L’eredità della sinistra a Roma: il buco di bilancio
Il 28 aprile 2008 Gianni Alemanno viene eletto sindaco di Roma. Una vittoria che sorprende anche se dopo il primo turno – Rutelli al 45,8% e Alemanno al 40,7% – il successo del centrodestra non era ritenuto impossibile. Lo spoglio si chiude con Alemanno al 53,7% e Rutelli al 46,3%. Il mandato, però, comincia con molte difficoltà. Nelle casse del Campidoglio non ci sono nemmeno i soldi per pagare gli stipendi per gli oltre 26mila dipendenti del Comune di Roma.
Sapevamo che la situazione finanziaria del Comune era compromessa per 7 miliardi di euro di debiti, causati dai mutui stipulati per le linee metropolitane. Eravamo consapevoli che con questa situazione così pesante di bilancio sarebbe stato un problema governare perché Roma si era indebitata più di quel che poteva permettersi. Quando venni eletto, dopo essere stato proclamato e dopo aver firmato – con una certa emozione – l’accettazione d’incarico, mi misi al lavoro pieno di entusiasmo. Dopo due giorni arrivò la prima doccia fredda: l’allora segretario generale del Comune, Vincenzo Gagliani Caputo, si presentò da me con una ferale notizia: «Guardi, sindaco, non possiamo pagare gli stipendi: non ci sono soldi». Gagliani Caputo – figlio d’arte in quanto il padre aveva ricoperto la stessa carica nel Comune di Roma – era “da sempre” il segretario generale. Fu nominato da Franco Carraro, e con questo ruolo ha servito le giunte di centrosinistra fino alla fine con Veltroni. Gagliani Caputo mi spiegò che c’era una situazione sia di squilibrio finanziario sia di mancanza di liquidità. Le poche risorse disponibili erano state tutte usate per le spese obbligatorie dei primi mesi dell’anno, cioè fino alla campagna elettorale, ma per il dopo non c’era più un euro. Chiesi come fosse possibile questa situazione di squilibrio finanziario, dato che era stato da poco approvato il bilancio di previsione 2008. La risposta alle mie domande pressanti e preoccupate è stata un inequivocabile campanello d’allarme. Gagliani Caputo mi disse: «Sindaco, come segretario generale non ho “vigilato” il Bilancio 2008 del Comune di Roma». In pratica, il segretario generale non aveva controfirmato la delibera di bilancio, pertanto la massima autorità amministrativa dell’ente comunale non garantiva la legittimità del provvedimento di Giunta, mentre il ragioniere generale Francesco Lopomo si era ritirato andando in pensione. Non solo. La Giunta di centrosinistra nel gennaio 2008 aveva ristrutturato il debito del Comune non con una deliberazione del Consiglio comunale né tantomeno di Giunta, ma con una semplice determinazione dirigenziale dell’ufficio extra dipartimentale Direzione Investimenti e Finanza! Questa ristrutturazione allungava la scadenza finale del debito di quindici anni (dal 2033 al 2048), garantendo il rispetto dell’equilibrio di parte corrente nell’ambito del bilancio di previsione 2008, grazie ai consistenti “risparmi” ottenuti per il rimborso degli interessi e della quota capitale. Ora, allungare il periodo di ammortamento non significa risparmiare, ma ridurre il peso per l’amministrazione in carica e accrescere l’onere per le generazioni future. L’effetto principale di questa ristrutturazione, infatti, è stato quello di diminuire, in modo notevole, il peso del debito nel bilancio previsionale 2008 in vista delle nuove elezioni. Pensate: l’ammortamento del bond city of Rome, emesso dalla Giunta di centrosinistra, salta completamente l’esercizio 2008 e riprende il 27 gennaio 2009, scavalcando a piè pari l’elezione della nuova Giunta. Un danno per i cittadini e un vero e proprio illecito: un’operazione di finanza abbastanza spericolata che, all’epoca, la legge consentiva solo per finanziare investimenti, non certo per pagare la spesa corrente. Autorizzare questa spregiudicata operazione finanziaria è servito solo a pagare nuova spesa corrente, coperta con il “risparmio” di circa 250 milioni di euro derivanti dal rinvio del pagamento delle rate di debito. L’equilibrio del Bilancio 2008 era pertanto falso e la copertura della spesa corrente derivava da un’operazione illecita. Tutte le nuove risorse “liberate” sono state interamente utilizzate per finanziare la spesa corrente nei mesi precedenti alle elezioni.
