L'uomo in coda
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L'uomo in coda

  1. 238 pagine
  2. Italian
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L'uomo in coda

Informazioni su questo libro

Fuori dal Woffington Theatre a Londra una lunga coda di persone aspetta di assistere all'ultima rappresentazione di un musical, il più popolare che si sia visto da anni. Quando finalmente le porte del teatro si aprono e la coda si muove, un uomo piega lentamente la testa sul petto e si accascia a terra, forse svenuto. Le persone accorse a soccorrerlo fanno un balzo indietro, inorridite: l'uomo è trafitto da un piccolo pugnale d'argento. Chi può aver compiuto un simile gesto, sotto gli occhi di tanti testimoni ignari? E soprattutto, chi era l'uomo in coda? Perché è stato ucciso? Non ha documenti con sé: sembra impossibile risalire alla sua identità, e ancor più al movente del suo assassino. Per fortuna il caso viene affidato all'ispettore Grant, che mettendo a frutto il suo grande acume riuscirà a venire a capo di un delitto apparentemente irrisolvibile.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804630210
eBook ISBN
9788852039485

1

L’omicidio

Era una sera di marzo, tra le sette e le otto, e nei teatri di tutta Londra si aprivano i chiavistelli di platee e loggioni. Bum, tonf, ting. Rumori sinistri, preludio a un intrattenimento serale. Ma nemmeno l’ultimo squillo di tromba avrebbe potuto elettrizzare di più gli spettatori di Tespi e Tersicore che, stremati, se ne stavano in ordinate file da quattro davanti alle porte dello svago promesso. Certo, non c’era il pienone dappertutto. All’Irving, cinque persone si accomodarono sui due scalini e sacrificarono il tepore per un po’ di sollievo; le tragedie greche non erano particolarmente in voga. Al Playbox non c’era anima viva: era un teatro esclusivo, e ignorava l’esistenza del pubblico di platea. All’Arena, che aveva inaugurato una stagione di danza classica di tre settimane, c’erano dieci persone in fila per il loggione e una lunga coda per la platea. Ma al Woffington entrambi i cordoni umani sembravano infiniti. Già da un po’, un altezzoso impiegato aveva raggiunto la coda per la platea e, distendendo il braccio, in un gesto che sembrava stroncare ogni speranza, aveva detto: «Da qui in poi, solo posti in piedi». Con una semplice contrazione del deltoide aveva separato il grano dal loglio, per poi ritirarsi nella sua condizione divina, al calduccio dietro le porte a vetri. Ma nessuno si era allontanato dalla lunga fila. Coloro che erano stati condannati a rimanere in piedi per altre tre ore sembravano indifferenti al martirio che li attendeva. Ridevano e scherzavano, passandosi corroboranti pezzetti di cioccolato avvolti in carta argentata. Solo posti in piedi, giusto? Be’, chi non era disposto a stare in piedi, e pure con piacere, l’ultima settimana di Chi l’avrebbe mai detto? La commedia musicale londinese per eccellenza teneva il cartellone da quasi due anni, ormai, e questo era il suo canto del cigno. Le prime file e i palchi erano esauriti già da settimane, e i profani, non abituati alle code, si erano ingenuamente sommati alla folla in attesa davanti alle porte sbarrate, visto che al botteghino i tentativi di corruzione si erano rivelati infruttuosi. Sembrava che a Londra ogni essere umano stesse cercando di entrare a forza al Woffington per applaudire lo spettacolo un’ultima volta; per vedere se Golly Gollan – quello stesso Gollan che era stato salvato dalla strada da un ardito agente teatrale, e che aveva colto l’occasione al volo – aveva inserito un nuovo motto di spirito nel suo trionfo di assurdità. Per attingere alla grazia e all’estro di Ray Marcable, la cometa che due anni prima era emersa dall’abisso per risplendere allo zenit, offuscando le già note stelle fisse. Ray danzava come una foglia al vento, e il suo sorriso sfuggente in sei mesi aveva messo in crisi le pubblicità dei dentifrici, prima così di moda. “Il suo fascino inafferrabile” lo chiamavano i critici, ma gli ammiratori preferivano definizioni più eccentriche, e gesticolavano e facevano le smorfie quando le parole non bastavano a esprimere tutte le sue prodigiose qualità. Ora se ne andava in America, come tutte le cose migliori, e dopo quegli ultimi due anni Londra senza Ray Marcable sarebbe diventata un deserto inconcepibile. Chi non era disposto a stare in piedi in eterno, pur di vederla ancora una volta?
