Io che amo solo te
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Io che amo solo te

  1. 264 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Io che amo solo te

Informazioni su questo libro

Ninella ha cinquant'anni e un grande amore, don Mimì, con cui non si è potuta sposare. Ma il destino le fa un regalo inaspettato: sua figlia si fidanza proprio con il figlio dell'uomo che ha sempre sognato, e i due ragazzi decidono di convolare a nozze. Il matrimonio di Chiara e Damiano si trasforma così in un vero e proprio evento per Polignano a Mare, paese bianco e arroccato in uno degli angoli più magici della Puglia.
Gli occhi dei 287 invitati non saranno però puntati sugli sposi, ma sui loro genitori. Ninella è la sarta più bella del paese, e da quando è rimasta vedova sta sempre in casa a cucire, cucinare e guardare il mare. In realtà è un vulcano solo temporaneamente spento. Don Mimì, dietro i baffi e i silenzi, nasconde l'inquieto desiderio di riavere quella donna solo per sé. A sorvegliare la situazione c'è sua moglie, la futura suocera di Chiara, che a Polignano chiamano la "First Lady". È lei a controllare e a gestire una festa di matrimonio preparata da mesi e che tutti vogliono indimenticabile: dal bouquet "semicascante" della sposa al gran buffet di antipasti, dall'assegnazione dei posti alle bomboniere - passando per l'Ave Maria -, nulla è lasciato al caso. Ma è un attimo e la situazione può precipitare nel caos, grazie a un susseguirsi di colpi di scena e a una serie di personaggi esilaranti: una diciassettenne che deve perdere cinque chili e la verginità; un testimone gay che si presenta con una finta fidanzata; una zia che da quando si è trasferita in Veneto dice "voi meridionali" e un truccatore che obbliga la sposa a non commuoversi per non rovinare il make-up.
Io che amo solo te è un romanzo sulle gioie segrete, sull'arte di attendere e sulle paure dell'ultimo minuto. Tra ironia e commozione, quello di Luca Bianchini è un avventuroso viaggio sull'amore, che arriva - o ritorna - quando meno te lo aspetti, ti rimette in gioco e ti porta dove decide lui. Come il maestrale, che accompagna i tre giorni di questa storia, sullo sfondo di una Puglia dove regnano ancora antichi valori e tanta bellezza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804630463
eBook ISBN
9788852038600