Ma l’opposizione di centrodestra, durante gli anni di Veltroni, cosa faceva? Non si accorgeva di niente, non vigilava?
Il bilancio 2008 e i relativi dati erano formalmente a posto. Qui parliamo di operazioni di ristrutturazione effettuate dopo l’approvazione del bilancio da parte del Consiglio comunale, di fenomeni, quindi, che non erano rilevabili da parte dell’opposizione. Infatti, la continua e nota carenza di liquidità di Roma era comunemente attribuita ai ritardi di trasferimenti da parte della Regione Lazio. Certamente non poteva essere la crisi di liquidità il solo motivo che aveva indotto Gagliani Caputo a non controfirmare il bilancio 2008. Sicuramente aveva qualche dubbio sulla legittimità piena del bilancio e, forse, la consapevolezza che la crisi di liquidità era il sintomo di uno squilibrio finanziario strutturale. Fino a quel momento tutto era stato formalmente a posto: i bilanci erano stati tutti “vigilati”. Nessun rilievo da parte degli organi di controllo. Mi correggo. Nel marzo del 2007 la sezione Lazio della Corte dei Conti aveva assunto una deliberazione che evidenziava la grave situazione di squilibrio di bilancio del Comune di Roma e trasmetteva l’atto al prefetto per gli adempimenti di competenza. Dopo qualche mese la Corte dei Conti però riconsiderò questa sua deliberazione sulla base delle informazioni e rassicurazioni che l’amministrazione capitolina fornì, limitandosi a prevedere un fondo svalutazione crediti a garanzia degli equilibri di bilancio. Probabilmente neppure i sindaci di centrosinistra si erano resi pienamente conto della marea montante di debiti che si stavano accumulando e dell’insieme di artifizi messi in campo per mantenere sostenibili i conti.
Scoperto il disastro cosa fece? Alzò il telefono e chiamò Veltroni?
No, non mi sono fidato. Chiesi consiglio a Gagliani Caputo su come fronteggiare la situazione. Lui mi rispose: «Sindaco, deve andare a Palazzo Chigi e farsi dare dei soldi, come hanno fatto i suoi predecessori».
A che titolo poteva chiedere denaro al Governo?
Come contributo straordinario per Roma. Non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta che l’amministrazione capitolina chiedeva aiuto al Governo. Domandai a Gagliani Caputo di quanto avevamo bisogno. «Con 350 milioni di euro tiriamo avanti» mi rispose. Sarebbero serviti per chiudere il bilancio dell’anno in corso. A questo punto, però, ci trovammo di fronte a un bivio politico e istituzionale decisivo. Gagliani Caputo era il garante della continuità, anche se non se l’era sentita di firmare l’ultimo bilancio ed era prossimo alla pensione. Invece abbiamo fatto una scelta diversa con l’aiuto del nuovo assessore al Bilancio Ezio Castiglione, un validissimo tecnico che aveva lavorato con me al Ministero delle Politiche agricole, decidemmo per una discontinuità assoluta. Infatti, gli approfondimenti sui dati di bilancio e sui suoi equilibri avevano fatto emergere una situazione sempre più allarmante non solo sui numeri reali ma soprattutto sull’intera struttura di bilancio, che diveniva giorno dopo giorno sempre meno “veritiera”. Non siamo andati a chiedere i 350 milioni di euro per tappare il buco, come avevano fatto i miei predecessori per “tirare a campare”, ma abbiamo assunto una scelta radicale per il futuro di Roma, nella consapevolezza che la situazione andasse affrontata con il rigore e il rispetto che i cittadini meritavano ed esigevano. Nel maggio 2008 ho richiesto al Governo e alla Ragioneria generale dello Stato, istituzione a presidio dei conti dello Stato italiano, una due diligence – ovvero un controllo completo e certificato dei conti comunali – per scavare in profondità e fotografare esattamente la situazione. Con questa scelta coraggiosa abbiamo salvato Roma. Se avessimo chiesto e, forse, ottenuto i 350 milioni di euro, rattoppato il bilancio e proseguito in continuità, dopo uno o due anni non avremmo più potuto distinguere le nostre responsabilità da quelle di chi ci aveva preceduto. Tutto si sarebbe mescolato insieme. Ma soprattutto avremmo portato Roma al dissesto, affrontando in una situazione finanziaria insostenibile la drammatica crisi economica globale che stava per abbattersi anche sull’Italia.