Alle cinque aveva cominciato a piovigginare, e di tanto in tanto un venticello freddo giocava a spargere le gocce da un capo all’altro della fila, quasi fossero pennellate. Ma questo non scoraggiava nessuno: nemmeno il tempo riusciva a prendersi sul serio, quella sera; era come un aperitivo che riusciva a stento a essere all’altezza della cena che si prospettava. In coda, le persone tamburellavano con i piedi, e da bravi londinesi accoglievano volentieri qualsiasi distrazione venisse loro offerta nella buia gola di quella stradina. Prima si erano avvicinati gli strilloni, piccole figure dal viso sottile e impassibile, gli occhi circospetti. Erano balenati vicino alla fila come fuochi fatui, per poi dissolversi, lasciandosi dietro una scia di chiacchiericcio e pagine svolazzanti. Poi, un uomo con le gambe più corte del busto stese un tappeto tutto sbrindellato sul marciapiede umido e prese a contorcersi come fanno i ragni quando vengono presi per una zampa. I suoi tristi occhietti da rospo risplendevano di tanto in tanto dai punti più inaspettati di quella massa ingarbugliata, al punto che anche lo spettatore più indifferente sentì un brivido correre lungo la schiena. Gli diede il cambio un uomo che suonava arie popolari al violino, felicemente dimentico della corda del Mi stonata. Poi arrivarono nello stesso momento un cantante di ballate romantiche e un’orchestrina sincopata di tre persone. Si guardarono in cagnesco per un istante, e poi il solista, secondo il principio “chi primo arriva meglio alloggia”, decise di cominciare, producendosi in un lamentoso Because you came to me. Ma la prima chitarra porse lo strumento a un assistente e, i gomiti in fuori e le mani in alto, interrogò a gesti il tenore. Quest’ultimo cercò di ignorarlo, guardando oltre la sua testa, ma gli risultò difficile, perché il solista era più alto di lui e sembrava avere il dono dell’ubiquità. Il solista, dunque, perseverò per altri due versi, e poi la ballata cominciò a vacillare, incerta, finché la sua voce naturale non si ruppe in amare proteste. Due minuti dopo scomparve nel vicolo buio, borbottando minacce e lamentele, e l’orchestrina attaccò a suonare l’ultimo successo delle balere. Rispetto a quell’inopportuna resurrezione di sentimenti decaduti, questo spettacolo fu di maggiore gradimento ai contemporanei, che si misero a battere i piedi a tempo, mentre la povera vittima della forza maggiore cadde ben presto nell’oblio. Dopo l’orchestrina si avvicendarono un prestigiatore, un predicatore evangelico e un uomo che si fece legare con una corda dai nodi stupefacenti, dai quali poi riuscì a liberarsi in modo altrettanto stupefacente .
Dopo aver fatto il loro numero, tutti si dirigevano verso un altro spettacolo, e ognuno prima di andare via faceva il giro dei presenti, infilando il berretto floscio ma ugualmente importuno nelle fessure della coda e sollecitando la generosità altrui con vari “Grazie! Grazie!”. A intervalli regolari, non erano mancati venditori di caramelle, di cerini, di giocattoli e persino di cartoline illustrate. La folla aveva partecipato con qualche penny e si era ritenuta soddisfatta di quel passatempo.
Ma ecco che un sussulto corse lungo la fila – un sussulto che poteva voler dire solo una cosa. Gli sgabelli furono messi via o ripiegati, e il cibo cedette il posto ai portafogli. Le porte si spalancarono. Ebbe inizio la scommessa del secolo. L’avrebbero vinta o l’avrebbero persa nel tempo di arrivare allo sportello? All’inizio della coda, dove l’ordine era meno rigido, all’apertura dei cancelli l’entusiasmo aveva per un attimo prevalso sull’abituale istinto degli inglesi a restare al loro posto – dico “degli inglesi” non a caso: agli scozzesi manca del tutto. Lì, davanti al botteghino, che si trovava all’entrata della platea, c’erano stati qualche spintarella e qualche assestamento prima che la fila tornasse immobile in un’unica massa compressa e prossima al soffocamento. Il tintinnio delle monete sull’ottone rivelava il continuo procedere di pagamenti frettolosi che davano ai privilegiati le chiavi del paradiso. Quei rumori bastavano perché la gente più indietro, quasi senza rendersene conto, cominciasse a spingere, finché chi stava davanti non si metteva a protestare nella misura in cui lo permettevano i polmoni schiacciati. Un poliziotto si diresse verso la fine della coda per riportare l’ordine. «Insomma, andate un po’ indietro. Che fretta c’è? Non è a furia di spingere che entrerete. Ogni cosa a suo tempo.» Di tanto in tanto tutta la fila avanzava con passo incerto di qualche centimetro, ogni volta che i più fortunati lasciavano a gruppetti di due o di tre la testa della coda, come perline che scivolano via da un filo rotto. Una donna grassa indugiò un istante per frugare nella borsetta alla ricerca di altri soldi. Quella scema poteva controllare prima l’importo esatto, invece di far perdere agli altri tutto quel tempo! Come se si fosse accorta dell’ostilità nei suoi confronti, la donna si girò verso l’uomo dietro di lei e disse con stizza:
«Signore, la pregherei di smetterla di sgomitare. Una signora non può nemmeno prendere il portafogli senza che tutti si dimentichino le buone maniere?»