VENERDÌ

1

Il primo ad arrivare fu l’ospite meno atteso.
Il maestrale si presentò con un giorno di anticipo, senza preavviso e senza regalo. Ninella lo aveva sentito dal letto ed era rimasta immobile, attonita. Un po’ come quando ti svegli e senti che ti è venuta la febbre. Allora ti giri dall’altra parte, ti metti in posizione fetale, e speri che i brividi ti lascino in pace. Ma lei conosceva troppo bene il rumore delle sue persiane nei giorni in cui arrivava quel vento. Fastidioso, insistente, una campana che non smette mai di suonare. Si stava avvicinando il grande appuntamento, con il suo carico di sogni e parenti.
Ninella non pensò all’abito bianco di Chiara, ma al suo. La parte bassa avrebbe spiccato il volo scoprendole le gambe, e finalmente tutti si sarebbero accorti che non aveva la cellulite. O almeno, a lei non pareva di averne, pur essendo un po’ sovrappeso. Sicuramente ne aveva meno della consuocera, e questo era più che sufficiente per allontanare la paura.
Per lei il maestrale era la peggiore sventura che si potesse abbattere su un matrimonio. Quasi come una bomboniera sbagliata, due cugini che restano senza tavolo, o due cozze che restano sullo stomaco. Perché nelle settimane successive gli invitati avrebbero raccontato tutto iniziando con: “Se non ci fosse stato il vento”, dedicando meno parole alla sala, alle rose, alla sposa e alla casa.
Mancava ancora un giorno, e il maestrale a volte dura solo ventiquattr’ore. Se però aveva deciso di farsi sentire proprio alla vigilia delle nozze di sua figlia, non li avrebbe lasciati fino a quando l’ultimo parente avesse finito di mangiare la torta zebrata.
Si alzò dal letto e, prima di affacciarsi a vedere il mare – voleva ritardare quel momento – si avvicinò allo specchio. Il volto tondo, il décolleté generoso, la bocca carnosa di chi sa baciare. Davanti alla sua immagine riflessa, si sentì quasi in colpa per il sorriso che le era comparso mentre si accarezzava la testa. Stava per farsi i colpi di sole.
Li aveva desiderati per mesi, i colpi di sole, da quando li aveva visti a sua cognata, che la faceva sentire ogni volta una provinciale. Lei che andava alla Spa, aveva una foto con Mara Venier e diceva frasi come “dovresti provare lo yoga” e “perché non hai ancora il Bimby?”.
«Ma venatinn’» mormorava Ninella. Ora che però aveva trovato il coraggio di cambiare tono al suo castano monocorde, il vento le scombinava i piani. Per fortuna nulla avrebbe potuto fermare la lacca di Lucia Coiffeur!
Guardò il mare della sua Polignano e provò a intonare: «Volare, oh-oh, cantare… oh-oh-oh-oh!». Dopo un momento di euforia, venne assalita dalla commozione. Sembrava schizofrenica.
Se l’avessero vista le sue vicine, si sarebbero sorprese nell’osservare una donna tanto sicura di sé in balia dei nervi. Ma alla mamma della sposa ogni cosa è concessa, specialmente se vedova. Spalancò definitivamente le persiane, le fissò ai lati, si lasciò investire dalla luce e riprese a cantare.
Si preparò cercando di fare piano, per non svegliare le figlie, mentre imprecava sottovoce contro tutto e tutti: «Ma cazzo!» diceva sempre. Se la prese pure con le previsioni che avevano annunciato “mari calmi o leggermente mossi”. E questo vi sembra leggermente mosso?
Prima di uscire, vide il capro espiatorio contro cui sfogare la rabbia che le stava montando: il piatto della Côte d’Azur appeso al muro. Uno di quegli oggetti ricordo che stava lì da anni e che non era mai riuscita a digerire, né a far sparire, con il bordino d’oro e le immagini stilizzate di Menton, Cannes, Nice e Antibes. In mezzo, un termometro a mercurio che non si era mai mosso dai dodici gradi. Conosceva ogni dettaglio di quel piatto, perché sua cognata – che per tutti era zia Dora – ogni volta glielo indicava dicendo: «Quando andrai in Costa Azzurra devi sentire che buona la ratatouille».
Ninella chiuse tutte le porte, si rintanò in un angolo, staccò il piatto dal muro e lo lasciò cadere a terra. Sentire quel rumore le diede un sollievo istantaneo e due nuovi grattacapi: cosa avrebbe detto a zia Dora se si fosse accorta che il piatto non c’era più? Il mercurio è tossico?
Acchiappò quella goccia con non poche difficoltà e provò a disperderla nel lavandino sentendosi subito in colpa. Non raccolse nemmeno i cocci di Menton e Antibes. Si tirò indietro i capelli, indossò un cappello che secondo lei la slanciava, e in un attimo si trovò in strada. Il vento non sembrava poi tanto forte, e il cielo era così azzurro da rassicurarla. La rassicurava meno la signora Labbate, che la spiava da dietro le persiane, e che sicuramente un po’ gliel’aveva tirata perché aveva ricevuto solo la partecipazione. Lei se ne fregava e si difendeva con la determinazione che non l’aveva mai abbandonata. Tutte le volte che era stata sul punto di sprofondare, si era sempre aggrappata alla sua casa.
La casa era l’unica certezza che aveva: era in pietra, ed era a picco sul mare. Da lì si poteva volare o farla finita. Bastava un salto e nessuno avrebbe saputo più nulla di lei. Ma Ninella si era sempre arresa alla vita, e ora, a cinquant’anni appena compiuti, ce l’aveva quasi fatta a essere felice.
Raggiunse piazza dell’Orologio a passo spedito, cercando di calpestare tutte le righe che delimitavano le chianche dei vicoli. Quel gioco un po’ infantile era il suo modo di evitare lo sguardo dei passanti.
La piazza era di un bianco splendente, interrotto solo dai tetti e dal cielo. Entrò nella chiesa Matrice, che negli anni era diventata la sua seconda dimora. Se in casa c’era troppo rumore, lei si rifugiava in chiesa. Stava lì in silenzio, senza pregare né pensare. Si svuotava semplicemente la testa, divertendosi all’idea di essere scambiata per una persona devota. Con san Vito aveva la confidenza che si può avere con certi sconosciuti. Ogni tanto gli parlava e si raccomandava a lui, senza esserne troppo convinta. Ma quando si è soli è più facile parlare con i santi.
Si mise a sedere e cominciò a brontolare che lui non gliela doveva fare, questa cosa del vento. Non si era mai persa una processione e una volta aveva partecipato anche con 37.5 di temperatura, che per tanti non è febbre ma per lei sì. Per questo un po’ se lo aspettava, un piccolo miracolo, e non le sembrava di chiedere chissà che.
Mentre usciva, davanti al portone su cui si soffermava ogni volta da quanto era bello, incontrò la signora Labbate, che forse l’aveva seguita e non perse occasione per ribadire: «Proprio oggi doveva alzarsi, sto vento, proprio oggi. Ho sentito che dura una settimana».
Ninella fece le corna di nascosto e non disse nulla. Poco dopo, però, fu costretta ad affrontare la questione perché tutte le persone che incontrava non facevano altro che dire: «Che sfortuna, proprio oggi». Neanche nei Malavoglia succedeva una cosa del genere, che la gente ti faceva le condoglianze per una giornata così.
In cuor suo sapeva che il maestrale non era solo il vento che spazza via tutto e non vuole sentire ragioni. Era l’ultima prova da superare.
Le lacrime fecero capolino ma le scacciò con le mani e la volontà, esercizio che ormai le riusciva senza sforzi. Tornò a casa compiendo un giro strano fra i vicoli, quasi a far perdere le sue tracce.
Aprì la porta facendo meno rumore possibile. Le sue figlie ancora dormivano, ciascuna nella propria camera, in quel piccolo mondo che era un saliscendi di scale e stanzette a eccezione di una: la cucina. Grande, piena di luce, di piatti e di mare.
Vista da una barca, sembrava uno scoglio da cui tuffarsi. Più di una volta Ninella aveva fatto entrare in casa i turisti curiosi. «Very beautiful» le dicevano sempre. Be-a-u-ti-ful. «Ma mica è un trullo!» mormorava lei quando andavano via.
Salì in camera e le sembrò di ritrovare suo marito nella stessa posizione in cui lo aveva visto dormire per anni, con il sorriso sul volto e le mani sotto il cuscino. Quel venerdì, però, non c’era niente da ridere. Si tuffò nel letto all’indietro come una bambina. Con gli occhi incollati al soffitto, pensò che mancava ancora un giorno al grande passo. E in un giorno potevano accadere tante cose.