Chi ha avuto l’idea della due diligence?
Ezio Castiglione, convinto che le difficoltà strutturali del Comune di Roma richiedessero interventi radicali. Senza contare che la linea “continuista” delle amministrazioni precedenti non sarebbe stata accettata dal ministro Tremonti. Castiglione ebbe l’idea di subordinare l’intervento dello Stato a una due diligence, contando sull’autorevolezza e professionalità della Ragioneria generale della Stato per accertare l’esatta situazione economica e finanziaria del Comune in modo oggettivo e veritiero. L’assessore al Bilancio si rese progressivamente conto che la situazione di tensione finanziaria che stava vivendo il Comune di Roma (con il rischio di non pagare gli stipendi) era solo in parte dovuta al ritardo di alcuni creditori (per esempio, la Regione) nel trasferimento delle risorse, ma in misura notevole da una sostanziale imprudenza nella formulazione delle previsioni d’entrata e nel loro accertamento. In altri termini, venivano poste a coperture di spese correnti delle entrate che avevano avuto un tasso di riscossione molto inferiore rispetto al tasso di pagamento rilevabile per le spese correnti. L’esame dei residui attivi (crediti), difatti, ha evidenziato che molti residui erano inesistenti in quanto già prescritti o inesigibili. Significativo è il caso delle sanzioni concernenti violazioni al Codice della strada. L’importo complessivo di questa tipologia di residui attivi mantenuti in bilancio ammontava alla cifra record di 808.161.512 euro. Stante il trend delle riscossioni verificatosi negli esercizi precedenti, era facile immaginare che soltanto una minima parte di questa somma sarebbe stata effettivamente incassata. Se a questo si aggiunge la necessità di fornire liquidità ad alcune società partecipate che gestiscono servizi pubblici locali, ben si comprende il motivo per il quale il Comune sia stato costretto ad accedere, in modo sempre più massiccio, alla liquidità vincolata al fine di far fronte a pagamenti di parte corrente. Il nostro è stato un atto di grande coraggio perché questi fenomeni erano comuni a una vasta platea di enti locali, i cui bilanci dell’epoca (adesso sono subentrate norme contabili molto più severe) erano costruiti, almeno in parte, con sistemi elastici e approssimativi. Far emergere tutte le magagne, anche quelle nascoste da anni, è stato un atto di responsabilità verso la città di Roma che ha evitato un default, ovvero la dichiarazione di dissesto del bilancio comunale. Potevamo continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto, o alzare il tappeto e scoprire la voragine che era nascosta sotto. Abbiamo scelto la seconda opzione e abbiamo scoperto una voragine di gran lunga superiore a ogni previsione.
Cosa avete fatto?
Siamo andati da Berlusconi e da Tremonti e abbiamo detto loro: «Attenzione, Roma rischia di andare in default». Il dissesto di bilancio, secondo il Testo unico degli enti locali, comporta sanzioni durissime per la città, che viene paralizzata in ogni sua funzione e deve imporre il massimo di prelievo fiscale ai propri cittadini. Insieme a questo ci sarebbe stato un gravissimo danno d’immagine per Roma e per tutta l’Italia, anche considerando che il Comune aveva realizzato operazioni di finanza derivata per circa 3 miliardi di euro, in parte collegate all’emissione obbligazionaria con scadenza 2048 di nominali 1,4 miliardi di euro e in parte come operazioni collegate a mutui per un valore nominale di circa 1.589 miliardi. Una notizia gravissima avrebbe fatto in un attimo il giro del mondo: la Capitale d’Italia è fallita!
