corti e attillati e scarpe strette e appuntite, con tanto di fibbia. La sua cravatta mostrava un ardito accostamento di rosa e porpora, fusi insieme in mirabili arabeschi, e sopra di essa si notavano due sbiaditi occhi celesti, che facevano pensare a una stoffa antica esposta troppo lungamente al sole.
Nel crepuscolo di una sera di aprile, in cui un molle grigiore si era diffuso lentamente lungo i campi di cotone e sulla città afosa, lo si vide – sagoma scura dai contorni indefiniti – appoggiato contro uno steccato, gli occhi fissi sull’alone della luna sopra le luci di Jackson Street. Fischiettava, assorto in un problema che occupava la sua mente da un’ora intera. Il fannullone era stato invitato a una festa.
In passato, al tempo in cui tutti i ragazzi hanno in odio le ragazze, Darrow e Jim sedevano a scuola nello stesso banco. Ma, mentre le aspirazioni mondane di Jim erano morte nel sudiciume del garage, Clark si era alternativamente innamorato e disamorato, aveva frequentato l’università, preso a bere, per poi rinunciarvi, e, per farvela breve, era diventato uno dei più ricercati bellimbusti della città. Ciononostante, Clark e Jim avevano conservato un’amicizia che, sebbene discontinua, aveva basi molto solide. Quel pomeriggio la vecchia Ford di Clark si era accostata al marciapiede e si era fermata accanto a Jim; inaspettatamente, Clark lo aveva invitato a una festicciola al circolo campestre. L’impulso che lo aveva spinto a far questo, non era meno bizzarro di quello che aveva indotto Jim ad accettare: probabilmente, quest’ultimo aveva agito sotto lo stimolo di un tedio inespresso, misto a un semisgomento spirito d’avventura. E ora Jim stava meditando su tutta la faccenda.
Si mise a canticchiare, battendo oziosamente il lungo piede sul lastrone di cemento, finché questo non cominciò a sobbalzare in armonia col motivo accennato a voce bassa e roca:
One mile from Home in Jelly-bean town
Lives Jeanne, the Jelly-bean Queen.
She loves her dice and treats’em nice
No dice would treat her mean.3
Jim s’interruppe e comunicò al marciapiede un ritmo galoppante.
«Accidentaccio!» mormorò a mezza voce.
Ci sarebbero stati tutti, la vecchia gente, quella a cui, grazie alla casa bianca, venduta molto tempo addietro, e al ritratto dell’ufficiale in grigio sulla mensola del caminetto, Jim avrebbe dovuto appartenere di diritto. Ma quella gente si era chiusa a poco a poco in una piccola cerchia, che si era andata sempre più restringendo, a mano a mano che le gonne delle ragazze si allungavano, e i pantaloni dei ragazzi scendevano alle caviglie. E agli occhi di quella società di nomi di battesimo e di morti idilli puerili, Jim era un estraneo, un esponente dei poor whites, i bianchi poveri. Gli uomini lo conoscevano quasi tutti, e avevano verso di lui un atteggiamento di degnazione. Egli si portava due dita al cappello per salutare tre o quattro ragazze, e questo era tutto.
Quando il crepuscolo si fu addensato in un’azzurra cornice intorno alla luna, egli si avviò per l’afosa città, gradevolmente stimolante, verso Jackson Street. I negozi stavano chiudendo e gli ultimi clienti sciamavano verso casa, quasi trasportati dal roteare trasognato di una giostra in lento moto. Poco più avanti, una fiera all’aperto formava un vicolo sfolgorante di baracconi multicolori, e immetteva nella notte un’armonia di suoni: una danza orientale su di un organetto, una malinconica trombetta di fronte al baraccone degli orrori, un’allegra esecuzione di Back Home in Tennessee4 su di una pianola.
Il fannullone si fermò in un negozio d’abbigliamento per acquistare un colletto. Dopodiché bighellonò verso il bar Soda di Sam, dove trovò le solite tre o quattro macchine di una sera d’estate parcheggiate di fronte al locale, con i negretti che andavano e venivano trafelati, portando gelati e limonate.
«Salve, Jim.» Era una voce proprio al suo fianco: Joe Ewing seduto in un’automobile con Marylyn Wade, mentre Nancy Lamar e uno sconosciuto stavano sul sedile posteriore.
Il fannullone si affrettò a toccarsi il cappello.
«Ciao, Ben...» e poi, dopo una pausa quasi impercettibile: «Come va?».
E proseguì verso il garage, dove aveva una cameretta sopra il locale. Il suo “Come va?” era diretto principalmente a Nancy Lamar, alla quale non parlava da almeno quindici anni.
Nancy aveva una bocca come il ricordo di un bacio, occhi pieni d’ombre e capelli neri dai riflessi azzurri, che ella aveva ereditato dalla madre, nativa di Budapest. Jim la incontrava spesso per via, mentre lei se ne andava a spasso a mo’ di un maschietto, con le mani in tasca, e Jim sapeva che, insieme con l’amica inseparabile, Sally Carrol Hopper, aveva lasciato tutta una scia di cuori spezzati, che andava da Atlanta a New Orleans.
Per un fuggevole istante, Jim desiderò saper ballare. Poi scoppiò a ridere, e, nel raggiungere la sua porta, si mise a cantare sottovoce:
Her Jelly Roll can twist your soul,
Her eyes are big and brown,
She’s the Queen of the Queens of the Jelly-beans...
My Jeanne of Jelly-bean Town.5
II
Alle nove e mezzo, Jim e Clark si trovarono davanti al bar Soda e si avviarono verso il circolo campestre con la Ford di Clark.
«Jim,» domandò Clark con tono indifferente, mentre la macchina rombava nella notte profumata di gelsomino «tu come te la cavi?»
Il fannullone stette un attimo soprappensiero.
«Bene,» disse infine «ho una camera sopra il garage di Tilly. Lo aiuto a riparare le macchine durante il pomeriggio e lui me la dà gratis. Alle volte guido uno dei suoi taxi e rimedio qualche ghello. Ma, se devo dirti la verità, ne ho piene le tasche di questa vita monotona.»
«E questo è tutto?»
«Be’, quando c’è molto lavoro, lo aiuto tutto il giorno – al sabato, di solito – inoltre posso contare su una importante fonte di reddito, di cui generalmente non faccio parola. Forse non ti ricordi che sono, si può dire, il miglior tiratore di dadi di questa città. Ormai mi permettono di lanciarli soltanto da un bossolo, perché se solo tocco con la mano una coppia di dadi, questi rotolano via a mio favore.»
Clark sorrise con approvazione.
«Io non sono mai riuscito a buttarli in modo da far fare loro quello che volevo. Vorrei vederti giocare con Nancy Lamar, uno di questi giorni, e portarle via tutti i soldi che ha in borsetta. Lei gioca a dadi con i ragazzi e di solito perde più di quanto il padre possa permettersi di darle. Ho saputo per caso che è stata costretta a vendere un bellissimo anello, il mese scorso, per pagare un debito di gioco.»
Il fannullone, prudentemente, non disse nulla.
«La casa bianca di Elm Street è ancora tua?»
Jim scosse il capo.
«Venduta. E anche bene, dato che non si trova più in una zona elegante della città. Su consiglio dell’avvocato, ho comprato col ricavato delle obbligazioni Liberty. Ma la zia Mamie è uscita di senno, e così tutti gli interessi se ne vanno per mantenerla presso la casa di cura di Great...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Racconti dell'età del jazz
  3. Introduzione
  4. Bibliografia
  5. RACCONTI DELL’ETÀ DEL JAZZ
  6. Copyright