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L’AVVENIRE
Richard Powers
All’età di ventisei anni, un giovane Mozart non ancora afflitto da eccessive preoccupazioni ricevette dalla fidanzata un rimbrotto che gli fece compiere un balzo in avanti nel passato o, per meglio dire, un balzo indietro nel futuro. Quell’anno, era il 1782, aveva preso a frequentare con regolarità i concerti musicali che si tenevano la domenica presso la residenza viennese del barone van Swieten. Quest’ultimo, che probabilmente più di ogni altro musicofilo influenzò il corso della musica concertistica europea, si dilettava a riscoprire le composizioni di Bach e di Haendel, imponendone l’ascolto ai più promettenti giovani musicisti di Vienna, di cui amava circondarsi. Fu proprio in occasione di quelle serate musicali che Mozart, egli stesso personificazione della levità e della freschezza dei nuovi tempi, entrò per la prima volta in contatto con i maestri della generazione passata.
Negli anni immediatamente precedenti alla nascita di Mozart si era assistito ad una delle più marcate e radicali modulazioni nella storia della musica. L’intricata boscaglia del contrappunto barocco era stata completamente estirpata per lasciare il posto alla mirabile semplicità dello stile galante, prevalentemente omofonico, e del rococò, nuova raffinata tendenza di cui la musica di Mozart sarebbe divenuta incarnazione. Sin dalla prima infanzia, quando veniva condotto da una capitale europea all’altra perché si esibisse in spettacoli dal richiamo vagamente circense, egli aveva assimilato i linguaggi musicali caratteristici delle culture nazionali dell’epoca, imparando a padroneggiare tutta la variegata gamma di espressioni musicali, dai semplici motivetti per pianoforte alle vere e proprie opere liriche di respiro internazionale. Per quanto possa sembrare che il prodigioso talento di Mozart non abbia conosciuto mutamenti nel corso del tempo, con la maturità la sua perizia compositiva raggiunse livelli sempre più elevati. Egli arricchì il già vivace e brioso stile rococò, impreziosendolo con una dimensione di introspezione psicologica, audaci armonie e un senso di arguto stupore, cimentandosi con crescente ambizione in tutte le forme musicali fin quando, all’età di 26 anni, parve infine aver raggiunto la piena realizzazione delle proprie potenzialità. Ce lo figuriamo come un giovanotto, forse un po’ perplesso, che considerava con una certa mestizia la propria assoluta padronanza degli stilemi musicali dell’epoca. Cos’altro poteva fare per mantenersi all’altezza della fama raggiunta un uomo che, ancor prima di compiere dieci anni, era stato proclamato dagli scienziati della London Royal Society un autentico prodigio della natura, e a venticinque anni aveva composto quella che probabilmente è la più straordinaria opera seria mai scritta? Non era facile prevedere a quali risultati sarebbe pervenuto Mozart o chiunque, al pari suo, potesse vantare in tale dovizia doni così raffinati ed eccelsi.
Fu allora che cominciò a frequentare i concerti domenicali a casa del barone van Swieten, acquisendo familiarità con quelle aspre e antiquate sonorità non più in voga, che la sua stessa musica aveva contribuito in così larga misura a rendere superate. Per il diletto del barone trascrisse ed interpretò numerose fughe di Bach tratte dal Clavicembalo ben temperato, ma per certi versi quell’esercizio accademico divenne quasi un’ossessione. Il 20 aprile inviò alla sorella una nuova composizione, contraddistinta da uno stile affatto differente rispetto alle sue precedenti creazioni. Vi accluse questa spiegazione:
È proprio per la mia diletta Costanza che questa fuga ha visto la luce. Il barone van Suiten [sic], dal quale mi reco ogni domenica, mi ha omaggiato degli spartiti delle opere di Haendel e di Sebastian Bach che suono per lui. Dopo aver ascoltato le fughe, Costanza se n’è perdutamente innamorata. Ora non ascolta che fughe, specialmente quelle di Haendel e di Bach. Orbene, sentendomele suonare spesso a memoria, mi ha chiesto se ne avessi mai scritta alcuna; e quando le ho risposto di no, mi ha sonoramente rimproverato di non voler comporre in questo che da un punto di vista artistico è il genere musicale più bello, e non ha smesso di pregarmi finché non gliene ho scritta una...
Sembra quasi di sentire la giocosa esasperazione, l’adorante condiscendenza nei confronti dell’amata che di lì a poco avrebbe impalmato, una donna che provava un’inspiegabile attrazione per le mode dei tempi andati. Va bene, cara: se è una fuga che desideri… Tuttavia, pare anche di cogliere una nota di ansiosa rivalità con i fantasmi del passato che proiettavano una lunga ombra sul presente.