Insomma, ci siamo andati a un passo.
Non solo. Abbiamo scoperto che il disastro non riguardava soltanto il bilancio comunale ma anche quello delle società municipali Ama e Atac. Il fatto più clamoroso uscì fuori dall’Ama: la società per la raccolta dei rifiuti aveva in bilancio crediti nei confronti del Comune per circa 700 milioni di euro, cifra che però non risultava come debito nel bilancio comunale. Si trattava di numerose commesse per servizi straordinari resi al Comune che non erano mai state saldate e neppure previste come spesa. Era un altro elemento gravissimo che minacciava la tenuta complessiva del sistema. Non solo. L’Ama, su precise direttive politiche, si era lanciata in una spericolata avventura industriale in Africa con l’acquisizione di un appalto in perdita per raccogliere i rifiuti a Dakar, in Senegal. Forse questa scelta velleitaria derivava dalla grande passione di Veltroni per il continente nero. L’Ama era anche sbarcata a Bogotà e anche questa volta, l’esperienza era stata un disastro. Sulle scorribande di Ama in Senegal la Corte dei Conti ha avviato un’indagine. Lo ha reso noto il procuratore regionale Raffaele De Dominicis il 20 febbraio scorso in dichiarazioni stampa a margine della cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario 2013. «Tra le fattispecie illecite» ha detto nella sua relazione «ricordo la dissennata gestione di Ama Spa, società partecipata al 100% dal Comune di Roma. Questa società attraverso la sua controllata Ama International affidò ad Ama Senegal lo spazzamento, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani in Senegal. L’esito è stato fallimentare e i danni accumulati ingenti, con pesante accollo al Comune di Roma.» Un altro problema scoperto in quel periodo, e poi messo sotto osservazione in particolare dal procuratore De Dominicis, è stato l’uso disinvolto di derivati negli anni delle giunte di centrosinistra. Il procuratore, sempre nella sua relazione, ha annunciato un’indagine su questi derivati, definendoli «bombe a fior d’acqua».
A Palazzo Chigi che accoglienza avete avuto?
Ci sono stati incontri drammatici con i membri del Governo perché si fronteggiavano due tesi contrapposte: quella del presidente del Consiglio Berlusconi, sollecitato da Gianfranco Fini, che voleva salvare Roma con un aiuto straordinario, e quella del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che invece voleva provocare il dissesto: «Fate fallire il Campidoglio» argomentava con il sostegno dei ministri della Lega, «così saranno più chiare le responsabilità di Veltroni e il fallimento delle politiche di sinistra a Roma». Io mi irrigidii e, con una frase alla Garibaldi, mi contrapposi a quella tesi: «Non mi potete chiedere di dichiarare il fallimento di Roma, alla fine lo Stato dovrebbe comunque ripianare questi debiti, ma l’effetto dell’annuncio sarebbe disastroso anche per il resto del Paese. Una polemica con la sinistra non vale questo affronto alla Capitale». Furono riunioni molto tese, con forti scontri verbali, pugni sul tavolo. Ci vedemmo più volte a Palazzo Chigi, nella stanza di fronte all’ufficio di Gianni Letta, che in questa vicenda è stato un altro nostro fondamentale alleato. Alla fine l’abbiamo spuntata ottenendo una vera e propria legge speciale costruita su misura per Roma e fortemente innovativa dal punto di vista giuridico e contabile: è come se il 28 aprile 2008 fosse nato un nuovo Comune. È stata tracciata una linea di demarcazione con i bilanci precedenti e i debiti pregressi della Capitale, contratti prima del mio insediamento, sono stati affidati a una gestione governativa. Una sorta di bad company la cui gestione e liquidazione, non essendo più di competenza comunale, è stata affidata a un commissario di Governo. Infatti, in seguito al rapporto conclusivo