2

Era l’unico a saperlo, che si sarebbe alzato il vento.
Gliel’aveva annunciato un pescatore qualche giorno prima, e don Mimì gli aveva creduto. Lui sempre diffidente con tutti, si fidava ciecamente dei pescatori. Chi conosce il mare vede meglio le cose, pensava, e ne ebbe un’ulteriore conferma. Per lui, il maestrale era più un ammonimento che una minaccia. Una di quelle ramanzine che ti fanno i padri solo perché ti vogliono bene.
Il pescatore gli aveva detto che sarebbe durato tre giorni, e li avrebbe lasciati soltanto dopo la festa. Almeno ci sarebbe stato il sole, e per la festa di un figlio non è cosa da poco. Le foto avrebbero avuto una bella luce ed è quello che rimane, no, dei matrimoni? Le foto. Anche i rancori a un certo punto spariscono, ma l’album delle foto sarà sempre pronto per l’esibizione e il ricordo, guarda com’eravamo giovani, guarda la zia qui com’era conciata.
Don Mimì si alzò dal letto sapendo che sua moglie era già sveglia, ma faceva finta di dormire. Per lui fu un bene. Non ce l’avrebbe fatta, a quell’ora, a sentire una voce roca sempre in guerra col mondo. Si gettò sotto la doccia, si asciugò in fretta e si osservò i baffi allo specchio. Dei denti bianchi e del naso ellenico, a lui interessava ben poco. Fissava solo i baffi. I suoi erano così perfetti che sembrava stesse tutto il giorno a pensare a loro, ma quella mattina li guardò con meno attenzione del solito. «Sei proprio uno schifo di uomo» si disse.
Li lisciò con le mani prima di mettersi addosso mezzo litro di colonia. La sparse sul corpo come se fosse acqua benedetta. Forse per questo, a cinquant’anni suonati, era ancora il sogno erotico di molte signore, anche se nessuna lo confessava apertamente. Spalle larghe, sebbene meno di un tempo, petto villoso e torace ancora imponente, impreziosito da una collanazza d’oro che lo faceva un po’ giostraio un po’ magnaccia.
Ma piaceva, eccome se piaceva, e poi era ricco. Un uomo d’antan in un mondo dove tutti volevano essere aggiornati e tecnologici: si rifiutava di mandare sms, usava internet solo per il poker on line e a tavola faceva ancora la scarpetta. Perché la scarpetta non è fame, è uno sfizio.
Ogni volta che usciva, si prendeva cura di sé come se avesse un appuntamento galante. I signori sono signori sempre, gli diceva suo padre, mica solo quando incontrano una donna. Ma mentre s’impomatava i capelli, si rese conto che non aveva ancora capito niente.
Lasciò la sua casa su due piani, uno dei quali condonato – la chiamavano il Teatro Petruzzelli di Polignano – e salì sulla Mercedes che aveva comprato per l’occasione. Il “re delle patate” doveva usare la macchina anche per fare pochi passi e a questo, pur essendo d’antan, non era riuscito a ribellarsi. Guai a farsi vedere a piedi. In paese avrebbero pensato che fosse tirchio o, peggio, che gli affari non andassero bene. Invece negli ultimi anni aveva esportato patate anche in Svezia, in Belgio e in Russia, e questo lo rendeva orgoglioso. S’immaginava petrolieri e regine che friggevano le sue p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Io che amo solo te
  4. VENERDÌ
  5. SABATO
  6. DOMENICA
  7. Copyright