Ma l’uomo al quale si era rivolta non le prestò attenzione. Teneva la testa china sul petto, e solo la sommità del suo morbido cappello incontrò quell’occhiataccia indignata. La donna sbuffò e, scostandosi da lui per avvicinarsi al botteghino, rovesciò con un solo gesto le monete che aveva cercato. E allora l’uomo cadde pian piano in ginocchio, e quelli dietro per poco non gli finirono addosso; rimase così per un attimo per poi scivolare giù di testa ancora più lentamente.
«Uno è svenuto» disse qualcuno. Nessuno si mosse. Oggi farsi gli affari propri quando si è in mezzo alla folla è questione di istinto di conservazione, tanto quanto la versatilità del camaleonte. Magari qualcuno lo conosceva. Ma nessuno disse niente; e così un uomo dotato di maggior senso civico, o forse di maggior presunzione rispetto agli altri, si fece strada per andare in soccorso del collassato. Era sul punto di chinarsi su quel corpo esanime, quando si bloccò come se l’avesse punto qualcosa, e indietreggiò di scatto. Una donna emise tre strilli terribili, e la gente intenta a spingere e a strattonare s’immobilizzò di colpo.
Sotto il fascio bianco delle lampadine appese al soffitto, il corpo dell’uomo, isolato dall’istintiva ritirata degli altri, rivelava ogni dettaglio. Dal tweed grigio del cappotto sporgeva un piccolo oggetto argentato che brillava, sinistro, alla luce funesta.
Era il manico di un pugnale.
Nemmeno il tempo che si levasse il grido “Polizia!”, che l’agente era già accorso, abbandonando la sua opera di pacificazione in fondo alla fila. Si era voltato al primo grido della donna. Nessuno urlava in quel modo se non all’improvviso incontro con la morte. Rimase per un attimo a osservare la situazione, poi si chinò sull’uomo e gli girò delicatamente la testa verso la luce; infine la lasciò andare e disse all’addetto del botteghino:
«Chiami ambulanza e polizia.»
Poi posò lo sguardo sconvolto sulla coda.
«Qualcuno conosce il signore?»
Ma nessuno sembrava saperne niente di quella cosa immobile a terra.
Dietro di lui c’era una coppia proveniente dai ricchi quartieri residenziali. La donna si lamentava in continuazione con un tono di voce piatto: «Oh, Jimmy, andiamo a casa! Andiamo a casa!». Dall’altro lato, davanti al botteghino, la grassona, paralizzata da quell’orrore improvviso, stringeva i biglietti nei guanti neri di cotone, ma proprio quando finalmente le era stata aperta la via non aveva più fretta di accaparrarsi un posto a sedere. Lungo la fila, la notizia si diffondeva come fuoco nella paglia – un uomo era stato assassinato! – e la folla nel vestibolo divenne preda di una confusione disperata: chi cercava di allontanarsi da ciò che aveva rovinato ogni lieta prospettiva, chi spingeva per vedere qualcosa, e chi, indignato, combatteva per difendere il posto per il quale era rimasto in piedi così a lungo.
«Oh, Jimmy, andiamo a casa! Andiamo a casa!»
Infine Jimmy aprì bocca: «Non credo che possiamo andarcene così, cara mia, finché la polizia non ci dice se ha bisogno di noi».
A quelle parole l’agente rispose: «Ha ragione, non potete andarvene. I primi sei rimangano dove sono. Anche lei, signora» aggiunse rivolto alla grassona. «Gli altri passino pure.» E fece cenno con il braccio di proseguire, come per smistare il traffico accanto a una macchina in panne.
La moglie di Jimmy scoppiò in singhiozzi isterici, e la grassona si mise a protestare. Era venuta per vedere lo spettacolo, e quell’uomo non sapeva nemmeno chi fosse. Le quattro persone dietro la coppia ricca erano altrettanto restie a essere coinvolte in una questione di cui non sapevano niente, con delle conseguenze che nessuno poteva prevedere, e si affrettarono a professare la loro ignoranza.
«Può anche darsi» fece il poliziotto. «Ma dovrete spiegare tutto in commissariato. Non c’è niente da temere» aggiunse, per confortarli, ma suonando poco convincente viste le circostanze.
La coda riprese ad avanzare. L’usciere coprì il corpo con una tenda verde rimediata chissà dove. Il meccanico tintinnio delle monete ricominciò, con la stessa indifferenza della pioggia. L’usciere, abbandonata la sua abituale calma olimpica, vuoi per la brutta situazione in cui si trovavano, vuoi nella speranza di una ricompensa, si offrì di tenere i posti che spettavano ai sette derelitti. Poco dopo, arrivarono ambulanza e polizia del commissariato di Gowbridge. Un ispettore interrogò rapidamente i sette trattenuti, si segnò nomi e indirizzi, e li congedò raccomandando loro di tenersi reperibili. Jimmy spinse la moglie singhiozzante su un taxi, mentre gli altri cinque si diressero con passo sicuro verso i posti davanti ai quali si stagliava l’usciere, giusto in tempo per vedere il sipario che si alzava sullo spettacolo serale di Chi l’avrebbe mai detto?