dei servizi ispettivi della Ragioneria generale dello Stato, che ha individuato le forti criticità della gestione amministrativa e ha “certificato” la grave situazione economica e finanziaria del Comune di Roma, è stata costituita la Gestione commissariale, con la nomina di un commissario straordinario del Governo per la predisposizione e attuazione di un piano di rientro dall’indebitamento pregresso. Il piano di rientro, approvato con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 5 dicembre 2008, evidenziava un debito pari a 12.797 milioni di euro (compreso l’onere del rimborso del debito finanziario-quota capitale) e un ammontare di crediti pari a 3.226 milioni, con il conseguente sbilancio negativo di 9.571 milioni. Il 15 giugno 2010, a seguito di ulteriori accertamenti, il piano di rientro rivisto presentava uno sbilancio pari a euro 12.238 milioni di euro con debiti di circa 20 miliardi e crediti non riscossi per più di 7 miliardi. Grazie al lavoro approfondito del commissario di Governo Massimo Varazzani, sono emerse situazioni ancora più gravi, accertando debiti anche molto antichi, alcuni addirittura risalenti agli anni Sessanta. Per estinguere questo debito il Parlamento ha stabilito per legge di versare al commissario straordinario 500 milioni l’anno. In origine queste risorse venivano tutte dalla fiscalità generale dello Stato, poi, su pressione della Lega, il Governo decise che, di questi 500 milioni, 200 dovevano arrivare da tasse pagate dai romani. Si stabilì di far pagare un’addizionale Irpef dello 0,3% e un supplemento aggiuntivo delle tasse aeroportuali su Roma: l’assessore Maurizio Leo, subentrato a Castiglione, propose polemicamente di definire “Veltron-tax” queste imposte aggiuntive, necessarie a pagare i vecchi debiti accumulati dalle amministrazioni comunali precedenti alla nostra.
Che fine ha fatto la relazione della Commissione che ha accertato questo “buco di bilancio”?
La relazione della Ragioneria generale dello Stato è stata da me doverosamente mandata alla Corte dei Conti e alla Procura della Repubblica di Roma, anche in considerazione dell’utilizzo di derivati finanziari che in quel periodo erano all’onore della cronaca per i rinvii a giudizio operati dalla Procura di Milano relativamente al Comune di Milano. Come ho già detto, sono stati aperti dei fascicoli che sono rimasti fermi per anni, fino a quando il procuratore regionale della Corte dei Conti Raffaele De Dominicis non ha manifestato un nuovo interesse per queste pratiche con le dichiarazioni che abbiamo sopra riportato. Staremo a vedere, anche se si tratta di indagini molto complicate.
Ha mai parlato con l’ex sindaco di questi argomenti? Gli ha chiesto conto dell’eredità che le hanno lasciato?
La denuncia di questo debito accumulato creò un muro polemico tra me e la sinistra, in particolare con Veltroni e i suoi amici. In verità le altre correnti del Pd non erano poi così dispiaciute della cosa. Personalmente non mi ha mai fatto molto piacere dover attaccare un mio predecessore: quando sono diventato ministro delle Politiche agricole, ho mantenuto un rapporto positivo e cordiale con chi mi aveva preceduto, Alfonso Pecoraro Scanio e Paolo De Castro, evitando critiche gestionali anche quando potevano essere serie e fondate. Ma per il Campidoglio le cose sono andate diversamente, e per un motivo preciso. Appena si diffusero le notizie sul rischio di dissesto, cominciò un tam tam folle e demagogico da parte della sinistra romana, che cercava di sostenere che le difficoltà di bilancio comunale erano colpa della mia gestione appena insediata. Attacchi assolutamente infondati, che però trovavano un’importante cassa di risonanza nelle cronache locali di giornali come «la Repubblica» e il «Corriere della Sera». Il risultato fu che dovetti rispo...