Quel che con ogni probabilità era nato per gioco determinò, negli anni a venire, un profondo mutamento nella musica di Mozart. La metamorfosi si avverte nella maggiore ricchezza della tessitura contrappuntistica delle sonate per pianoforte composte successivamente, e nei nuovi quartetti per archi, che introducono una invenzione considerevole: ogni voce strumentale appare libera e indipendente, svincolata dalla predominanza del primo violino, da mero accompagnamento portata ad assumerne eguale rilievo, ciascuna incentrata com’è sulla propria linea melodica e al tempo stesso in dialogo con tutte le altre. In particolare, tale metamorfosi si ravvisa nelle spettacolari fughe, nel ricco contrappunto, negli stretti e nelle inversioni armoniche della Messa in do minore, nonché nel finale della sinfonia Jupiter, composizioni che appaiono simultaneamente proiettate indietro e in avanti nel tempo, dando l’impressione di essere vagamente antiquate eppure, in maniera addirittura sorprendente, del tutto innovative.
All’età di trentatré anni, al culmine della nuova fase di accresciuta forza creativa, un Mozart in preda all’inquietudine decise di riprendere a viaggiare. Sempre più gravato dai debiti, cercando forse il modo per lasciare una Vienna che cominciava a stancarsi di lui, prese in prestito del denaro e si recò in Germania. Era il 1789. In Nord America George Washington era appena stato eletto a capo di una nazione che si accingeva a sperimentare un nuovo modello politico, l’esercito austriaco conquistava Belgrado, e in Francia un movimento di rivolta sempre più radicale – evocato da Mozart e Da Ponte nella loro trascrizione musicale del Figaro di Beaumarchais – era sul punto di rovesciare una volta per tutte l’assetto del mondo.
Fece tappa a Dresda, dove strabiliò quanti lo ascoltarono. A Lipsia, secondo il racconto di un testimone,
improvvisò un’esibizione, senza ricevere compenso alcuno, suonando l’organo della chiesa di San Tommaso… davanti ad un folto uditorio per circa un’ora…
Per ricambiare, i coristi della chiesa cantarono per lui un antico mottetto per doppio coro, senza accompagnamento. Come riferisce lo stesso testimone:
Il coro non aveva intonato che poche battute quando Mozart balzò in piedi, sbigottito; ascoltò ancora qualche battuta, quindi chiese a gran voce: “Che cos’è?”
Si trattava del mottetto Singet dem Herrn ein neues Lied di Bach. Mozart conosceva solo di fama la musica vocale del grande compositore tedesco. È come se l’improvvisa rivelazione lo avesse investito con l’impeto di una rivoluzione.
Sembrava che l’anima tutta gli fosse confluita nelle orecchie. Al termine del canto, Mozart esclamò al colmo della gioia: “Però, ecco qualcosa da cui imparare!”
Quando apprese che nella chiesa era ancora custodita la raccolta completa dei mottetti di Bach, un Mozart col cuore in tumulto chiese di prenderne visione.
Non esistevano le partiture complete di quei canti, ma gli furono consegnati dei brani; era un’autentica gioia vedere con quanto entusiasmo Mozart sedeva tra i manoscritti – alcuni li stringeva tra le mani, altri li teneva poggiati sulle ginocchia, altri ancora sulle sedie intorno a lui – e, dimentico di ogni cosa, non si riscosse finché non ebbe esaminato fino all’ultimo spartito.
Ci si perdonerà se affermiamo che questo racconto suscita in noi la stessa sensazione di sofferta eppur lieta sorpresa che Mozart avvertì distintamente davanti ai vecchi neues Lied di Bach: sorprende che un uomo che già aveva trasformato la musica occidentale conservasse una tale bramosia di conoscenza. Sorprende che uno dei compositori più innovativi e all’avanguardia della storia della musica riuscisse a trarre nuova linfa creativa da un linguaggio musicale abbandonato perché ritenuto ormai esaurito.
In quel momento di stupefatta gioia vi è tuttavia un aspetto più intimo, più commovente persino. Nell’ascoltare un corpus di composizioni che ci paiono così agevolmente compiute e in sé gioiose, verrebbe difficile pensare che il fondamento peculiare del talento di Mozart, come egli stesso ebbe a sperimentare, sia l’immensa solitudine. Eppure, nel figurarselo circondato dai manoscritti dei mottetti di Bach, intento a divorarne avidamente la ricca polifonia, la constatazione appare ovvia: certo, Mozart era un uomo solo. Con chi poteva mai dialogare? Chi era in grado di comprendere il suo stato d’animo, la sensazione di trovarsi solo su un guscio di noce, sperduto in un mare di infinite possibilità?