2

L’ispettore Grant

Il sovrintendente Barker poggiò il suo curatissimo indice sul campanello d’avorio, nella parte inferiore dello scrittoio, e lo tenne premuto finché non comparve un agente.
«Di’ all’ispettore Grant che voglio vederlo» ordinò al tirapiedi, che stava facendo del suo meglio per apparire ossequioso in presenza del grand’uomo; ma ecco che le sue buone intenzioni furono vanificate dai rotolini di grasso, che lo costrinsero a piegarsi un po’ all’indietro per non perdere l’equilibrio, e dal profilo del naso che era l’apoteosi dell’impudenza. Cosciente del fallimento, e amareggiato, il tirapiedi si ritirò per recapitare il messaggio e sotterrare il ricordo dell’imbarazzo nell’insensibile perfezione di schedari e fogli protocollo. Poco dopo, l’ispettore Grant entrò e salutò il suo superiore con fare allegro e amichevole. Davanti a lui il viso di Barker, seppur involontariamente, s’illuminò.
Se Grant aveva un pregio, al di là della consueta dedizione al dovere e di una buona scorta di coraggio e materia grigia, era quello di sembrare tutto fuorché un poliziotto. Era di altezza media e di corporatura snella, ed era... be’, se dico chic, penserete subito a un manichino, inappuntabile ma privo di personalità, e Grant non era per niente così. Tuttavia, se riuscite a immaginarvi un tipo di raffinatezza ed eleganza che non sono da manichino, ecco, quello era Grant. Per anni Barker si era sforzato di emulare la ricercatezza del suo sottoposto, ma era stato tutto vano: riusciva al massimo a sembrare troppo azzimato. Gli mancava l’originalità nel vestire, così come in molti altri campi. Era uno sgobbone – questa era la cosa peggiore che si potesse dire sul suo conto. E quando sgobbava appresso a un criminale, questo rimpiangeva di essere venuto al mondo.
Ecco che il sovrintendente guardò il suo sottoposto con un’ammirazione priva di rancore, apprezzò il suo approccio mattiniero – lui era stato sveglio quasi tutta la notte per la sciatica – e arrivò subito al dunque.
«A Gowbridge non ne possono più» disse. «Figurati che stanno cominciando a pensare che sia un complotto!»
«Ah sì? Qualcuno si sta divertendo a prenderli in giro?»
«No, no, ma quello di ieri sera è il terzo caso importante nel loro distretto in tre giorni, e ne hanno fin sopra i capelli. Vogliono passarlo a noi.»
«Qual è? Quello della fila al teatro?»
«Sì, ed è tuo. Quindi datti da fare. Portati Williams. Barber voglio mandarlo nel Berkshire per quel furto a Newbury. Dobbiamo arruffianarci la gente del posto, data la nostra intrusione, e Barber è più bravo di Williams in queste cose. È tutto, credo. Vai a Gowbridge al più presto. Buona fortuna.»
Mezz’ora dopo, Grant stava interrogando il medico legale di Gowbridge. Sì, l’uomo era già morto quando era stato portato in ospedale, gli venne spiegato. L’arma era uno stiletto sottile ed estremamente affilato. Era stato conficcato nella schiena dell’uomo alla sinistra della colonna vertebrale, con una forza tale che l’impugnatura aveva schiacciato e appallottolato gli indumenti, bloccando la fuoriuscita del sangue. Quello che era sgorgato si era fermato attorno alla ferita senza arrivare alla superficie. Secondo il medico, l’uomo era stato pugnalato da un lasso di tempo considerevole – forse dieci minuti o più – quando era caduto a terra allo spostarsi delle persone attorno a lui. In quella calca poteva essere stata la folla a reggerlo e a farlo avanzare. In effetti, anche volendo, sarebbe stato a dir poco impossibile cadere in mezzo a una ressa del genere. Il medico riteneva altamente improbabile che l’uomo si fosse anche soltanto reso conto di essere stato colpito. In quelle occasioni si spingeva, ci si accalcava, e capitava che ci si facesse male, al punto che un colpo improvviso e non troppo doloroso poteva anche non essere avvertito.
«E della persona che lo ha accoltellato sa dirmi qualcosa? Ha notato niente di particolare nella pugnalata?»
«No, solo che l’uomo deve essere forte e mancino.»
«Non può essere una donna?»
«Ci vuole più forza di quella di una donna per conficcare la lama in quel modo. Sa, non ha avuto molta libertà di movimento col braccio. Il colpo deve essere stato inferto da una posizione di riposo. No, no, è opera di un uomo. E di uno particolarmente risoluto, per giunta.»
«E cosa mi può dire della vittima?» domandò Grant, che voleva un parere scientifico su ogni argomento.
«Non molto, in realtà. Ben nutrito... benestante, direi.»
«Intelligente?»
«Sì, molto, direi.»
«Che tipo era?»
«Cioè che lavoro faceva?»
«No, quello posso desumerlo da me. Che tipo di... temperamento, diciamo?»
«Ah, in quel senso.» Il medico ci pensò su per un momento. Sembrava dubbioso. «Be’, nessuno può dirlo con certezza... lo capisce, vero?» E quando Grant glielo riconobbe, proseguì: «Però io lo chiamerei un tipo da “cause perse”». Sollevò le sopracciglia con fare interrogativo verso l’ispettore e, accertatosi che lo stesse seguendo, aggiunse: «Dal viso si direbbe una persona abbastanza concreta, ma le mani sono quelle di un sognatore. Guardi lei stesso».
Osservarono il corpo. Era di un giovane tra i ventinove e i trent’anni, snello, biondo, occhi nocciola, di statura media. Le mani, come aveva fatto notare il medico, erano lunghe e affusolate e non abituate al lavoro manuale. «Probabilmente era lì da un po’» disse il medico abbassando lo sguardo sui piedi dell’uomo. «E camminava con l’alluce sinistro piegato verso l’interno.»
«Crede che l’aggressore avesse conoscenze di anatomia?» domandò Grant. Sembrava quasi incredibile che da una ferita così piccola potesse esala...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Josephine Tey
  3. L'uomo in coda
  4. 1. L’omicidio
  5. 2. L’ispettore Grant
  6. 3. Danny Miller
  7. 4. Raoul Legarde
  8. 5. Ancora Danny
  9. 6. Il Latino
  10. 7. Qualcosa si muove
  11. 8. La signora Everett
  12. 9. Grant ottiene informazioni inaspettate
  13. 10. Una capatina al Nord
  14. 11. Carninnish
  15. 12. La cattura
  16. 13. Il tempo passa
  17. 14. La dichiarazione
  18. 15. La spilla
  19. 16. La collaborazione della signorina Dinmont
  20. 17. La soluzione
  21. 18. Conclusione
  22. Copyright