In quel caso, per lo meno, aveva trovato qualcuno da cui imparare. E nei due anni che gli restavano da vivere ampliò la sfera delle sue conoscenze ad un ritmo sempre crescente. Nelle ultime composizioni la riscoperta di Bach è visibile un po’ ovunque: emerge all’improvviso nel preludio corale del secondo atto del Flauto magico, pervade le grandiose fughe del Requiem. In tali opere abbiamo l’impressione di ascoltare un uomo dalla sconfinata maestria musicale impegnato nell’ardua impresa di armonizzare due mondi incommensurabili, nel tentativo di dar vita ad una terza dimensione: attenuata la semplicità diatonica mediante il recupero di desueti labirinti cromatici, la razionalità illuminista si avviluppa in un groviglio inestricabile con il cosmico anelito religioso del passato, in un connubio tra classico e barocco che preannuncia il proto-romanticismo – il futuro in azione per riconquistare il suo antico spazio.
La musica è un prodotto culturale strettamente legato al proprio tempo. Nondimeno, è anche uno dei pochi strumenti a nostra disposizione per ricordare che, lungi dall’esaurirsi, le fasi culturali continuano a manifestare una propria vitalità in tutte le creazioni successive che da esse traggono fondamento. Siamo abituati a considerare lo stile come un elemento di distinzione, un tratto caratterizzante. In realtà, lo stile musicale altro non è che la modalità espressiva attraverso la quale il tempo discorre con se stesso.
Se la musica è il linguaggio del tempo, di cosa parla? La musica parla della realtà nel suo complesso, di tutte le forme attraverso cui noi la percepiamo, tanto spirituali che materiali. Ma le sole parole a sua disposizione, gli unici concetti cui rimanda, non sono che altra musica. La musica è una lunga, incessante conversazione che a noi, pubblico privilegiato, è concesso di origliare. Un canto intona la domanda: Ricordi questo? L’altro gli fa eco: Sei ancora lì? E noi, persi dietro il mutevole, frenetico superamento di ogni stile, noi che distruggendo creiamo al solo fine di rivivere, ci ritroviamo, per un attimo, in un luogo obliato, ad attingere linfa vitale da quel che eravamo convinti di aver perduto. Nell’immensa solitudine, finalmente, qualcuno con cui dialogare.
In un celebre passo, il grande teologo svizzero Karl Barth ha scritto:
È probabile che quando gli angeli attendono al loro dovere di glorificare Dio suonino solo Bach. Tuttavia, sono convinto che quando si ritrovano tra di loro en famille suonino Mozart – e che anche allora il nostro amato Signore ascolti con estremo piacere.
Malgrado il Dio di Barth appartenga ad un tempo ormai svanito, e nonostante gli angelici musici da lui evocati siano stati per lo più soppiantati da sequencer MIDI, noi, nella nostra epoca tarda – giunti al superamento di ogni stile, ad una fase in cui tutto si definisce “post”, avidi di dosi sempre crescenti di novità, più soli che mai – potremmo ritenerci soddisfatti se ricordassimo che l’avvenire è già presente in noi, col pericolo costante di essere confuso con ciò che è stato già realizzato. Se ci fermassimo un momento, potremmo forse ancora udire quell’avvenire nella musica di Mozart. Il segreto consiste nel far risuonare quella melodia che riecheggia da tempo immemorabile e, sulle cadenze di una qualsiasi antica aria ancora udibile, intonare un nuovo canto.
Traduzione di Giuseppe Costigliola
BÊTE NOIRE
Moira Egan
Cover Girl. I think about the etiology / of my life alone (that word sounds like disease // though I am happy most days). Yesterday, / for example, cruising Virginia highways // with a friend, sun shining down on our bare / shoulders, we talked about love and affairs. // I told her I can spot illicit liaisons / a mile away. Every cock-eyed husband // I know is afraid of setting off my radar. / But I wouldn’t be the one to blow his cover. //
I know that solar plexus punch of pain, / the strand of foreign hair, the wrong cologne // that wafts out at you from your man’s jacket. / The night I found the scratches down his back, // I cried myself to headache, went for aspirin / and in the mirror of the medicine cabinet // I saw the little girl who’d somehow known / that Daddy wasn’t living in his house alone. // The tampons and the Cover Girl foundation / I found there were a concrete explanation // for why he’d left, and Mom’s eyes red from crying. / That night I saw her swollen eyes in mine. // ...